Originari
di Bristol, capitanati dal cantante Patrick Duff e dal chitarrista Alex
Lee (The Blue Airplanes, Suede), gli Strangelove hanno vissuto una
breve stagione nel cuore degli anni '90. Un storia durata più o meno un
lustro, punteggiata da tre album in studio e un pugno di Ep, nobilitata
da un picco di notorietà raggiunto a metà del decennio e resa complicata
dalle condizioni di salute di Duff, alle prese con una forte dipendenza
da alcol e droghe e una depressione tanto invasiva da spingerlo alle
soglie del suicidio.
La
band, formatasi nel 1991, esordirà l’anno successivo con un Ep
(Visionary), darà alle stampe il primo full lenght solo nel 1994 (Time
For The Rest Of Your Life) e uscirà di scena, nel 1997, dando alle
stampe questo omonimo e bellissimo disco, tra i più sottovalutati e
dimenticati del decennio.
Strangelove
sfodera un suono decisamente più rock e più duro rispetto ai lavori
precedenti: le chitarre, spesso roboanti, sono il tratto distintivo
delle undici canzoni in scaletta, a cui però non mancano melodie
irresistibili e di facilissima presa. L’abilità del quintetto sta
proprio nella capacità di bilanciare potenza e armonia, su uno spartito
che coagula con intelligenza il suono del decennio: non solo chitarre,
quindi, ma anche un pizzico di malinconia che ricorda i coevi Radiohead
(che qualche mese prima hanno pubblicato il capolavoro Ok Computer),
citazioni classiche rilette col gusto dell’epoca (Beatles, Kinks, etc)
e, ovviamente, i piedi ben saldi nel brit pop, che in quegli anni fa
sfracelli grazie band quotatissime come Oasis, Blur e Verve.
Che
gli Strangelove abbiano irrobustito il loro sound lo si capisce fin
dalla tripletta che apre il disco: Superstar, una sorta di Paranoid
Android, capace di fondere dolcezza acustica e furore chitarristico, lo
sferragliare convulso fra scorie grunge della violenta Freak, e il tiro
diretto, chitarre lancia in resta, di Someday Soon. Tre canzoni che
sottolineano una cifra stilistica meno introspettiva e un approccio
decisamente più graffiante rispetto ai lavori passati (Superstar e Freak furono registrate in studio dal vivo senza alcun ritocco in fase di post produzione).
Le
frecce all’arco della band, però, sono molte di più. L’innesto del
tastierista Nick Powell, come sesto membro della band, vivacizza
ulteriormente il suono arricchendolo di sfumature e colori, come
avviene, ad esempio, nella cangiante e divertentissima The Runaway
Brothers, trainata con esuberante allegrezza da uno stupefacente drive
di piano.
Un
songwriting brillante e incisivo, quello di Duff e Lee, da cui nascono
piccole gemme che avrebbero meritato ben altra fortuna: la
melodrammatica Wellington Road, intensa ballata dagli accenti brit pop,
la clamorosa Another Night In, pastiche che cita smaccatamente i Fab
Four, ma è capace di sviluppare il tema con intuizioni fuori dagli
schemi (l’intreccio tra piano e una chitarra in odore di acidi, il
ruffiano intermezzo pianistico, la coda strumentale dal sapore quasi
progressive), la contagiosa esuberanza pop in salsa d’archi di The
Greatest Show On The Earth (quel ritornello in falsetto che ti inchioda
fin dal primo ascolto), il saliscendi psichedelico di Little Queenie (la
cui melodia è contornata da irresistibili coretti) e la chiosa di
Jennifer’s Song, ballata acustica in cui il timbro vocale di Duff evoca
addirittura Morrissey.
La
copertina malinconicissima, quella porta chiusa e la foto di una
panchina vuota in uno scenario autunnale, ammicca chiaramente alla fine
dell’avventura. Gli Strangelove non esistono più. Duff formerà i Moon,
altra meteora dalla vita brevissima, e in seguito inizierà una carriera
solista senza particolari picchi, mentre Alex Lee alternerà la carriera
di produttore a quella di turnista (Goldfrapp, Placebo, etc.).
Blackswan, venerdì 05/06/2020
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