Diciamoci
la verità, il rock godrebbe di ottima salute anche se non esistessero i
BuckCherry. Eppure, ogni nuova uscita della band losangelina,
nonostante sia artisticamente prescindibile, diventa, non so come, un
acquisto imperdibile. Loro, inutile girarci intorno, fanno, da sempre,
sempre la stessa canzone: riff schiacciasassi, gancio radiofonico e
immancabile assolo, in quest’ordine pressoché immutabile. E per rendere
tutto meno uniforme, alternano brani rumorosi a ballate mainstream,
forse fin troppo zuccherine.
Nonostante
tutto, però, continuano a essere credibili, non fosse altro che per
quel tiro centrato al divertimento puro che, al mondo, pochi altri
possiedono. Giunti a Warpaint, ottavo album in studio, la
sostanza non cambia, se non per il rientro dietro la consolle di Mike
Plotnikoff, già produttore del loro terzo full lenght, 15, e per un suono un poco più robusto e muscolare del solito. Insomma, con alti (Black Butterfly) e bassi (Confessions),
improntati a una formula immutabile negli anni, i Buckcherry replicano
in questo nuovo lavoro un suono comunque vincente, capace di forgiare in
passato autentici singoli bomba (Sorry, Rescue Me, etc), che hanno sempre scalato alla velocità della luce le prime piazze delle charts statunitensi.
E’
questa, in estrema sintesi, la sostanza artistica di una band di
simpatici cialtroni, bravi a utilizzare gli ammiccamenti più oltraggiosi
e trasgressivi del rock (sesso, droga e la suggestione di esistenze
vissute al limite) per dare vita a canzoni dal gusto smaccatamente
radiofonico, in cui chitarre, decibel e ritornelli appiccicosi e, per
che no, irresistibili, vengono miscelati con perfetto equilibrio. Sleaze
e hard rock classico, Motley Crue, Guns n’ Roses e Aerosmith come numi
tutelari, amalgamati in un impasto sonoro graffiante, divertente e
divertito, ma melodico al punto giusto da non disturbare troppo anche le
orecchie meno aduse a suoni estremi.
Il
merito di Josh Tood e soci, tuttavia, non è solo quello di aver trovato
una formula vincente, ma è soprattutto la capacità di riproporsi ogni
volta con credibilità, ruffiani finché si vuole, certo, ma (quasi)
sempre animati dallo spirito di chi ha voglia di far casino e baldoria all night long
(e più siamo, meglio è). Un segno distintivo che, tutto sommato, ce li
rende simpatici, soprattutto se abbiamo la consapevolezza che un disco
come questo non ha nulla di importante da dirci, ma nel momento del
cazzeggio è un ottimo compagno d’avventura. Fate la prova: salite in
macchina, abbassate il finestrino, schiacciate il pedale
dell’acceleratore e alzate il volume dello stereo a palla con Warpaint
in canna, e mi saprete dire.
Perché canzoni come Bent, Right Now (con un finale quasi alla Rage Against The Machine), l’ottima cover di Head Like a Hole dei Nine Inch Nails e The Devil’s In The Details,
anche se non possiedono il dono dell’immortalità, hanno un tiro
pazzesco, ci mettono un attimo a entrarti in testa e sono la perfetta
colonna sonora per un party ad alto tasso alcolico.
VOTO: 7
Blackswan, mercoledì 20/03/2019
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