Fin
dal primo ascolto di questo album di debutto è chiaro che Bette Smith,
musicista originaria di New York (è cresciuta nel quartiere Bedford-
Stuyvesant, cuore della cultura afroamericana e location del film Fa La
Cosa Giusta del regista Spike Lee), sia già in possesso dello spessore
artistico di una veterana. Lo si capisce dalla coerenza di un suono
strutturato e rodatissimo, ancorché viscerale, dalla scelta di spostarsi
a registrare in Mississippi con l’etichetta indipendente Big Legal Mess
e di scegliere come produttore Jimbo Mathus, uno che conosce a menadito
il roots sudista, che ha Memphis nel sangue e che ha suggellato una
carriera importante (è a capo degli Squirrel Nut Zippers e ha alle
spalle una decina abbondante di dischi solisti) suonando per un paio
d’anni gomito a gomito con il grande Buddy Guy.
Jetlagger,
quindi, fonde alla perfezione due diverse anime: quella dell’artista
cresciuta sui marciapiedi della metropoli ascoltando i dischi di Otis
Redding, dichiarato mentore della Smith, e quella del sud degli States,
proprio dei luoghi, cioè, dove quella musica ha avuto origine e ha
vissuto anni gloriosi. Mathus, poi, ha preteso di registrare tutto in
presa diretta, in modo che questa combinazione incandescente, questo
meltin’ pop tra asfalto di periferia, garage power e amore viscerale per
il soul classico di derivazione Stax, possedesse la ferocia
take-no-prisoners che incendiò le performance di James Brown all’Apollo
Teather di New York, nel lontano 1963. Paragone ingombrante, forse, ma
decisamente calzante. E poi, c’è una voce straordinaria: a metà fra
quello di Betty Davis e quello di Macy Gray, il timbro sgarbato e
graffiante della Smith dà fuoco alle polveri di dieci canzoni in cui
rivive, in una chiave decisamente ruvida e rockeggiante, il mood che
animava i dischi di Sly & The Family Stone, Millie Jackson e Ike
& Tina Turner (sulla scaletta aleggia lo spirito guida di Nutbush
City Limits).
I Will Feed You
apre il disco dimostrando la pasta di cui è fatta la ragazza: numero da
fuoriclasse per una spettacolare ballata dagli echi seventies, che si
sviluppa sulle alternanze fra rock e soul, chitarra acustica ed
elettrica, pieni e vuoti. Spiazzante e memorabile. La title track,
invece, spinge forte sul versante r’n’b, sei corde e fiati a spartirsi
la scena, e la voce maleducata e gutturale della Smith a evocare Tina
Turner. Devastante, poi, la cover di I Found Love dei Lone Justice che, depurata degli accenti eighties dell’originale, corre sparata a una velocità quasi punk, così come Manchild,
chitarre in resta e tonnellate di energia che neanche Southside Johnny
& The Asbury Jukes. La Smith, però, sa eccitare gli animi anche
quando rallenta un poco il passo, innervando di tensione funky Durty Hustil, brano che sembra preso dalla colonna sonora di un film Blaxploitation o quando trasfigura in un ruggito leonino City In The Sky, classico soul portato al successo dalle Staple Sisters nel 1974.
Esuberante
e selvaggia, Bette Smith sfodera un disco d’esordio senza compromessi,
che colpisce come un uppercut in pieno mento: una voce che strattona e
un suono ruvido e impetuoso, che Mathus cavalca e doma con una
produzione coraggiosa e senza orpelli. Uno dei migliori esordi
dell’anno.
VOTO: 8
Blackswan, lunedì 25/12/2017
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