Dopo quasi un ventennio di carriera alle spalle, Lana Del Rey, disco dopo disco, ha messo a tacere i tanti detrattori, quelli che, anche con ingiustificata insistenza, l’hanno sempre considerata solo un fenomeno mediatico, una lolita priva di talento, buona per le pagine patinate di qualche rivistucola di gossip. La trentacinquenne artista newyorkese, invece, si è costruita una carriera in crescendo, sfornando album di gran classe, definendo uno stile immediatamente riconoscibile e ritagliandosi un posto di prima importanza nell’attuale panorama pop.
Etereo, fluttuante e atmosferico, il nuovo Chemtrails Over The Country Club è un disco fortemente nostalgico, che sviluppa in ogni canzone linee melodiche ariose e rigogliose armonie. Non ci sono artifici, però, nessuna costruzione complessa, ma un impianto espressivo, semmai, centrato sulla semplicità, lineare e diretto. Il disco si apre con White Dress, terzo singolo tratto dall’album, in cui Lana Del Rey dimostra di saper estrarre dalle sue potenti note basse un delizioso falsetto che sembra quasi evaporare nell’aria circostante, mentre il tono delicato, a tratti quasi afono, della voce, conferisce alla traccia una vulnerabilità che ne esalta la profondità e il pathos emotivo. Una canzone fortemente malinconica, che scivola in punta di dita su un pianoforte, evocando l’intensità espressiva di Cat Power, e raccontando i giorni lontani, in cui Lana, vestita di bianco, lavorava come cameriera a Orlando, Florida.
Non un inizio messo lì a caso. Anche in Chemtrails, infatti, il songwriting della Del Rey è come uno sguardo costantemente rivolto al passato, una peculiarità che da sempre, dagli esordi di Video Games, ha contraddistinto la sua sensibilità artistica sottilmente anacronistica. Tutto il disco è avvolto da diafane trame nostalgiche, in una sorta di ricerca del tempo perduto e irrecuperabile, in un continuo chiedersi quale sia il valore della propria arte e dove risieda la felicità, nella spensieratezza degli esordi o nell’eco mediatico della notorietà.
Il tema della fama, una sorta di uomo nero che ruba il sonno e la pace, ritorna in Dark But Just A Game, in cui la voce morbidissima di Lana si appoggia su languidi arpeggi di dodici corde, e nei turbamenti del folk sommesso di Wild At Heart, amara riflessione sul tragico destino di molte star (il riferimento a Lady Diana è esplicito nel verso: “The cameras have flashes, they cause the car crashes”).
A fianco della Del Rey, opera nuovamente Jack Antonoff, che aveva co-prodotto Norman Fucking Rockwell, e la magia di quello strabiliante disco in qualche modo rivive anche qui, grazie alla peculiarità con cui il produttore dà spazio e sostanza alla splendida voce della cantante newyorkese. Quando il lavoro in tandem funziona, le atmosfere e le melodie riescono davvero a sorprendere, come una sorta di avvincente incantesimo, tanto che si può perdonare persino un momento un po' risaputo e sonnolento (Not All Who Wander Are Lost). Il resto, però, possiede un fascino irresistibile, e si ha la sensazione di fluttuare in un cosmo senza tempo, in cui il passato si confonde nel presente, in cui la modernità ha il sapore buono di cose antiche, di ricordi imprescindibili che fanno di questo disco una musica senza età, che si può collocare ovunque, senza che Chemtrails perda un grammo del suo incorporeo fascino.
E’ questo, probabilmente, il motivo che ha spinto la Del Rey a chiosare l’album con una cover di For Free di Joni Mitchell (la canzone proviene dall'LP del 1970 di Mitchell Ladies of the Canyon): un rischio calcolato (la reinterpretazione è appassionata e rispettosa) che amplifica l’indeterminatezza temporale di cui è avvolta la scaletta e suggerisce un fil rouge tra anime affini, che, a distanza di mezzo secolo l’una dall’altra, si scoprono fragili di fronte alla caducità dell’arte e alle distorsioni della fama.
Il finale perfetto per un disco ipnotico, fascinoso e ricco di consapevolezza e toccanti riflessioni. Per un artista non è semplice bilanciare freschezza espressiva e coerenza stilistica, scartare l’autoreferenzialità e dimostrarsi credibile, senza essere ripetitivo. In tal senso, Lana Del Rey dimostra per l’ennesima volta di aver trovato una propria solida dimensione artistica e una chiave di lettura che, nella sua disarmante semplicità, non smette di essere avvincente, progredendo di disco in disco.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 31/03/2021