E’ il 1970, quando il cantante/chitarrista "Lonesome"
Dave Peverett, il bassista Tony Stevens, e il batterista Roger Earl
lasciano la band dei Savoy Brown (una sorta di porto di mare in cui
decine di musicisti entrano e escono alla velocità della luce), subito
dopo la pubblicazione del fortunato Looking It.
I
tre, a cui si aggiunge ben presto il chitarrista Rod Price, hanno le
idee ben chiare: mettere a frutto l’importante esperienza appena vissuta
e fare propria la lezione hard blues mandata a memoria durante la
militanza alla corte di Kim Simmonds. E visto che quella musica, pur
derivante da una solida tradizione anglosassone, aveva radici negli
Stati Uniti, Peverett e soci attraversano l’oceano per firmare un
contratto con la Bearsville Records, nuova etichetta gestita da Albert Grossman.
E
fanno benissimo, perché il loro primo, omonimo disco, pubblicato nel
1972, se in patria passa completamente inosservato, negli States, grazie
a un paio di cover azzeccatissime e alla lucida produzione di Dave
Edmunds, entra in classifica e attira l’attenzione mediatica sulla band.
Che da quel momento in avanti comincia a scalare le charts statunitensi
e si crea un cospicuo parterre di aficionados, che perdono
letteralmente la testa, per quella musica grezza e istintiva, che invece
fa tanto storcere il naso alla critica specializzata. Un disco d’oro in
bacheca è il viatico per un successo che, di li’a breve, porterà ai
Foghat fama e denaro, grazie a un filotto di sei album, tutti
vendutissimi.
La
formula non è particolarmente originale, e anzi, ogni disco è un po' la
fotocopia degli altri: un boogie rock dritto e diretto, senza fronzoli,
potente e selvaggio, che tira a cento all’ora sul rombo assordante
delle chitarre. I ragazzi, però, ci sanno fare, sono affiatati, suonano
da Dio, e dal vivo non risparmiano sangue e sudore.
Caratteristiche,
queste, che sono al contempo un limite invalicabile e un merito
straordinario. Un limite, perché, quando a fine anni ’70 il mondo della
musica viene azzerato dallo tsunami punk e lo scenario, tanto inglese
quanto americano, si apre a nuovi suoni, l’immutabile formula dei Foghat
appare immediatamente superata e anacronistica; un merito, perché la
bravura della band dal vivo e la capacità di rinnovare sul palco la
veridicità di un rituale tenacemente rockista, rende leggendarie le loro
performance live e li consegna alla leggenda, grazie proprio a un disco
dal vivo.
Foghat Live,
pubblicato nell’agosto del 1977, li spinse, infatti, fino
all’undicesimo posto di Billboard 200, e vendette, in poco tempo, più di
due milioni di copie. Il disco, uscito nel 2019 in versione
rimasterizzata, è la fotografia nitida della potenza di tiro di una band
agguerritissima. Solo sei canzoni, per la durata complessiva di
trentanove minuti, che non fanno prigionieri, grazie a una sezione
ritmica martellante e al tiro incrociato di due chitarre che sputano
fuoco senza soluzione di continuità.
In scaletta, ovviamente, non potevano mancare, Slow Ride, il loro singolo di maggior successo, che raggiunse la ventesima piazza delle classifiche americane, I Just Want To Make Love To You, furibonda cover presa in prestito dal songbook di Willie Dixon, e, per citarne un’altra, l’indiavolata Honey Hush,
anfetaminica tirata hard rock, che vede la sezione ritmica viaggiare a
velocità supersonica sulle folate chitarristiche di Price e Peverett.
Sull’onda del successo di Live, i Foghat piazzarono ai vertici delle classifiche anche il successivo Stone Blue
(1978), poi, negli anni ’80, il nulla o quasi. Ciò nonostante, tra
cambi di nome e di line up, e dolorose dipartite (Peverett morì per
cancro nel 2000, Price per un infarto nel 2005), la band è ancora in
piedi e continua a pubblicare dischi, l’ultimo dei quali, Slow Ride,
uscito nel 2018.
Blackswan, lunedì 18/05/2020
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