Non ho dubbi che l’uscita di Gigaton,
undicesimo album in studio dei Pearl Jam, sarà accompagnata da
recensioni negative e da una (aprioristica) campagna denigratoria, cosa
che succede spesso per nuovi lavori di band o artisti bolliti (o
presunti tali), spesso a prescindere dal contenuto qualitativo di ciò
che si va ad ascoltare. Mi trovo, quindi, nella scomoda posizione di
parlare bene di un disco che ancora prima della pubblicazione, aveva
suscitato sui social le consuete dissertazioni su come i Pearl Jam siano
ormai vecchi, abbiano già dato tutto, si presentino come una stanca
replica di loro stessi, non facciano un disco decente, eccetera,
eccetera, eccetera. E sento il bisogno di parlarne bene, non perché ami e
segua la band di Seattle fin dai suoi primi, ormai lontanissimi,
vagiti, ma perché Gigaton, al netto di alcuni difetti, è un
disco che ripropone una band risoluta, curiosa, vogliosa di fare, capace
ancora, come peraltro non ha mai smesso di fare, di scrivere anche
grandi canzoni.
Nessuno, qui, vuol fare apologie da fan irriducibile: è evidente che album come Ten, Versus, Vitalogy,
rappresentino un apice artistico impossibile da replicare, ed è
altrettanto evidente che, esaurita l’urgenza espressiva degli anni
gloriosi, i Pearl Jam si siano rintanati in una comfort zone, dalla
quale hanno continuato con regolarità a sfornare dischi di mestiere,
raccontando cose già dette, a volte bene, a volte molto meno. E’ un calo
fisiologico, che diventa poi assestamento quando la creatività non
trova più sbocchi verso nuove forme espressive.
In tal senso, Gigaton
stupisce proprio per la volontà di Vedder e soci di superare il proprio
steccato e vedere se sia possibile rimettersi in gioco, provando a
spostare, non di molto, ma in modo comunque significativo, il baricentro
della loro musica. Intendiamo: i Pearl Jam restano loro, il marchio di
fabbrica è quello; eppure, in queste dodici canzoni, lo sforzo per
evolversi è tangibile ed evidente. Ci sono suoni nuovi e c’è un modo
leggermente più complesso di strutturare le canzoni, pur rimanendo
sempre in quell’ambito classic rock, che li mantiene fra le band più
seguite e amate al mondo (pur con il consueto contorno di irriducibili
detrattori).
Gigaton è, perciò, un disco che richiede un ascolto diverso, che non può essere esaurito con un ”buona la prima, tanto è sempre la stessa solfa",
ma va compulsato più volte per comprendere lo sforzo fatto dal gruppo
per rinnovare il messaggio. Non tutto, ovviamente, è centrato, ma le
canzoni buone ci sono e non sono poche (come per altro, già esistevano
anche in pubblicazioni precedenti meno brillanti e massacrate senza
pietà da molto critica).
Who Ever Said
apre le danze con il più tipico suono PJ: un riff di chitarra
arrembante e la ritmica martellante fanno pensare subito che siamo di
fronte al già sentito, all’ovvio. Eppure, a metà, il brano ha una
svolta, si innerva di pathos e tensione, sembra una canzone a incastro,
tanto vibrante da far pensare di essere tornati ai tempi d’oro. Anche la
successiva Superblood Wolfmoon, eccitata dal rombare
punkeggiante delle chitarre, suona inizialmente come un deja vu.
Tuttavia, non è la solita sfuriata di tre minuti e via: la trama è più
complessa, piacciono i cori, la foga di uno scatenato Vedder e l’assolo
icastico e risoluto di McCready. Sono i Pearl Jam, certo, ma non sono i
Pearl Jam che fanno i Pearl Jam: sono potenti, sferraglianti, credibili.
Dance Of Clairvoyants
è il primo brano in scaletta che si discosta nettamente da quanto la
band di Seattle ci ha abituati in tanti anni, ed è stato anche il primo
singolo pubblicato, quello che per molti è stata una sorta di colpo di
fulmine (evaporato dopo pochissimo, peraltro) e che ha anche ingenerato
azzardati paragoni con i Talking Heads. Comunque la vogliate vedere,
questa resta una canzone di rottura, intrigante e imprevedibile, capace
di miscelare alla perfezione inquietudini new wave a un nervosissimo
groove funky. Ancora meglio la successiva Quick Escape, la cui
circolarità elettrica e convulsa, è sostenuta da un giro di basso
potente e distorto. Un brano le cui intenzioni sono quasi progressive,
come dimostra la straordinaria coda strumentale, in cui Ament si inventa
una linea di basso alla Chris Squire (Heart Of Sunrise) e
McCready sfodera un assolo da brividi. Canzone da testare assolutamente
in concerto, visto che potrebbe essere l’abbrivio di uno di quei momenti
jammistici con cui i Pearl Jam si mangiano il palco come pochi al
mondo.
Alright
è una ballata che indossa una tenue ed inusitata veste elettronica:
piace il coraggio, ma il songwriting gira intorno a una sola idea e
manca di quel guizzo melodico che poteva centrare il bersaglio grosso.
Come accade, invece, nella successiva Seven O’Clock, sei minuti
abbondanti di power ballad da stadio che srotola il proprio epos su un
tappeto di tastiere e sulla voce quanto mai appassionata di Vedder. Una
sorta di istant classic, a cui, date tempo qualche anno, verrà concesso
un privilegiato posto nel cuore di molti fan.
Never Destination
è la sfuriata punk’n’roll che non manca mai in un disco dei Pearl Jam.
Niente di nuovo, tutto molto prevedibile (ma queste sciabolate vi sono
sempre piaciute, perché non dovrebbe piacervi anche questa?). Meglio la
successiva, e gemella, Take The Long Way, che sembra animata da sincera urgenza, possiede un ritornello assassino e ci regala un lavoro egregio dei due chitarristi. Buckle Up
è un episodio anomalo, dall’andamento molto psichedelico, potrebbe
essere intrigante, ma sembra un’idea buttata lì, senza essere
sviluppata.
Le successive due canzoni rappresentano il momento più debole del disco: Comes Then Goes
è poco più di una schitarrata con gli amici davanti al falò, inutile e
senza mordente, resa vieppiù inascoltabile dai sei minuti di durata, che
la rendono assolutamente indigeribile, mentre Retrogade è la
classica ballata alla Pearl Jam, ma fiacca, priva di epica e di
ispirazione. Quando, ormai, a fine ascolto, si stanno per tirare i remi
in barca, ecco che arriva improvvisa River Cross, canzone di
bellezza straniante, sostenuta da una ritmica dl suono anni ’80 e da una
melodia appassionata, malinconica e struggente, che la trasfigura in
una sorta di Don’t Give Up (Peter Gabriel) 2.0.
Insomma, Gigaton
(da rivedere titolo e copertina) non è un capolavoro, ma è un buon
disco, testimone di una band che sembra aver disinnestato il pilota
automatico, e si sia rimessa a guidare, facendo leva, non solo sulla
propria indubbia perizia, ma anche su quelle intuizioni, qui nuovamente
presenti, e quel coraggio, che l’hanno fatta diventare una delle più
grandi rock band della storia. Forse, io spero di no, molti ne
parleranno male, e questa magari sarà una delle poche recensioni
positive che leggerete. Personalmente, non voglio convincervi di nulla:
l’arma per giudicare l’avete anche voi. Si chiamano orecchie, e valgono
più di mille parole.VOTO: 7
Blackswan, sabato 28/03/2020
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