Si
chiamano Dizzy, arrivano da Oshawa, una cittadina posta all’estremo est
del Canada, sulle sponde del lago Ontario, nota per allevamenti di
cavalli e perché una suntuosa dimora della zona viene usata come
location per alcune pellicole hollywoodiane.
Non
c’è molto da fare, a Oshawa, e quando si è giovani e si cresce in
provincia, il rischio è quello di ammazzarsi di noia. Lo sanno bene i
fratelli Charlie, Alex e Mackenzie Spencer e la di loro amica, Katie
Munshaw, che per sopravvivere all’inedia di una vita senza molte
prospettive hanno iniziato a suonare. Per evadere, darsi una speranza,
cercare il futuro, proprio là, dove tutto possiede la staticità di un
soffocante presente.
Un
po' come quei ragazzi delle periferie disagiate, che per evitare di
darsi al crimine, trovano nel pallone un motivo di riscatto, una strada
per evadere e diventare grandi, senza bruciarsi l’anima.
La
musica libera dalle catene e fa spiccare il volo, esattamente come
succede alla band nella suggestiva copertina di questo disco d’esordio:
un pugno di canzoni pop, che è facilissimo connotare con la parola
“dream”, e che possiedono un mood trasognato, in cui tastiere e chitarre
cesellano languide atmosfere in bilico fra romanticismo e illusione
ipnagogica.
Baby
Teeth è un disco che batte strade risapute e che rielabora senza molta
originalità un suono che richiama inevitabilmente alla memoria quello di
band ben più note e dal nobile pedigree (London Grammar, Beach House,
etc.).
Il
lavoro, però, è ben fatto, gli arrangiamenti danno equilibrio e
uniformità alla scaletta, e la voce di Katie Munshaw, pur senza essere
connotata da un timbro particolare o pregevolezze tecniche, tiene con
efficacia la barra del timone per i quasi trequarti d’ora di musica. Non
vengono dispensate, invero, grandi emozioni, e di tanto in tanto,
affiorano un po' di noia e la sensazione di avere a che fare con una
band tardo adolescenziale, che ancora deve perdere il denti da latte
(quelli del titolo, per intenderci), per trovare una maturità
compositiva che sia connotata da una propria identità e un proprio
stile.
Se
scrivessi, però, che questo disco è da buttare, mentirei: le dieci
canzoni del lotto si fanno ascoltare, e ci sono anche dei momenti (Pretty Thing e Backstrocke su tutti) che fanno intravvedere ottime potenzialità. Insomma, una prova piacevole, ma decisamente un po' incolore.
VOTO: 6
Blackswan, sabato 08/09/2018
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