domenica 30 settembre 2018

JOE BONAMASSA - REDEMPTION (Mascotte/Provogue, 2018)

La prolificità di Joe Bonamassa è un dato di fatto incontrovertibile. Ogni anno, le uscite a suo nome, sia che si tratti di dischi solisti, dischi live, collaborazioni con Beth Hart, comparsate in lavori altrui (il tributo di Mahalia Barnes a Betty Davis, a esempio) o progetti paralleli (l’eccitante avventura Black Country Communion, prima interrotta e poi ripresa, e l’ecletttico divertissement con i Rock Candy Funk Party), ammontano come minimo a tre (nel 2018 due dischi sono già usciti, e questo è il terzo).
A fronte di un così cospicuo numero di pubblicazioni, bisogna dire che il chitarrista newyorkese ha sempre mantenuto, però, un ottimo livello qualitativo. Certo, a meno che non siate fans, non tutte queste uscite sono imprescindibili; tuttavia, è indubbio, che Bonamassa sia uno dei pochi musicisti al mondo capace di abbinare una variegata e numericamente consistente produzione, a straordinarie performance live (l’ultimo British Blues Explotion) e centratissimi dischi in studio.
Questo Redemption arriva due anni dopo Blues Of Desperation, continuandone la narrazione, dando cioè grande spolvero a quel rock blues che il chitarrista è capace di declinare in tutte le diverse accezioni. Anche in questo nuovo lavoro, Bonamassa dimostra di essere una macchina da guerra, in grado di maneggiare la materia con la consueta autorevolezza tecnica e con quella passione che ancora oggi lo fa suonare come un ragazzino carico di entusiasmo.
L’impressione, poi, è che il buon Joe stia molto migliorando anche nelle parti cantate e che abbia asciugato il suo stile, evitando eccessivi virtuosismi fini a sé stessi, cosa che nella prima parte della carriera adombrava il suo indubbio talento. Insomma, Redemption è un disco veramente riuscito, che non presenta novità per chi già conosce il menù della casa, ma che conferma come Bonamassa sia uno dei migliori interpreti del genere.
Si gode, quindi, e non poco, a partire dall’iniziale Evil Mama, attacco di batteria zeppeliniana, robusto arrangiamento con sezione fiati e coro femminile, groove funky e una serie di assoli da standing ovation. Una partenza a raffica, ribadita dalla successiva ed eccitante derapata boogie di King Bee Shakedown e dall’approccio hard della muscolare Molly O’, retaggio evidente della militanza con i Black Country Communion.
Se alcuni momenti, pur strutturati, restano solo dei buoni esempi di rock dall’impatto molto radiofonico (Deep In The Blues Again), Bonamassa dimostra però grande dimestichezza quando si cimenta con un suono più classico e di derivazione chicagoana, come in Just ‘Cos You Can Don’t Mean You, I’ve Got Some Mind Over What Matters e la travolgente Love Is A Gamble (con uno sfoggio di sudore e tecnica da par suo), o tenta strade meno immediate, come nella più intima e raccolta Stronger Now In Broken Places o nella complessa ed evocativa Self-Inflicted Wounds.
Non c’è bisogno di aggiungere molto altro per raccontare un disco che se non esce da territori ormai abbondantemente esplorati, testimonia però l’evoluzione di un musicista che, nonostante sia tra i più acclamati chitarristi al mondo, non smette di crescere in termini qualitativi e di innervare il proprio lavoro di un ardore quasi commovente. Imperdibile per i fan, consigliatissimo ai patiti della sei corde.

VOTO: 7,5





Blackswan, domenica 30/09/2018

sabato 29 settembre 2018

PREVIEW




Sono passati ben tre anni dall’ultimo Grey Tickles, Black Pressure, e finalmente John Grant ha annunciato la pubblicazione di un nuovo lavoro. Il disco si intitolerà Love Is Magic e vedrà la luce il 12 di ottobre via Bella Union. L’album, prodotto dallo stesso Grant con il contributo di Paul Alexander dei Midlake e di Benge, è stato registrato nei Meme Tune Studios di proprietà di quest’ultimo, in Cornovaglia. Il tour di promozione al momento non prevede date in Italia.





Blackswan, sabato 29/09/2018

venerdì 28 settembre 2018

SUNNY SWEENEY - BIG MACHINE CLASSICS (Big Machine, 2018)

Sunny Sweeney è uno di quei nomi che dice poco o niente al pubblico italiano (salvo, forse, evocare qualche marca di succo di frutta) ma che vale la pena seguire con attenzione, soprattutto se si è appassionati di country, quello più autentico e un filo retrò.
Non a caso, la stampa americana si è sempre espressa in termini lusinghieri nei suoi confronti, azzardando paragoni con stelle di prima grandezza quali Natalie Maines e Kacey Chambers (una rapida occhiata a wikipedia vi farà comprendere l’importanza dell’accostamento).
Sunny Sweeney nasce e cresce a Longview, in Texas, dove inizia a cantare giovanissima, ispirandosi a grandi nomi come Dolly Parton e Loretta Lynn e facendosi le ossa nel coro della scuola. La sua vera passione, però, è il teatro off, così, alla prima occasione, lascia il Texas e l’università e si trasferisce a New York a studiare recitazione. Lì, si esibisce nel circuito off e, per sbarcare il lunario, inizia a fare piccoli lavoretti, quali baby sitter, dog walker, cameriera.
Frustrata dalla mancanza di successo, Sweeney torna in Texas, dove si unisce a una piccola compagnia teatrale di Austin. A questo punto inizia a prendere sul serio il suo talento di musicista e incoraggiata dai suoi colleghi e dal suo patrigno, che aveva cercato di insegnarle alcuni accordi di chitarra quando era piccola, Sweeney inizia a studiare lo strumento e a impratichirsi.
Il suo primo vero concerto lo tiene all'Austin's Carousel Lounge nel 2004, il suo nome inizia a girare nel circuito country della città e riesce a catturare l'attenzione di vari critici musicali nella zona di Austin. Ha inizio così la sua carriera da professionista: Sunny passa dalla Big Machine, la sua prima casa discografica, alla Republic Nashville, e sforna una serie di dischi acclamati dalla critica, l’ultimo dei quali, Trophy (2017), ha avuto una certa eco anche in Europa.
Sull’onda della crescente attenzione mediatica, la songwriter texana decide ora di pubblicare, nuovamente sotto l’egida Big Machine, una raccolta contenente parte del suo primo disco, Heartbreaker’s Hall Of Fame (2006), e altri singoli appartenenti al periodo in cui era sottocontratto con la celebre casa discografica specializzata in musica country.
Un disco che racconta gli esordi della cantautrice, che recupera i suoi primi successi e che mette in evidenza tutte le caratteristiche che segnaranno anche la produzione successiva. Un country, quello della Sweeney, curato negli arrangiamenti e dal suono  levigato (ma lontano anni luce da certi melensi polpettoni nashvilliani), che non toglie nulla però all’esuberanza di canzoni che trasmettono tutta la passione della nostra per la musica con cui è cresciuta.
Se da un lato si apprezza l’intento filologico di rimanere fedele a un genere, nonostante una produzione arrotondata, ciò che colpisce davvero è l’energia e l’autenticità che pervade canzoni come la sgommata country di If I Could, il languore romantico di Lavender Blue, ballata accarezzata da violino e lap steele e cantata in duetto con Jim Lauderdale, la melodia diretta di Staying’s Worse Than Leaving e lo spumeggiante honky tonk di East Texas Pines.
In attesa del prossimo disco di brani originali, questo Big Machine Classics rappresenta il modo migliore per accostarsi alla storia e al talento di un'artista che, se negli anni in cui queste canzoni sono state scritte era solo l'ennesima promessa, oggi può fregiarsi di un posto di rilievo fra le country singer più dotate e apprezzate della sua generazione. 

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 28/09/2018

giovedì 27 settembre 2018

PREVIEW




Il disco è stato anticipato dal singolo hit When The Curtain Falls, da qualche giorno è disponibile una nuova traccia in anteprima: “Lover Leaver (Taker Believer)”.
I Greta Van Fleet sono quattro giovani musicisti del Michigan – i fratelli gemelli Josh (voce) e Jake Kiszka (chitarra), entrambi di 22 anni, il fratello più giovane Sam Kiszka (basso, tastiere), 19 anni, e l’amico di famiglia Danny Wagner (batteria), 19 anni. L’inconfondibile chitarra di Jake, la potente voce di Josh, il basso pulsante di Sam e la stravolgente batteria di Danny si fondono tra loro alla perfezione, creando un mix perfettamente riconoscibile di generi diversi: rock, soul, hard e blues. Grinta ed eleganza caratterizzano ogni brano di un gruppo che, sin dall’esordio, si distingue nella scena musicale internazionale.
L’album di debutto “Anthem of the Peaceful Army” è composto da dieci brani originali, scritti a otto mani dai membri della band, che esplorano temi tanto diversi tra loro quanto essenziali nella visione artistica dei Greta Van Fleet: amore, integrità, innocenza, diversità e pace, ma anche responsabilità, coraggio, rivoluzione e ricerca della verità.
Il disco è stato anticipato dal singolo “When The Curtain Falls”, affermatosi rapidamente nella Top 10 delle Radio Rock USA, collezionando oltre 2.9 milioni di visualizzazioni per il video ufficiale su YouTube.
I Greta Van Fleet debuttano nel marzo 2017 con il singolo “Highway Tune”, che raggiunge il primo posto delle classifiche U.S. Rock Radio, posizione mantenuta per cinque settimane consecutive. Il 2017 è poi un susseguirsi di concerti sold-out tra Nord America ed Europa. La band ottiene rapidamente l’interesse dalla critica, ottenendo apprezzamenti da artisti come Elton John, Nikki Sixx e Bob Seger. Il successo continua con la pubblicazione di due EP, poi riuniti nel mini CD “From the Fires”.





Blackswan, giovedì 27/09/2018

mercoledì 26 settembre 2018

JONATHAN JEREMIAH - GOOD DAY (Pias, 2018)

Quando si parte all’ascolto di Good Day, quarta fatica discografica a firma Jonathan Jeremiah, e primo disco uscito sotto l’egida PIAS, si prova una sorta di sospensione temporale, il fisico coi piedi saldamente piantati nel 2018, la mente e le emozioni, invece, che vagano nella Londra degli anni ’70, magari con l’impressione di essere seduti al pub del quartiere ad ascoltare un giovane songwriter di cui si dice un gran bene.
Insomma, si ha la sensazione che Jeremiah non abbia fatto altro nella vita che ascoltare i dischi di mamma e papà, cercando di replicarne pedissequamente il suono. E’ questa la prima impressione che si ha quando Good Day inizia a girare sul piatto: un disco già sentito, affetto da passatismo e da una produzione artefatta che ha il solo scopo di stendere una patina vintage sulle undici canzoni in scaletta.
E’ solo un attimo, però, perché, di canzone in canzone, l’ascolto si fa sempre più avvincente e, superata l’estemporaneità del momento, ci si accorge di essere di fronte a un piccolo gioiello. La scrittura di Jeremiah, nonostante gli evidenti, e facilmente individuabili, riferimenti stilistici (Lee Hazlewood, Terry Callier, Ritchie Havens, John Martyn, etc), è in grado, infatti, di rielaborare il prevedibile con intuizioni che avvicinano il songwriter londinese al Michael Kiwanuka di Home Again, di conquistare con melodie di facile presa che non sfociano mai nel refrain banale, scegliendo semmai una cifra estetica elegante, un po' demodè forse, ma di rara efficacia.
Pianoforte, chitarre, hammond, coretti femminili, archi, qualche ottone, e una voce profonda, baritonale, sorniona, calda al punto giusto e ricca di sfumature, sono la tessitura principale di un filotto di canzoni pervase da una nostalgica allegrezza.
La title track che apre il disco è un tuffo nel passato, un inno alla retromania, ma al secondo ascolto tutto passa in secondo piano quando si coglie l’equilibrio della struttura, il gusto dell’arrangiamento e quel suono analogico che sa di cose buone di una volta. Jeremiah, però, sa anche essere incredibilmente moderno, piazzando un tormentone come Mountain, un folk carico di soul, punteggiato da un irresistibile whistling e da una tensione che ricorda quella di Take Me To Church di Hozier.
Se il groove di The Stars Are Out è legato a filo doppio con il citato Kiwanuka e U-Bahn (It’s Not To Late For Us) omaggia smaccatamente Burt Bacharach, con Deadweight, sette minuti di mini suite che incastrano malinconia, folk, soul e blaxploitation, Jeremiah sfoggia un songwriting maturo e coraggioso, centrando uno dei capolavori del disco.
Che decolla anche quando il mood si fa più intimo, con due superbe ballate pianistiche quali No-One, dai sentori lennoniani (la matrice è Mind Games), e l’appassionata Shimmerlove attraversata da fremiti welleriani.
Registrato presso i Konk Studios di Ray Davies e prodotto dallo stesso Jeremiah, Good Day rappresenta una delle sorprese più piacevoli dell’anno: un filotto di splendide canzoni dal tocco artigianale, il cui calore emotivo saprà proteggervi dall’arrivo dei primi freddi.

VOTO: 8





Blackswan, mercoledì 26/09/2018

lunedì 24 settembre 2018

IL MEGLIO DEL PEGGIO






Non è una barzelletta, ma poco ci manca. Il casus belli scoppia sul finire di una estate non certo spensierata. Mentre la star indiscussa del governo giallo-verde Matteo Salvini- reduce dalla scoppola giudiziaria che ha condannato la sua Lega alla restituzione di 49 milioni di euro- si fa immortalare niente meno che dal Time in veste di "nuovo volto dell'Europa", il decrepito Partito Democratico pensa bene di sedersi a tavola. A desinare, certo, ma soprattutto a ragionare sulla riorganizzazione interna. Almeno questo era il nobile intento dell'executive chef Carlo (Cracco) Calenda. Forte del principio secondo cui i migliori affari si fanno a tavola, gli ingredienti per una cena con i fiocchi c'erano tutti. A cominciare dai commensali: Paolo Gentiloni, Matteo Renzi e Marco Minniti. Peccato che a far bruciare l'arrosto è stata l'improvvida iniziativa di Nicola Zingaretti che escluso dal companatico, contropropone una cena più easy, in trattoria, e con alcuni esponenti della società civile. Mal gliene incolse. Il senatore semplice di Rignano si indispone, ci ripensa e dà forfait. I troppi popcorn gli devono aver fatto passare l'appetito. "Questi - riferendosi al governo- levano i vaccini e i nostri parlano di cene. Roba da matti". Inevitabili i commenti ironici su un partito che ancora "prima di sedersi a tavola è già alla frutta". Michele Emiliano esprime una profonda amarezza così: "Questo la dice lunga sulla profonda crisi del Pd", mentre Stefano Esposito invita tutti a darsi una regolata. In controtendenza Roberto Giachetti che da ex militante del Partito Radicale pensa bene di iniziare uno sciopero della fame fino a quando non ci sarà il congresso del Pd. Qualcuno gli suggerisca di desistere da questo proposito, considerato che il rischio di perderci la salute è altissimo rispetto alle scarse probabilità che un congresso abbia luogo a breve termine. Più che a uno psicodramma assistiamo a una farsa perlopiù avvilente. Serve uno psichiatra, secondo l'ormai ex chef Calenda. Forse, ma se è vero che la crescita deve iniziare dal basso, sarebbe necessario mandarli in cucina a lavare pile di piatti. 

Cleopatra, lunedì 24/09/2018

domenica 23 settembre 2018

PREVIEW



Dopo una pausa di cinque anni, Rosanne Cash interrompe il silenzio con il lancio di due nuove canzoni, che faranno parte del suo prossimo album, She Remembers Everything. L’uscita del disco è prevista per il 2 novembre, e i temi trattati nelle canzoni sono molto intimi e personali, nati da riflessioni maturate durante il lungo perio di assenza dalle scene.
La traccia che dà il titolo all'album, She Remembers Everything, racconta le battaglie che la Cash ha affrontato come donna, e dell'innocenza dopo aver scoperto a quante disuguagliaze sia sottoposto il genere femminile.
Il secondo brano in uscita, una ballata appassionata dal titolo Everyone But Me, Rosanne affronta la perdita dei suoi genitori, Johnny Cash e Vivian Leberto. Una canzone è cruda e addolorata sulla fragilità dell’esistenza.
Ospiti nel disco: Kris Kristofferson, Sam Philips ed Elvis Costello.





Blackswan, domenica 23/09/2018

sabato 22 settembre 2018

MONSTER TRUCK - TRUE ROCKERS (Dine Alone, Mascot Label Group, 2018)

Terzo album in studio per i canadesi Monster Truck che, dopo l’acclamato Settin’ Heavy del 2016, tornano a infiammare di desiderio le numerose schiere degli amanti del rock più duro.
Non è cambiato molto nei due anni che separano questo True Rockers dal suo predecessore, e la formula ormai ben collaudata sembra pressoché immutabile: hard rock blues declinato in accezione southern, scaglie di stoner, gli anni ’70 a fare da substrato filologico alle composizioni e qualche apertura melodica per accaparrarsi passaggi in FM.
Nulla di nuovo sul fronte occidentale, insomma, se non un rock grezzo, muscolare, sostenuto da una sezione ritmica che combatte con il coltello fra i denti, muovendosi fra i soliti grassi riff di chitarra e qualche momento meno greve, dovuto all'apporto dell'organo suonato con gusto da Brandon Bliss.
Ai Monster Truck non fa certo difetto l’energia, l’infilata dritta e devastante dell’assalto alle barricate, e la predisposizione alla corsa a rotta di collo, senza fare soste, nemmeno per pisciare. Il rock’n’roll corrazzato dell’iniziale title track, con il contributo del venerabile Dee Snider, la cavalcata selvaggia di Hurricane a mulinar la durlindana, l’hard rock di Thundertruck, nato per partogenesi da Burn dei Deep Purple e le mitragliate punk rock di In My Own World, sono lì a dimostrarlo, ma anche e a reggere una scaletta che non è tuttavia esente da filler (la smargiassata radiofonica di Young City Hearts è di una bruttezza zenitale).
I Monster Truck non inventano nulla e, in verità, nemmeno lo vogliono: picchiano senza farsi troppo scrupoli e questo basta. Ma è proprio questa predisposizione a caricare a testa bassa che risulta, in definitiva, sia un merito che un limite all’apparenza insuperabile: merito, perché chi ama il genere non potrà non divertirsi ad alzare il volume dello stereo al massimo, godendosi questa randellata sonora alla faccia del vicinato; limite, perché oltre all’esibizione dei muscoli, il menù della casa offre poco o niente. Ne deriva che True Rockers, titolo volutamente paradigmatico, suona originale come una fotocopia sbiadita, tamarro come un motociclista che impenna sul sagrato della chiesa e prevedibile come un panino alla salamella. Chi si accontenta, gode.

VOTO: 6





Blackswan, sabato 22/09/2018

venerdì 21 settembre 2018

PREVIEW



About The Light è il suo quarto lavoro dopo Boys Outside (2010), Monkey Minds In The Devil’s Time (2013) e Meet The Humans (2016).
“Stars Around My Heart”, la prima traccia ad essere condivisa, è accompagnata da un video diretto da Brother Willis che in passato ha lavorato, tra gli altri, con Parquet Courts e King Krule.
Avendo scritto da solo la maggior parte dell’album precedente, About The Light segna un cambiamento nell’approccio di Steve. “Ho deciso,” spiega, “di coinvolgere in questo disco la mia live band in ogni fase della lavorazione perché volevo catturare l’energia che produciamo durante i nostri concerti, perciò questa volta abbiamo lavorato assieme su una serie di canzoni nel corso dell’ultimo anno.”
Scegliendo Stephen Street come produttore e con un piano molto chiaro in mente, l’obiettivo è stato quello di catturare le canzoni live e far emergere gli elementi più soul. Dice lo stesso Street: “Steve mi ha spiegato che voleva fare questo album con la band e con un suono più ‘live’ e arrangiare i pezzi con i fiati e cori femminili. Ho capito che da questo approccio di spogliare innanzi tutto i brani per ottenere un sound live e creare spazio per innestare gli elementi soul, sarebbe nato qualcosa di molto interessante e così ci siamo messi al lavoro.”
Registrato tra Londra e Brighton, About The Light presenta un’evoluzione sottile ma evidente nel suono di Steve.
“Quando ascolto questo disco suono come il mio primo disco ‘ufficiale”. È difficile da spiegare ma ha il suono di un ‘vero’ album. Penso che sia dovuto in parte alla produzione, al modo di suonare e al lavoro fatto con la band in tutti quei mesi di prove. È un album bello, positivo, arrabbiato e gentile allo steso tempo. David Bowie disse che bisogna sempre stare appena un po’ fuori dalla nostra di comfort se vogliamo raggiungere la grandezza, e forse per la prima volta, mi sono deliberatamente spinto fuori dalla mia zona di comfort. Chi non vuole la grandezza?”





Blackswan, venerdì 21/09/2018

giovedì 20 settembre 2018

PAUL SIMON - IN THE BLUE LIGHT (Legacy Recordings, 2018)

In The Blue Light è un atto di resipiscenza, uno sguardo lanciato verso il passato da parte di un’artista che ha scritto pagine importanti della musica americana e ora si trova a un bivio della propria carriera. Paul Simon, infatti, ha deciso di mettere fine alla propria attività concertistica con un ultimo tour (Homeward Bound) che si concluderà il 22 settembre a New York.
Una decisione presa per svariati motivi, alcuni famigliari, altri legati all’età che inesorabilmente avanza (a ottobre saranno 77 anni) e infine, a cagione della scomparsa, avvenuta lo scorso anno, del sodale di sempre, il chitarrista Vincent Nguini. Una scelta dolorosa, che ha inevitabilmente spinto l’artista a riflettere su quanto fatto fino a oggi e in particolar modo a cercare di mettere ordine fra il proprio repertorio, soprattutto riguardo a quelle canzoni di cui Simon non era completamente soddisfatto.
Continua, dunque, l’attività in studio, e continua con questa operazione di re-styling di dieci brani presi dal proprio passato. Canzoni che Simon ha voluto ritoccare, per vestirle di nuovi abiti che rispecchiassero maggiormente il suo attuale sentire, e che sono state modificate tanto negli arrangiamenti e nel suono, quanto nelle liriche, al fine di rendere più comprensibili testi il cui significato, dal punto di vista del songwriter, non era così chiaro come avrebbe voluto che fosse.
Non ci sono in scaletta brani famosi o leggendarie hit, ma un filotto di composizioni che potremmo definire minori se a scriverle non fosse stato Paul Simon. Né compaiono nel disco reinterpretazioni prese dal repertorio condiviso con Garfunkel o da quel (oggi possiamo dirlo senza timore alcuno) leggendario capolavoro che porta il nome di Graceland, mentre la maggior parte del materiale, ad eccezione dell’unica René and Georgette Magritte with Their Dog After the War (dal celeberrimo Hearts And Bones), provengono da opere meno note, quali You’re Are The One (2000), There Goes Rhymin’ Simon (1973) e So Beautiful Or So What (2011).
Ad accompagnare Paul nella realizzazione del disco, un pugno di straordinari musicisti, tra cui il trombettista Wynton Marsalis, il chitarrista Bill Frisell, il bassista John Patitucci, i batteristi Jack DeJohnette e Steve Gadd, oltre a Bryce Dessner dei National e il citato Vincent Nguini, che ha fatto in tempo a registrare l’album, prima di lasciarci per sempre.
La modernità e l’intelligenza compositiva di Paul Simon, unita alla classe e al mestiere degli ospiti appena citati dà vita non a una semplice reinterpretazione di brani già noti, ma a una raccolta di canzoni che, nonostante mantengano l’ossatura originale, suonano decisamente diverse, possedendo non solo una nuova veste formale, ma anche una nuova anima. Un disco il cui suono volge lo sguardo verso partiture decisamente jazz, con qualche inserto d’archi e un mood in bilico tra raffinata sospensione e l’incedere rilassato dell’artigiano che cesella note in punta di plettro.
Un ripensamento operoso, si potrebbe dire in termini giuridici, che dà lustro a canzoni forse fin troppo dimenticate, come Love, Can’t Run But, The Teacher (che evoca lo Sting di Fragile) e la splendida René and Georgette Magritte with Their Dog After the War, fragile elegia romantica che resta, oggi come allora, una delle vette compositive del songwriting di Paul Simon.

VOTO: 7,5





Blackswan, giovedì 20/09/2018

mercoledì 19 settembre 2018

PREVIEW




La band di Glasgow The Twilight Sad annuncia il quinto full-length album – il primo su Rock Action Records – intitolato IT WON/T BE LIKE THIS ALL THE TIME, in uscita il 18 gennaio. La notizia arriva accompagnata da un secondo assaggio dell’album Videograms.
Parlando del brano, il frontman James Alexander Graham ha detto, “Videograms è stato il primo brano scritto per l’album, ma l’ultimo finito prima di iniziare a registrare. È una delle cose più melodiche che abbiamo mai fatto. Ho sentito spesso la frase "don’t you start on me”, per strada, al supermercato, al pub. Deve essere qualcosa che ho sentito spesso ed è venuto fuori in questa canzone.

“Mi piace molto il fatto questo sia il primo singolo ufficiale ma anche l’ultimo brano dell’album. C’è spesso tanta pressione quando un album viene introdotto da una serie di singoli. Ci si aspetta che le persone non abbiano la giusta attenzione per ascoltare un album per intero, ma le persone che ci conoscono e a cui piace la nostra musica sanno che noi facciamo album che devono essere ascoltati dall’inizio alla fine, dato che ogni canzone è un capitolo facente parte della storia. Ed è anche per questo che amo la Rock Action, non c’era pressione da parte loro, ci hanno lasciato fare quello che volevamo con la tracklist.”

Le undici tracce incluse in IWBLTATT iniziarono a prendere forma durante il tour della band con I The Cure. Ma è tornando nel Regno Unito e nell’isolamento della sua casa di Londra, che il chitarrista Andy MacFarlane ha iniziato a confrontarsi con le aspirazioni collettive della band, trovando immediatezza nella loro scrittura, portando così qualcosa di nuovo alla materia oscura dei loro brani e al demo del quinto album. Dopo sei mesi di pre-produzione, la sua visione si concretizzò durante una residency in una sala prove a Loch Fyne lo scorso novembre. Ansiosa di mantenere lo slancio creativo, la band entrò in studio ai Middle Farm Studios di Devon con il fonico Andy Bush, lo scorso gennaio.

Perquesto album, Graham e MacFarlane hanno chiamato Brendan Smith (The Blue Nile, The Unwinding Hours) e Johnny Docherty (Take a Worm For a Walk Week, RUNGS), musicisti che da tempo accompagnano la band in tour.

“Ho sempre visto Brendan e Johnny come parte della band ed è ora di dirlo ad alta voce,” afferma Graham. “La fase di registrazione è stata una delle esperienze più belle. Tutti noi lanciavamo delle idee, mentre Andy definiva il tutto. Dopo aver fatto i demo, il suo punto di vista era ‘dobbiamo migliorare. Devono fare un passo avanti.’ Lui ha dato il via a tutti noi.”

Il risultato parla da sé: un ascolto coinvolgente, a volte cinematografico, altre clustrofobico. La band ha scavato in profondità per produrre It Won’t Be Like This All the Time, ed è probabilmente il loro album più dinamico e crudo di sempre.

“È un album oscuro ma penso che ci siano molti momenti di sollievo,” ha aggiunto Graham. “Ci sono così tanti estremi qui – ci sono momenti che sono duri, e altri che sono melodici, e altri ancora che sono ridotti al minimo. C’è una certa franchezza ora, ma allo stesso tempo voglio mantenere un po’ di mistero. Non ci piace gettare le cose in faccia alla gente per poi spiegarle.”





Blackswan, mercoledì 19/09/2018