Lurgan
è uno sputo di città del Nord Irlanda, situata non molto distante da
Belfast. Da qui arrivano i Bonnevilles, Andrew Mc Gibbon Jr. (chitarra e
voce) e Chris Mc Mullan (batteria), due ragazzi cresciuti a fiumi di
birra e tonnellate di rock blues suonato nello scantinato di casa.
Niente di strano da quelle parti, visto che il pensiero degli
appassionati sarà corso immediatamente a un certo Rory Gallagher,
straordinario chitarrista irlandese, la cui breve vita è stata scandita
da pinte di scura e dall'amore incondizionato per la musica di Muddy
Waters.
Gli
anni passano, certo, ma c’è qualcosa di genetico che lega il grande
irlandese al giovane duo: lo stesso modo aspro e muscolare di
approcciarsi al genere, la stessa incontaminata energia, quella foga che
oltrepassa le mode e si concentra solo sul sudore di esecuzioni dirette
e prive di ritocchi in fase di produzione.
I
Bonnevilles portano nel Dna i cromosomi della storia del grande blues,
ma la rileggono con un taglio personale, che centrifuga nello stesso
disco anche rock ‘n’ roll primitivo e un pizzico di garage sound, quali
segni distintivi di una scarsa propensione al compromesso.
La
dualità chitarra – batteria, poi, non è certo una novità, dal momento
che questo suono conosce illustri antesignani come White Stripes e The
Black Keys, o giovani interessanti, come gli ottimi London Souls o i
canadesi Japandroids. Da parte loro, i Bonneviles spostano però il tiro
verso un approccio più rumoroso e sporco, infestato di reminiscenze
sixties e contaminato da un’attitudine punk e lo-fi, che li rende meno
condiscendenti verso le logiche di mercato e li distanzia dai nomi
poc’anzi citati. Inutile, quindi, tentare paragoni che finirebbero per
stare stretti al duo nord irlandese e rappresenterebbero un’eccessiva
forzatura.
I
Bonneviles, arrivati al quarto album in studio, dopo l’ottimo Arrow
Pierce My Heart del 2016, hanno ormai un sound ben marcato e
riconoscibile, un loro modo particolare di plasmare la materia del rock
blues, che assume, di canzone in canzone, sfumature hard di derivazione
hendrixiana (l’iniziale title track), garage midollare (The Good Bastards), rallenti in chiave folk (The Rebels Shrug) e omaggi alla british school degli anni ’60 (echi degli Yardbirds in By My Side).
Il
tutto condito con tonnellate di fuzz e un puzzo alcolico da pub
malfamato. Il piglio è selvaggio al punto giusto, il suono è abbastanza
vintage da rendere il disco appetibile anche agli appassionati più
ortodossi dell’hard blues d’antan e la sincerità è, come dire, in re
ipsa. Certo, manca un pizzico di originalità, ma forse il genere nemmeno
lo richiede, e la produzione, scarna ed essenziale, rende fin troppo
uniforme il quadro d’insieme. Il disco, però, è potente e grintoso, e se
cercate il piacere nudo e crudo di una musica verace, Dirty Photographs
passerà, spesso e volentieri, dalle casse del vostro stereo.
VOTO: 7
Blackswan, Mercoledì 04/04/2018
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