Se
c’è un vantaggio ad ascoltare centinaia di dischi all’anno e dei generi più
disparati, è quello che, un po’ per allenamento e un po' per l’offerta che,
diciamo così, non è sempre di primissimo livello, si finisce per riconoscere al
volo le grandi canzoni. All I Ever See In You Is Me, sophomore della songwriter
newyorkese, Jillette Johnson, ne è pieno. Canzoni a cui è difficile rinunciare,
canzoni perfette nelle loro accattivanti melodie, canzoni che messe sul piatto
suonano subito come istant classic, roba che fra un decennio continueremo ad
ascoltare con enorme soddisfazione. Ventotto anni appena compiuti, nata in
California, ma cresciuta a New York, dove fin dall’infanzia ha iniziato a
suonare il pianoforte, Jillette Johnson è una di quelle musicista che vorremmo
fossero in vetta alle classifiche, ma che, a ben vedere, sono troppo raffinate
e complicate per poter piacere a tutti. Poco male: coloro che avranno la
fortuna di ascoltare questo disco, si sentiranno dei privilegiati. Jillette
suona il piano e canta, con un timbro da soprano nitido, cristallino, potente.
Niente a che vedere, però, con Regina Spektor o Tori Amos, artiste con le quali
verrebbe da fare un immediato paragone. La Johnson somiglia per mood più a una
Lana Del Rey meno torbida e crepuscolare, e per creatività compositiva, invece,
non è affatto peregrino un paragone con Laura Nyro. Jillette scrive canzoni che
potremmo definire di adult pop, se la definizione non fosse assolutamente
riduttiva: nella sua musica, infatti, confluiscono elementi west coast,
americana rivisitata in chiave indie, melodie pop da FM seventies e leggere
inflessioni jazzy. Il tutto condito da una vena drammatica che non sfocia mai nel
melò, ma che vibra semmai di autentico pathos. Se a produrre, poi, è il
plurivincitore di Grammy Awards, Dave Cobb (Jason Isbell, Chris Stapleton,
Sturgill Simpson) il risultato è garantito. Le undici canzoni in scaletta vi
ruberanno il cuore, statene certi. A partire dall’incipit pianistico di Bunny, tanto languida da commuovere alle
lacrime, non c’è un colpo che non vada a segno. Love Is Blind è un numero alla Stevie Nicks, un velo d’oro e di seta
che si perde nel vento della notte. Da brividi. Brividi che tornano copiosi
nella successiva Throw Out Your Mirror,
una ninnananna pianistica, sommessa ma diretta, che terrà compagnia alle vostre
pene d’amore, qualora aveste bisogno di una colonna sonora per lo struggimento.
Questa è perfetta. Se Holyday è un
mid tempo dall’appeal radiofonico e dal retrogusto “notturno newyorkese”, e
Flip A Coin, gioca col chiaro-scuro di accordi in minore, I’m Sorry è una di quelle ballate anni ’70, che suonata dal vivo,
accende in un lampo migliaia di accendini. Tutti abbracciati, vicini vicini, a
cantare insieme nel cuore della notte. E potremmo citare anche le altre canzoni
di questo splendido album, cosa che evitiamo per motivi di spazio. Un cenno,
però, va a In Repair, lentone intriso
di cupa malinconia, il cui ritornello stende come un uppercut da K.O.,
dimostrando ulteriormente che ci troviamo al cospetto di una ragazza che
compone con maturità da veterana e interpreta col cuore che sanguina con la
passione dei vent’anni. Merito anche di Cobb che ha lo straordinario dono di
mettersi al servizio degli artisti che segue, spingendo al massimo sulle loro
potenzialità ed evitando rimaneggiamenti invasivi. Un disco che a fine anno
sarà sicuramente ai piani alti delle nostre classifiche e che, ci scommetto un
paio di birre, si porterà a casa un Grammy Award.
VOTO:
8
Blackswan, sabato 12/08/2017
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