E’
molto probabile che, ascoltando Year Of The Tiger, i fan degli Alter
Bridge resteranno spiazzati. Questo disco, infatti, è completamente
diverso da tutto quello che Myles Kennedy ha cantato e suonato nella sua
carriera, una sorta di unicum, con cui il quarantottenne cantante,
originario di Boston, esordisce come solista, dopo un quarto di secolo
di attività.
Questo
disco non rappresenta certo una svolta, visto che la militanza con gli
Alter Bridge (e quella con Slash) non vengono messe in discussione. Si
tratta semmai di una pausa di (profonda) riflessione, di un uomo che,
raggiunta la mezza età, vuole guardarsi indietro e affrontare il
proprio passato, per poi ripartire, libero da quei fardelli con cui,
prima o poi, ognuno di noi deve fare i conti.
E’
questo il senso di un album con cui Kennedy si prefigge di analizzare e
rielaborare il lutto che gli ha segnato la vita, la morte del padre,
avvenuta nel lontano 1974 (che per i cinesi è l’anno della tigre),
quando Myles aveva solo cinque anni. Un dolore immenso che gli ha
segnato l’esistenza e lo ha accompagnato come un insopportabile peso per
tutto questo tempo.
Un
disco, dunque, che serve a prendere la giusta distanza da quei fatti,
cercando nel potere catartico della musica la forza per una sorta di
rinascita. Non è un caso, dunque, che argomenti così intimi e
destabilizzanti richiedano anche un diverso registro espressivo, che non
può certo passare attraverso il suono potente e sferragliante del
metal.
Myles
cerca dunque una strada inusuale per arrivare alla destinazione che si è
prefissato, e appronta una scaletta di dodici brani dal suono
prevalentemente acustico, la cui unica connessione con il passato è
rappresentata da quella voce potente e immediatamente riconoscibile, che
qui si misura con registri non certo sconosciuti, ma sicuramente meno
abituali.
Tuttavia,
nonostante la gravità degli argomenti trattati, il mood è tutt’altro
che dimesso, l’impatto sonoro resta potente e quadrato, ogni canzone è
attraversata da un vibrante pathos, senza che però l’emozione trascenda
mai nel melodrammatico. Un filotto di canzoni che inizialmente si fa
fatica a metabolizzare (perché davvero lontane da ciò che ci saremmo
aspettati), ma che crescono sempre più a ogni ascolto, a partire dai
ripetuti stop and go della tesissima title track, posta a inizio disco e scelta anche come singolo di lancio.
Se The Great Beyond (che racconta la notte in cui il padre di Kennedy muore) e Blind Faith
(una riflessione sui dettami di quella fede che ha spinto il padre di
Myles a rifiutare le cure mediche che l’avrebbero salvato) vestono panni
tormentati e cupissimi, Haunted By Design e Turning Stones si muovono, invece, attraverso malinconiche sonorità contigue al country folk, mentre Nothing But a Name, se fosse suonata elettrica e diversamente arrangiata, sarebbe l’unico episodio accostabile al repertorio degli Alter Bridge.
La scaletta si chiude con Love Can Only Heal, struggente ballata, che parte sommessa e poi si apre a un superbo assolo di lap steel, e da Songbird e One Fine Day, che disvelano uno spiraglio di luce dopo un lungo tunnel di canzoni sofferte.
Come
dicevamo a inizio articolo, difficile dire se un album del genere potrà
far breccia nel cuore dei tanti appassionati rocker che da tempo
seguono le gesta del cantante; di sicuro, Year Of The Tiger, a
prescindere dai suoi intenti catartici, apre a Kennedy le porte di una
carriera parallela che, visto il risultato di questo inaspettato e
tardivo esordio, potrà essere una carta vincete da giocare, quando
l’ugola, oggi più scintillante che mai, comincerà a perdere colpi.
VOTO: 7,5
Blackswan, lunedì 02/04/2018
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