20. BETTE SMITH – JETLAGGER
(Big Legal Mess, 2017)
Esuberante e selvaggia,
Bette Smith sfodera un disco d’esordio senza compromessi, che colpisce come un
uppercut in pieno mento: una voce che strattona e un suono ruvido e impetuoso,
che Mathus cavalca e doma con una produzione coraggiosa e senza orpelli. Uno
dei migliori esordi dell’anno.
19. BECCA STEVENS –
REGINA (Ground Up Music, 2017)
Sono molti, infatti,
gli aspetti che faranno fare il classico balzo sulla sedia a coloro che ama la
musica di qualità. In primo luogo, una voce incredibile, per estensione e
modulazione, capace di muoversi su diversi registri con una duttilità
disarmante; e poi, la scrittura, con cui Becca prende le distanze dalla
consueta formula canzone, per creare brani mai lineari, in cui efficacissime
melodie pop si sposano con la raffinatezza della ballata jazzy, con le radici
di un folk suonato in punta di plettro e con una strumentazione anomala, che
vede protagonisti il charango (strumento a corde utilizzato nella musica
popolare sudamericana) e l’ukulele.
18. NICOLE ATKINS –
GOODBYE RHONDA LEE (Single Lock Records, 2017)
Goodnight Rhonda Lee
non e' solo un ritorno in grande stile ma, e' fuori di dubbio, suona come il
miglior disco di Nicole in assoluto. In queste undici canzoni confluisce
l'amore (rectius: venerazione) per il lume tutelare Roy Orbison (A Little
Crazy, la title track), la capacita' di maneggiare il piu' classico
funky soul con arrangiamenti tanto originali da far pensare a Laura Nyro (Darkness
Falls So Quiet, Listen Up), di metterci il cuore in mano con ballate
al caramello (Colors), di scivolare leggera sul velluto jazzy di torch
songs sussurrate nel cuore della notte (A Night Of Serious Drinking), di
distillare gocce di autentica gioia con le pallettes glamour dell'irresistibile
groove di Sleepwalking
17. JADE JACKSON – GILDED (Anti, 2017)
Etichettata un po’
frettolosamente sotto il genere country, quest’opera prima è, invece, un riuscito
disco di pop-rock che, mi prendo un azzardo, potrebbe far pensare a un album
dei Cranberries (No Need To Argue?) che invece di bere Guinness al pub,
preferiscono carburare con Budweiser e Bourbon. Sarà che il cantato altalenante
della Jackson ricorda quello di Dolores O’riordan, anche se poi il timbro
scorbutico e la pronuncia un po’ strascicata fanno pensare a Lucinda Williams;
o sarà che tutto il disco gioca sull’interplay fra chitarre acustiche ed
elettriche, che innescano melodie irresistibili o liberano grintosi riff di
chitarra, su cui si sente la mano ruvida di Mike Ness. Sarà quel che volete, ma
l’ombra della band irlandese aleggia su tutto l’album, a partire da Aden,
opener pop (rock) e perfetta radio song, e a chiudere con il rock (pop) di Better
Off, due brani che sigillano una scaletta in cui prevale la ballata (l’arioso
folk di Back When, il blues sgranato dell’ottima Bridges) ma che contiene anche
qualche brano più energico, come la graffiante e punk oriented Good Time Gone,
che si chiude con la batteria in up tempo e un vibrante assolo di
chitarra portato in eredità dai Social Distortion.
16. SUNNY SWEENEY –
TROPHY (Aunt Daddy Records, 2017)
Trophy è un disco senza
cedimenti, che nobilita la grande tradizione roots, esibendo nel contempo una
modernità e una freschezza di songwriting davvero inusuali. Alla Sweeney non
manca nulla per essere annoverata tra le migliori artiste country in
circolazione, se non forse l’album dall’eclatante riscontro mediatico, che la
conduca definitivamente fuori dai confini della scena texana, imponendone il
nome a livello nazionale. Con questo nuovo e azzeccatissimo Trophy, potrebbe
esserci riuscita.
15. LEE ANN WOMACK –
THE LONELY, THE LONESOME & THE GONE (Ato Records, 2017)
Oggi, la Womack pare
essere tornata sui suoi passi, ricominciando a percorrere i sentieri di
un’Americana più complessa nella struttura e, come si capisce da questo nuovo
The Lonely, The Lonesome & The Gone, attraversata da crepuscolari umori soulA
parere di chi scrive, ma credo la differenza la si possa cogliere ascoltando in
sequenza cronologica gli album fin qui citati, questa nuova stagione creativa
ci consegna un’interprete e una songwriter al top della propria maturità
artistica, tanto che questo nuovo full lenght può tranquillamente definirsi il
migliore mai rilasciato dalla Womack.
14. SAMANTHA FISH –
BELLE OF THE WEST (Ruf, 2017)
La Fish ha messo da
parte la sua chitarra elettrica e i suoi viscerali assoli per abbracciare il
suono del territorio, ma non ha perso un briciolo né di passione né di potenza.
Impossibile, allora, non essere travolti dalla piena di Cowtown, funky
blues che gira dalle parti dei North Mississippi Allstars, o dal beat
inesorabile di Poor Black Mattie, bluesaccio assassino preso in
prestito dal repertorio di R.L. Burnside e cantato in duetto con Lightnin’
Malcom. La Fish, però, sa anche toccare le corde del cuore, inanellando tre
ballate al limitare della notte: gli struggimenti d’amore raccontati in Nearing
Home, cantata in duetto con Lillie Mae, il malinconico dark swamp di Daughters,
quadro a tinte fosche di disperazione famigliare, e il passo spettrale di Don’t
Say You Love Me, canzone disturbata dall’ossessionante violino della Mae.
Da citare, poi, anche il country millesimato della title track, a
dimostrazione di quanto sia versatile il songwriter di Samantha Fish,
un’artista che in un anno ha piazzato un uno-due da k.o., dimostrando di aver
avuto la forza di uscire dai confini di genere (rock blues) entro i quali si
muoveva a inizio carriera, e grazie a passione, entusiasmo ed energia
giovanile, aver liberato una creatività che, è più una certezza che un
auspicio, la può portare ovunque.
13. NIKKI LANE –
HIGHWAY QUEEN (New West, 2017)
Il countrypolitan
grezzo e vagamente retrò e gli elementi roots che informavano il precedente
lavoro prodotto da Auerbach, in Highway Queen vengono decisamente levigati e
hanno un evidente ruolo di contorno. Eppure, quando parte l’irresistibile
Jackpot, primo singolo tratto dall’album, e la Lane grida a squarciagola Viva Las Vegas! raccontando una notte
passata giocando alle slot machine e seducendo ragazzi, torna a divampare
quella fiamma che aveva reso leggendaria Emmylou Harris e la sua Hot Band.
Highway Queen, dunque, ci restituisce un artista in gran forma ma evidentemente
alla ricerca di una nuova identità. Se i precedenti lavori erano valsi alla
Lane un successo a dir poco inaspettato e una notevole visibilità in ambito
country, oggi, la cantautrice del South Carolina si rivolge a un pubblico più
ampio, portando in dote il suo retroterra ma imboccando anche strade diverse.
Possa piacere o meno questo cambio di rotta, il risultato finale è però un
disco vario, divertente e ricco di suggestioni.
12. LOW CUT CONNIE –
DIRTY PICTURES VOL. 1 (Contender, 2017)
Registrato presso gli
Ardent Studios di Memphis, Dirty Pictures è un disco è un disco breve (dura
poco più di mezz’ora) ma che riesce a dire tutto ciò che si è prefissato,
centrando perfettamente l’obbiettivo, senza fronzoli e inutili fillers. Si
parte con Revolution Rock’n’Roll che, ha dispetto del titolo, è invece
un brano venato di gospel con un ritornello furbissimo che acchiappa fin dal
primo ascolto. Dirty Water e Death And Destruction confermano
la nomea di rock’n’roll band dei Low Cut Connie e rileggono con piglio
sbarazzino quella musica che proprio a Memphis era nata tanti anni fa. Il disco
trabocca, poi, di citazioni, a volte al limite del plagio, ma proposte con una
sfrontatezza guascona che rende tutto credibile. Il riff rock blues di Love
Life è il figliastro funky coloured di Cocaine, versione Eric
Clapton; Am I Wrong? fa clamorosamente il verso agli Animals di We
Gotta Get Out Of This Place mentre il funkettino di Controversy
sembra uscita da un disco degli INXS. C’è ancora spazio per la conclusiva What
Size Shoe presa di distanza dalle politiche estere degli States (Ain't
this the United States/Ain't this the home of the brave?) e Montreal,
ballata per pianoforte che ha fra i suoi parenti stretti Thirteen dei
Big Star (che guarda caso, proprio agli Ardent Studios di Memphis hanno scritto
pagine immortali).
11. RON GALLO – HEAVY META
(New West, 2017)
La miscela è esplosiva:
punk’n’roll, garage, brit pop e generose pennellate di glam rock. Per
intenderci è come se i primi Arctic Monkeys suonassero il repertorio dei T-Rex.
La produzione è pressoché perfetta e si percepisce una compattezza stilistica,
non certo riferibile a un esordiente, ma a chi ha già creato un suono ben
identificabile, solido e urticante. Un esordio ribollente, in cui i momenti
topici si sprecano, come nel garage 3.0 di Puts The Kids To Bed, nel mid – tempo
rock di Poor Traits Of The Artist, nella ballata beatlesiana in quota Lennon di
Can’t Stand You o nelle schitarrate glam della magnifica Young Lady, You
Scaring Me. A chiosa del disco, arriva All The Punks Are Domesticated, una
ballata che è già un istant classic, un pezzo che odora di leggenda fin dalle
prime note, con cui Gallo si sofferma con sarcasmo sullo stato dell’arte
dell’attuale movimento punk rock (“All
the rock stars are behind the bar/ serving computers with acoustic guitars/
It’s a travesty”). Heavy Meta non è solo un esordio fulminante ma anche un
disco che è davvero impossibile togliere dal lettore.
Blackswan, mercoledì 03/01/2017
4 commenti:
Girls Power!! Vincono 9 a 1 :)
Aspetto la seconda parte per qualche altro spunto e intanto ti consiglio questa musicista argentina, per me strepitosa: Juana Molina (Halo è l'album del 2017).
youtu.be/5XcrCSDQKII
@ Lucien: effettivamente si, molto donne nella mia top twenty. E ce ne saranno ancora. Mi annoto la segnalazione e vado subito ad ascoltare. Grazie! :)
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