Vent’anni
di carriera sono un traguardo ragguardevole, certo, ma non impossibile
da raggiungere. Quel che fa la differenza, però, non è il tempo
trascorso, ma è la strada che si è scelto di percorrere. In tal senso,
la discografia dei pesaresi Cheap Wine rappresenta quasi un unicum
nell’accidentata geografia dell’indie italiano: un percorso di qualità e
di coerenza artistica, alla ricerca di un suono che, per quanto
suggerisca una parentela stretta con il grande rock statunitense, oggi
si è trasformato in un marchio di fabbrica. Tanto che i continui
richiami al Paisley Underground o a ingombranti figure come Bruce
Springsteen o Neil Young, pur necessari a inquadrare il genere, non
rendono merito alla band: i Cheap Wine suonano come i Cheap Wine, il
loro pedigree è autorevole, la loro musica, così densa di passione, così
potente ed evocativa, è immediatamente riconoscibile. Dreams non solo
sigilla splendidamente un ventennale di carriera senza sbavature, ma
rappresenta anche l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con Based
On Lies (2012) e proseguita con Beggar Town (2014). Tre dischi legati a
doppio filo, tre dischi che intrecciano l’arte della canzone con la
riflessione sociale e politica, che rinsaldano quel legame, spesso
dimenticato, tra la musica e le liriche, intese come strumento per
veicolare consapevolezza e ragionamento. Se Based On Lies raccontava con
amarezza la deriva etica di un mondo dominato dalla menzogna, e Beggar
Town osservava la miseria e lo sfacelo di una società in debito
d’ossigeno, spronando però alla ricerca di un riscatto, Dreams sposta
ulteriormente la prospettiva, introducendo il tema del sogno, come
lasciapassare per immaginare e realizzare un mondo migliore. Il sogno
come dimensione notturna delle nostre coscienze, come habitus mentale
per approcciarsi alla vita e guardare al di là delle convenzioni, come
raccoglimento che ci preserva dalla frenesia dei nostri giorni (“La fretta sperpera il tempo, a volte è meglio rallentare e allontanarsi dalla città”
da Cradling My Mind), ma anche come romito ai problemi della vita,
immaginario imprevedibile attraverso cui ci scindiamo dalla nostra
fisicità. Su questo tema, complesso ma ricco di spunti, sono incentrati i
testi di Marco Diamantini, la cui voce intensa, carezzevole e al
contempo potente, viene assecondata da una band che interpreta al meglio
il mood dell’album: la sezione ritmica di Alan Giannini (batteria) e
Andrea Giaro (basso), asciutta, precisa, sostanziale, il tocco alle
tastiere di Alessio Raffaelli, che cuce le emozioni in un’onirica
visione di chiaroscuri, e la chitarra di Michele Diamantini, essenziale
nella costruzione dei riff, tanto fantasiosa nell’uso del pedale wah
wah, quanto innervata di tensione e drammaticità nel momento in cui ruba
la scena per un assolo. Pochi dischi riescono a possedere una tale
compattezza emotiva, a esprimere senza cedimenti un pathos autentico,
che si rigenera, di canzone in canzone, in un alternanza fra giorno e
notte, fra sogno e realtà, fra illusioni ipnagogiche e la certezza
tangibile del risveglio. In scaletta non troviamo un solo filler, e ogni
brano è frutto di una sincera ispirazione: dalla zampata rock
dell’iniziale Full Of Glow, così possente nella sua classicità, all’andamento caracollante di Naked, emozionante gioco di rimandi fra chitarra e hammond, fino agli echi seventies dell’intensa Reflection e alla cupa malinconia di Pieces Of Disquiet,
sprofondo notturno infestato dai fantasmi del mal di vivere. Un disco
superbo, dunque, la cui bellezza potrà stupire solo coloro che, fino a
oggi, non hanno ancora avuto modo di conoscere la musica dei Cheap Wine.
Per tutti gli altri, la conferma che anche in Italia esiste una grande
rock band.
A suggellare la celebrazione del ventennale, sul sito del gruppo (www.cheapwine.net)
è in vendita un libro che raccoglie, in 274 pagine, tutti i testi delle
canzoni. Vent’anni di emozioni da non lasciarsi sfuggire.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 31/10/2017