Dalla
scena di Seattle, a inizio anni ’90, uscirono band strepitose, ognuna
delle quali declamava a modo suo il verbo unico dell’edonismo al
contrario della generazione X. Se i Nirvana rimescolavano il grunge con
geniali intuizioni pop, se i Mudhoney ne rappresentavano l’ala più punk e
i Pearl Jam quella più legata al passato seventies, gli Alice In Chains
potevano essere considerati, insieme ai Gruntruck, la falange armata
del movimento, che corazzava il nuovo suono con dosi massicce di metal.
Quando
nel 2009, dopo la morte di Layne Stayle e a distanza di ben tredici
anni dal loro ultimo lavoro in studio, la band tornò sulla scena con un
nuovo disco, Black Gives A Way To Blue, e un nuovo cantante,
William Duvall, furono in molti a storcere il naso per il timore di
ritrovare un grande amore irrimediabilmente invecchiato e un album che
non fosse altro che la copia sbiadita di un’antica gloria,
malinconicamente ripescata dai cassetti della memoria, per ragioni
squisitamente commerciali.
Invece, Black Gives A Way To Blue
era un buon disco (e DuVall un cantante eccellente ), non memorabile,
certo, e un po' discontinuo, ma capace comunque di tratteggiare con
dignità un diverso percorso artistico, che non si limitasse a
scimmiottare il passato, ma guardasse invece avanti, se non proprio
verso un nuovo suono, quantomeno verso una rinnovata creatività.
Il successivo, e ottimo, Devil Put Dinosaurs Here,
uscito dopo quattro anni, nel 2013, affrancò definitivamente la band da
ogni sospetto di riciclaggio di materiale di scarto: se il
predecessore, infatti, portava ancora le stigmate di una carriera
tribolata e doveva scrollarsi di dosso completamente polvere e ragnatele
per far dimenticare a tutti che Layne era morto e sepolto, Devil Put…rappresentò, invece, una vera e propria rinascita, in cui la tentazione del copia-incolla, che in Black Gives Way To Blue
ogni tanto ancora riaffiorava, veniva definitivamente accantonata per
provare a esprimersi attraverso una vitalità creativa e un’ispirazione
che forse mancava addirittura dai tempi di Dirt.
Rainier Fog
procede esattamente sulla strada tracciata da quel disco: il suono è
sempre più cupo, ossianico e claustrofobico, le canzoni sono mediamente
più lunghe che in passato, e se il marchio di fabbrica rappresentato
dagli intrecci vocali e dai riff icastici e dagli assoli vischiosi della
chitarra di Cantrell continua a segnare uno stile inimitabile, i
richiami ai fasti del grunge trovano una declinazione ancora più heavy.
Non
un disco facile, anzi: le dieci canzoni che compongono la scaletta
dell’album (per cinquantaquattro minuti di durata) possiedono un tasso
di indigeribilità altissimo e impongono un’attenzione e una
predisposizione all’ascolto da veterani per riuscire a superare la prima
impressione di trovarsi di fronte a un’opera monolitica.
D’altra parte, se come singolo è stato scelto The One You Know,
con il suo riff atonale è ossessivo, è davvero difficile che in questa
landa desolata e piovosa filtri un po' di luce. Così, la title track e Red Giant
sono due classici brani alla Alice, che ci riportano agli anni gloriosi del
grunge, ma non smettono di avviluppare l’ascolto in una coltre di
pesantissima disillusione, e se Fly attenua appena la
sensazione opprimente facendo vibrare le corde della nostalgia, è solo
un momento, prima che l’avvitamento discendente di Drone avvolga nuovamente di tenebra la scaletta.
C’è un solo episodio che sposta il dolente mood dell’album verso un clima meno tormentato e più rilassato, ed è la splendida Maybe,
complessa ballata dagli accenti psichedelici che si schiude in un
ritornello molto melodico e orecchiabile, subito però riassorbita dalle
dissonanze sludge metal della successiva So Far Under, unico brano a firma DuVall.
Rainier
Fog è un disco riuscito ed emozionante, e per quanto ostico (o magari
proprio per questo), ci dimostra che forse il grunge non è del tutto
morto, se a suonarlo è una band come gli Alice in Chains, che è riuscita
a rigenerarsi, a rielaborare una grave perdita e a lucidare il vecchio
arsenale con nuove idee.
E’
comprensibile che molti fan della prima ora non riescano a dimenticare
Layne Staley e che guardino a questo nuovo corso con una certa
diffidenza; ma DuVall è un buon cantante, evita l’ingombrante confronto,
mettendosi con umiltà al servizio della band, e queste canzoni sono
così buone da attenuare qualsiasi nostalgico rimpianto. Se è vero che il
passato non si può cancellare, i nuovi Alice si sono comunque liberati
dall’obbligo morale di dimostrare di valer qualcosa anche senza Staley
e, indubitabilmente, ci sono riusciti.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 04/09/2018
2 commenti:
Il singolo è un gran pezzo.
Ormai Duvall è il corista di Cantrell :-D
Una domanda: ho visto male o quello che suona la batteria è Trent Reznor?
@Ezzelino: no, è il batterista degli Alice, ma la somiglianza è noteevole. :)
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