martedì 31 agosto 2021

DON'T CRY - GUNS N' ROSES (Geffen, 1991)

 



Chi non ha vissuto quel momento terribile in cui, lei o lui, ti dice che l’amore è finito, che vuole andarsene, perché, magari, nella sua vita è entrato un’altra o un altro? La domanda è ovviamente oziosa, perché quegli attimi terribili, che magari colpiscono improvvisi e inaspettati, li hanno vissuti, più o meno, tutti, e magari anche più volte nel corso dell’esistenza. E’ un pò come essere colpiti da un pugno allo stomaco, che lascia senza fiato e che scatena, talvolta, reazioni, di cui poi, quando il tempo ha cancellato le ferite, ci vergogniamo profondamente: un accesso d’ira o di violenza che ci trasfigura, gli insulti, un singhiozzante implorare, l’autocommiserazione e il pianto, lacrime calde, amare, definitive.

Non si direbbe, ma per amore, ha pianto anche Axel Rose, frontman dei Guns n’ Roses, archetipo della rockstar, tutto sesso, droga e rock’n’roll. Da non crederci, vero? Eppure è successo. Axel era follemente innamorato di una ragazza che usciva con il chitarrista della band, Izzy Stradlin, e ossessionato da questo sentimento, che tra l’altro poteva minare i rapporti all’interno della band, non perdeva occasione di palesare i suoi sentimenti e, come si suol dire, di provarci. La ragazza, però, opponeva un’inaspettata resistenza alle advances del cantante, forse per un’innata predisposizione alla fedeltà e alla monogamia, forse perché, conoscendo il tipo, aveva capito che la relazione non avrebbe mai potuto funzionare.

Così, una sera, mentre Axel era seduto sulla panchina di un parco di fronte al Roxy Theatre, il famoso locale sulla Sunset Strip di West Hollywood, la ragazza gli si avvicinò e disse al cantante che, no, il loro rapporto non avrebbe avuto futuro, che lei era innamorata di Izzy e con lui voleva rimanere. Axel l’ascoltò in silenzio e poi iniziò a piangere, disperato. Lei, commossa da tanta inaspettata sofferenza, gli prese la mano e gli sussurrò all’orecchio: “Non piangere, Billy” (il vero nome di Axel Rose era William Bailey Rose).

Nasce così Don’t Cry, una delle canzoni più famose del repertorio dei Guns And Roses, che, la sera successiva, venne scritta dal cantante e dalla band in solo cinque minuti. Cinque minuti di lavoro, che permisero alla band di conquistare la top ten negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi europei.

Un’ultima curiosità: Don’t Cry è l’unica canzone della storia a essere comparsa contemporaneamente in due versioni differenti, e con testo diverso, su Use Your Illusion Vol 1 e Use Your Illusion Vol 2, pubblicati entrambi dai Guns nel 1991.

 


 

 

Blackswan, martedì 31/08/2021

lunedì 30 agosto 2021

LAST DAYS IN APRIL - EVEN THE GOOD DAY ARE BAD (Tapete Records, 2021)

 


Dalla seconda metà degli anni '90, gli svedesi Last Days of April (originari di Stoccolma) hanno dato vita a una successione di dischi luminosi e ricchi di ganci melodici, facendo guadagnare al cantante, chitarrista e autore a tutto tondo della band, Karl Larsson, la reputazione di cantautore brillante e grande interprete del suono americano. Con Even The Good Days Are Bad, Larsson e co. sfornano il loro decimo album in studio, dopo il bellissimo Sea of Clouds (2015), che conferma quanto di positivo abbiamo sempre pensato di questa onesta compagine svedese: la capacità di scrivere canzoni melodiche di facile presa, che mescolano con mestiere pop, folk, rock e scampoli di alt country e citano con trasparenza modelli stilistici che vanno dai Beatles ai Jayhawks e Wilco, solo per citarne alcuni.

Chitarre scintillanti, linee di synth caracollanti, batteria incisiva, produzione analogica e la voce vulnerabile ma resiliente di Larsson, fanno di Even The Good Days Are Bad un disco allo stesso tempo nuovo e classico, attuale e senza tempo.

L'album ha iniziato la sua gestazione nel 2019, grazie a Larsson che ha portato alla luce canzoni risalenti ai primi anni 2000 e ha scritto parecchio nuovo materiale.

La sezione ritmica di lunga data della band, il batterista Magnus Olsson e il bassista Rikard Lidhamn, si è unita al cantante per registrare al leggendario Studio Gröndahl di Stoccolma. Larsson ha quindi lavorato alle registrazioni nel suo studio di casa per definire le sovraincisioni e prendersi il tempo per ricamare le ricche trame melodiche dell'album. Poi, qualcosa di inaspettato è successo a interrompere bruscamente il percorso iniziato: una pandemia globale.

Anche se The Good Days Are Bad era già in fase di completamento, la crisi ha rallentato e complicato il processo, finendo per incidere in qualche modo sui testi e il mood dell’album, che fluttua a mezz’aria, in un limbo fatto di speranza per un futuro migliore e di disarmante tristezza per il presente. Così, la title track finisce per riflettere l'umore odierno dell'intero pianeta, mentre in Alone Larsson canta la fatica dell'isolamento che tutti abbiamo sopportato nei mesi trascorsi.

Il disco è, comunque, piacevolissimo, la band procede con il pilota automatico e il songwriting è prevedibile ma avvincente. Mancano grandi guizzi, è vero, ma la title track che apre il disco e la conclusiva Downer che lo chiude, con echi Fleetwood Mac, dimostrano la capacità di Larsson di scrivere grandi canzoni, che non saranno eterne, ma sanno come dare refrigerio melodico alle nostre accaldate orecchie.

Voto: 6,5

 


 

 

Blackswan, lunedì 30/08/2021

venerdì 27 agosto 2021

UNDER THE BRIDGE - RED HOT CHILI PEPPERS (Warner, 1991)

 


La droga ti brucia il cervello, ti trasforma in un fantasma, ti porta via tutto, la dignità, soprattutto, e poi gli affetti, l’amore, la famiglia. E’ quello che sta pensando Anthony Kiedis, quando, dopo le prove per la registrazione del nuovo album, Blood Sugar Sex Magik, sta tornando a casa in macchina, una notte del 1991. Attraversa la città che ama, Los Angeles, che in quel momento, più che mai, non rappresenta solo il suo contesto più famigliare, ma la sua unica compagna di vita, l'unica consolazione. Sono tre anni che non si fa, che ha concluso il suo esiziale valzer con eroina e cocaina, e sta finalmente bene. Ma è solo, si sente solo come un cane, senza più punti di riferimento, senza nemmeno la compagnia degli amici che suonano nella band, i quali, da quando ha mollato le droghe, praticamente lo ignorano.

Pensa a tante cose, Anthony, mentre le luci della città sfrecciano al suo fianco, e quei pensieri, che gli hanno attanagliato il cervello e il cuore, lo gettano in un cupissimo sconforto e acuiscono un senso di straniamento prossimo alla disperazione. Soprattutto, Kiedis ha davanti a sé l’immagine della bellissima fidanzata, Ione Skye, la figlia del cantautore Donovan, una ragazza che lo ha amato senza riserve, di quell’amore puro che solo gli adolescenti possono, e che alla fine ha desistito ed è scomparsa per sempre. Perché Anthony, come tutti i tossici, non aveva spazio per altro che non fosse la sua dipendenza, non sapeva e non voleva amare. Cocaina, Eroina, Speedball, la santa trinità di una religione che prevede solo l’ortodossia e la dedizione totale. A fianco del bel volto di Ione, arrivano immagini terribili, mortificanti: i buchi, le sniffate, la sporcizia, quei continui viaggi verso il centro della città, per arrivare sotto il ponte, dove gli spacciatori ti vendono la roba per un altro sballo, chiedendoti in cambio il denaro e l’anima.

Anthony, quando arriva a casa, ha le lacrime agli occhi e brutti pensieri di morte. Prende carta e penna e scrive d’istinto una poesia, per scacciare i fantasmi, rielaborare quel vuoto immenso, provare a vedere se l’inchiostro riesca a rendere più nitidi i pensieri, così confusi, così dolorosi.

 

Il presente, la solitudine:

A volte mi sembra di non avere un partner, A volte mi sento il mio unico amico

È la città in cui vivo, la città degli angeli?

Solo come sono, insieme piangiamo

Guido per le sue strade perché è la mia compagna

Cammino attraverso le sue colline perché lei sa chi sono

Vede le mie buone azioni e mi bacia al vento

 

Il passato, l’abiezione, la perdita, il rimpianto:

È dove ho prelevato del sangue(Sotto il ponte in centro)

non ne ho mai abbastanza(Sotto il ponte in centro)

Dimenticato il mio amore(Sotto il ponte in centro)

Ho dato via la mia vita” 

 

Qualche giorno dopo, Rick Rubin, il produttore del disco, va a trovare Kiedis, come fa spesso: discutono del disco, dei testi, delle parti vocali, di come farle rendere al meglio. Per caso, si ritrova per le mani il quaderno di appunti del cantante e legge il testo di Under The Bridge. Resta folgorato. A fatica, convince il cantante a condividere quelle liriche coi compagni, per tirarne fuori una canzone vera e propria. Anthony è riluttante, il testo è troppo triste, troppo personale, troppo emotivamente coinvolgente. Alla fine, però, prevale il parere di Rubin. La band, quando ascolta quei versi, si mette subito al lavoro. In particolare è Frusciante, il chitarrista, a trovare gli accordi e il mood giusto, scegliendo di abbinare a quelle parole disperate una melodia che fosse più leggera, malinconica ma non triste. 

Quando il disco venne pubblicato, nel settembre del 1991, il primo singolo scelto fu Give It Away, ma nessuno aveva idea di quale potesse essere il secondo. La Warner decise così di mandare dei suoi rappresentanti a un concerto dei RHCP, per osservare le reazioni del pubblico a ogni nuova canzone. Al momento di suonare Under The Bridge, Kiedis sbagliò completamente l’attacco, che venne però cantato da tutto il pubblico presente. La decisione della casa discografica arrivò in un lampo: se tutti la cantano, quello è il nuovo singolo. Scelta azzeccatissima: Under The Bridge rimase per ventisei settimane nella Billboard Hot 100, arrivando a conquistare la piazza numero due.

 


 

 

Blackswan, venerdì 27/08/2021

giovedì 26 agosto 2021

WHISPERING SONS - SEVERAL OTHERS (PIAS, 2021)

 


Several Others è il primo full length dei belgi Whispering Sons dai tempi di Image, loro debutto datato 2018, che li ha visti raccogliere presto i consensi della stampa e del pubblico, oltre a conquistare milioni di stream, grazie a una miscela oscura e originale di post punk sperimentale e frenetico. Allo stesso modo, prima del lockdown, i loro feroci live act li avevano fatti conoscere al grande pubblico come una band imperdibile dal vivo, capace di condividere il palco, senza timidezza, con artisti del calibro di The Murder Capital, Patti Smith, The Soft Moon e Croatian Amor e Editors.

Fin dal primo ascolto di Several Others si comprende la vibrante attesa che ha accompagnato l’uscita di questo nuovo album: in un periodo storico in cui il genere è tornato prepotentemente di moda, la band belga si presenta come una delle realtà più interessanti, capace di far rivivere gli antichi fasti del post punk (Bauhaus, The Sound, Sister Of Mercy, etc.) aggiungendo però un tocco di industrial e di sperimentale avanguardia, che rende la proposta fascinosa e moderna.

La prima peculiarità che salta alle orecchie è l’incredibile voce della cantante Fenne Kuppens, il cui timbro oscuro, basso e respingente è l’elemento trainante delle dieci canzoni in scaletta. Una voce che risuona lontana come un abisso, che sferza le ossa come una raggelante ventata di neve, ma che è al contempo in grado di appiccare incendi e bruciare la pelle con vampate di cupa disperazione.

Attorno a Fenne, riff algidi e inquietanti, bassi profondi e rumorosi e tamburi battenti generano partiture ansiogene e violente derive noise, che trasformano ognuna delle dieci tracce in un unicum rispetto alle altre.

La ferocia selvaggia di Heat, l’incedere nervoso e allucinato di Dead End, scartavetrato da una chitarra alla Bahuaus, il ringhio minaccioso e il battito ossessivo di Satantango, l’urticante disperazione di Surface, che evoca il fantasma di Adrian Borland, sono le vette di un disco teso, tetro e ben poco accomodante, che conferma i Whispering Sons tra i migliori interpreti di un genere che sta vivendo un’eccitante e prolifica seconda giovinezza.

VOTO: 8 




Blackswan, giovedì 26/08/2021

mercoledì 25 agosto 2021

BEST OF MY LOVE - EAGLES (Asylum, 1974)

 


Best Of My Love: difficile trovare una canzone dal titolo più romantico, un titolo che suggerisce idillio e devozione e che apre il cuore alla speranza di un amore eterno. Non è un caso, infatti, che questa hit degli Eagles, datata 1974, sia, nei paesi anglosassoni, uno dei brani più suonati ai matrimoni, perfetta colonna sonora della promessa che si scambiano i due sposi. Peccato, però, che la canzone, se ci si soffermasse con un po' di attenzione al testo, racconti invece di una relazione in dirittura di arrivo, logoratasi nonostante nata sulle solide basi del meglio dell’amore possibile.

Alcuni versi, a tal riguardo, sono chiarissimi: “Ogni notte sto sdraiato a letto, Ti tengo stretta nei miei sogni, Pensando a tutte le cose che abbiamo detto”. E ancora: “Ogni mattina mi sveglio e mi preoccupo. Cosa succederà oggi? Tu la vedi a modo tuo io la vedo a modo mio. Entrambi, però, lo vediamo scivolare via” (l’amore, ndr.).

Il senso è semplice: perché un rapporto duri in eterno, l’amore non è sufficiente, per la convivenza serve un collante diverso, che ai protagonisti della canzone degli Eagles manca. Niente amore eterno, dunque, ma solo la lenta e triste agonia di una relazione destinata a morire.

Best of My Love fu scritta da Don Henley, Glenn Frey e JD Souther e compare nella scaletta del terzo album delle aquile, On the Border, datato 1974. Il brano, come racconta Glenn Frey, nasce casualmente. Frey si trovava a Laurel Canyon e stava cercando di imparare un’accordatura che Joni Mitchell, il giorno prima, aveva provato a spiegarli. Nonostante tutti i tentativi, Frey non riusciva a replicare quanto visto dalla Mitchell, andò in confusione e si ritrovò con l’accordatura che poi sarebbe stata quella usata per Best Of My Love.

Ma c’è di più. Gli Eagles iniziarono a registrare On The Border con il produttore Glyn Johns che aveva messo mano al loro album di debutto e al successivo Desperado. Con Johns, che aveva già prodotto dischi dei Led Zeppelin e degli Who, i rapporti, però, erano assai tesi, dal momento che il produttore, nonostante il suo passato da rocker, insisteva affinchè gli Eagles desistessero dalle loro velleità elettriche e si concentrassero sulle ballate e sulla melodia, e poi perché, horribile dictu, vietava alla band di assumere droghe durante la lavorazione dell’album. Fu così licenziato e sostituito da Bill Szymczyk, che avrebbe garantito all’album un tiro più energico.

Johns, prima di essere cacciato, mise comunque mano a due canzoni: You Never Cry Like A Lover e, indovinate un po'?, Best Of My Love. La quale, a dispetto degli intenti rockettari della band, grazie alla sua melodia ariosa e al mood zuccherino, quando venne pubblicata (come terzo singolo), schizzò alla prima piazza di Billboard 100, cosa che, fino ad allora, non era mai successa.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 25/08/2021

martedì 24 agosto 2021

JEAN- CLAUDE IZZO - IL SOLE DEI MORENTI (E/O Edizioni, 2000)

 



Il sole dei morenti è l'ultimo romanzo scritto da Jean-Claude Izzo prima della sua prematura scomparsa. È il suo capolavoro: una struggente esplorazione del potere distruttivo dell'amore, la storia di un uomo che cerca l'amore e non lo trova, e per questo viene relegato ai margini della società. Il merito di Izzo è di riuscire a farci identificare con un destino apparentemente estremo, quello di un essere umano che ha perso tutto. Quando i pompieri portano via il corpo di Titì, l'unico amico rimastogli, morto di freddo in una stazione del metrò parigino, Rico decide che è ora di andarsene, lasciare Parigi per il sud. Se deve morire, tanto vale morire al sole. Nel suo viaggio incontra altri disperati come lui, persone finite sulla strada seguendo percorsi di vita diversi e che reagiscono diversamente, chi con solidarietà chi con cattiveria. In fondo al viaggio c'è Marsiglia e la speranza di rivedere Lea, il grande amore della sua gioventù.

Può succedere a chiunque. Un giorno la vita ti volta le spalle, perdi il lavoro, perdi l’amore e la famiglia che amavi. E non sei più nessuno: diventi un paria, un miserabile, un clochard senza volto o un numero, nel migliore dei casi, quando il freddo di notti gelide ti uccide e diventi parte di una statistica, l’estemporanea notizia data al tg della sera.

Questa è la storia di Rico che, da un giorno con l’altro, si trova risucchiato in un vortice di abiezione, senza una casa, senza un lavoro, senza una speranza. Quando muore Titì, l’amico del cuore con cui condivideva il pane duro di una vita di espedienti, i pasti frugali, il tormento di notti all’addiaccio, il gusto rancido del vino a poco prezzo, Rico perde l’unico punto di riferimento rimasto di un’esistenza ai margini. Decide così di partire, di lasciare Parigi per tornare a Marsiglia, città di ricordi dolcissimi e di un antico amore di gioventù.

Un viaggio lungo e pericoloso, durante il quale il protagonista del romanzo fa i conti con il proprio passato e con l’uomo che era un tempo, rivivendo tutti gli amori perduti, le illusioni e le speranze che la vita gli ha tolto. Un viaggio nella consapevolezza che tutto è perduto, che non c’è spazio al mondo per gli ultimi e i reietti, che ciò che resta, alla fine del cammino, è solo scegliere di morire in riva al mare, guardando il sole, ultimo lampo di luce capace di fendere l’ammorbante afrore di una miseria cupissima.

Izzo si schiera a fianco del suo personaggio e di questa umanità allo sbando, persa definitivamente, ma talvolta ancora in grado di piccoli gesti di bontà e dolcezza, il cuore che batte ancora nello sprofondo esistenziale di una notte nerissima.

Uno degli ultimi baluardi romantici contro la deriva di questi tempi bui, Izzo sta alla letteratura come Ken Loach al cinema: sempre dalla parte dei perdenti, scrive per dare un’identità ai senza nome, a coloro che stanno sul gradino più basso di una società ipocrita e ormai priva di valori etici. Se però il sottoproletariato urbano così ben raccontato dal cineasta inglese, riesce, talvolta, a trovare redenzione e riscatto, in Izzo prevale un pessimismo invasivo, perché il mondo e la vita fanno schifo e non c’è alcuna speranza per i suoi eroi dal cuore d’oro ma dal destino irrimediabilmente segnato.

Un romanzo cupo, triste e amaro, che non fa sconti, raccontando tutte le miserie di un’umanità perduta nella logica del profitto e incapace di tendere una mano salvifica a chi viene risucchiato in un dolore immenso. Indispensabile per chi è ancora in grado di ribellarsi, indignarsi e commuoversi alle lacrime.

Blackswan, martedì 24/08/2021

lunedì 23 agosto 2021

THE ROLLING STONES - A BIGGER BANG: LIVE ON COPACABANA BEACH (Universal, 2021)


 

Ha senso comprare l’ennesimo live dei Rolling Stones? Perché è di tutta evidenza che l'uscita di un nuovo disco dal vivo recuperato dagli archivi della premiata ditta Richards/Jagger non è certo l'evento importante che era una volta. Dopotutto, di live ne sono usciti diversi negli ultimi anni, ognuno dei quali ha documentato alcuni momenti significativi nella carriera artistica della band, che si tratti dell'Avana o di Hyde Park.

Live On Copacabana Beach ripete il medesimo clichè, due CD e un DVD o Blu-Ray che catturano il concerto gratuito eseguito per circa un milione e mezzo di persone sulla spiaggia di Copacabana, vicino a Rio de Janeiro e documentano il tour del 2006 di Bigger Bang (che, a quel tempo, venne registrato come il più grande incasso nella storia con un introito dichiarato di 558 milioni di dollari). Un tour e un concerto, quindi, che alla luce dei numeri fu, come si dice, epico.

Naturalmente, la scaletta è quella che ci si attende, ormai da sempre, per un concerto dei Rolling Stones. Inevitabilmente, infatti, i fan rimarrebbero delusi se standard come Jumpin' Jack Flash, Satisfaction, Honky Tonk Women, Sympathy for the Devil e You Can't Always Get What You Want venissero trascurati. I grandi classici sono presenti, quindi, e non poteva essere altrimenti; ma ciò che rende speciale questa esibizione è la proposizione di alcune canzoni raramente eseguite durante i loro live act: Oh No, Not You Again, Rain Fall Down, Night Time is the Right Time, This Place Is Empty, e Rough Justice. Certo, ci saranno quelli che si lamenteranno del fatto che alcuni dei cavalli di battaglia degli Stones sono stati omessi (Paint It Black e Under My Thumb su tutte), ma d’altra parte, quando hai un repertorio che abbraccia quasi 60 anni, la sfida per creare una scaletta che soddisferà ogni fan è praticamente impossibile da vincere.

Per converso, bisogna riconoscere lo sforzo della band di voler evitare esibizioni copia incolla e di aver quindi regalato ai fan, oltre alle canzoni di cui si scriveva poc’anzi, anche alcune gemme, talvolta dimenticate, come Wild Horses e Get Off My Cloud.

Detto questo, il live è ottimo dal punto di vista della rosa sonora (e visiva) e come sempre coinvolgente sotto il profilo emotivo e tecnico, grazie anche all'ensemble di supporto del gruppo: il bassista Darryl Jones, il tastierista Chuck Leavell, il defunto sassofonista Bobby Keys e i cori affidati a Blondie Chaplin, Bernard Fowler e Lisa Fischer.

L’acquisto in tandem (due cd e dvd o blu-ray) è vivamente consigliato. Il film, infatti, è il modo più efficace e coinvolgente per rivivere lo spettacolo, godendo a pieno delle ampie inquadrature della folla, del clima infuocato e degli aspetti visivi della performance di una band che, quando sale sul palco, ha pochi eguali al mondo.

Pertanto, la risposta alla domanda iniziale, a parere di chi scrive è sì: un live degli Stones è un rito collettivo immutabile nel tempo, prevedibile, per certi versi, ma sempre in grado di emozionare, tanto i fan più accaniti quanto gli ascoltatori occasionali. Mettete mano al portafoglio, quindi, e non frapponete indugi. Ne vale la pena.

VOTO: 7,5

 

 

 

Blackswan, lunedì 23/08/2021

 

venerdì 20 agosto 2021

LUCKY MAN - EMERSON, LAKE & PALMER (Island, 1970)

 


Il denaro, il prestigio sociale, le onorificenze e il potere magari non daranno la felicità ma aiutano a vivere bene, sicuramente meglio di come vivono tanti esseri umani che si affannano per sbarcare il lunario e restano invisibili agli occhi del mondo. Se uno possiede tutte queste cose è quel che si dice un uomo fortunato, nato con la camicia e destinato a una vita ricca ed emozionante. Salvo che, poi, quando meno te lo aspetti arriva Lei, la morte, la triste mietitrice che non guarda in faccia nessuno e non fa sconti, inarrestabile e spietata. E allora non basta tutto l’oro del mondo né un venerato potere a salvare dal sonno eterno: nessuno è mai abbastanza fortunato da scampare al suo esiziale destino.

E’ questo il tema di Lucky Man, canzone che chiude il disco d’esordio degli Emerson Lake & Palmer (1970) e che fu scritta da Greg Lake per dare sfogo a una “fantasia medioevale” che gli frullava per la testa. Una canzone ambientata lontano nel tempo, nei secoli epici de “le donne, i cavalier, l’arme, l’amore, le cortesie e le audaci imprese”, il cui testo semplice racconta di un ricco possidente, rispettato e amato da bellissime donne, che parte in guerra per ordine del re e viene ucciso sul campo di battaglia: “Vestito di gloria ti ha chiamato la guerra. Per il Re. Il Suo Onore, la Patria e la Terra.  Ma tutti i tuoi soldi, le donne e l'onore non han fermato la palla che ti ha spaccato il cuore”.

La canzone, che una volta pubblicata si rivelò un grandissimo successo, ebbe una gestazione molto lunga. Il brano, infatti, fu scritto da Lake a dodici anni, dopo aver studiato i primi rudimenti di chitarra, fu tenuta nel cassetto per un decennio e quindi, nel 1969, proposta ai King Crimson, band nel quale il bassista/cantante militava, senza tuttavia accogliere i favori degli altri membri del gruppo.

Lucky Man fu quindi portata in dote agli Emerson Lake & Palmer, l’anno successivo: quando il trio si rese conto di non aver materiale a sufficienza per chiudere il disco d’esordio, Lake si ricordò di quel suo vecchio brano. Così si mise a strimpellarla, suscitando, però, soprattutto in Emerson, un tiepido entusiasmo.

Una sera, quando il tastierista era al pub a farsi un paio di pinte, Lake e Palmer si misero a registrarla: prima chitarra acustica e batteria, poi basso, chitarra elettrica e cantato. La coda del brano, però, era vuota, mancava un finale che desse un senso a tutta la composizione, e così Emerson si rese disponibile a provare a ricamarci sopra un assolo di Moog. Mentre suonava, Lake schiacciò il tasto della registrazione, e così quella che doveva essere una semplice prova, divenne la versione definiva del brano, nonostante le lamentele di Emerson, non convinto della bontà del lavoro fatto.

La storia, poi, diede ragione al bassista: Lucky Man, e la triste storia che raccontava, venne pubblicato come singolo, vendette molto bene, soprattutto negli States, e divenne uno dei cavalli di battaglia della band.

 


 

 

Blackswan, venerdì 20/08/2021

giovedì 19 agosto 2021

BILLIE EILISH - HAPPIER THAN EVER (Darkroom/Interscope Records, 2021)

 


Sono passati solo due anni dall’album di debutto di Billie Eilish e dal clamore mediatico che ha suscitato. Due anni che, coi ritmi frenetici dei nostri tempi, sembrano un’eternità in cui tutto può succedere. Così, non c’è da stupirsi se la Eilish, che ha solo 19 anni, nel brano di apertura di Happier Than Ever, canta “sto invecchiando", perché probabilmente è plausibile, vestendo i suoi panni, sentirsi più vecchi. Due anni, il successo planetario, la pandemia e il lockdown, la vita che cambia, rapida come una saetta.

Il suo album di debutto When We All Fall Asleep, Where Do We Go? non è stato solo un enorme successo globale, ma anche un album che ha alterato significativamente la musica pop mainstream. Due anni dopo, le piattaforme di streaming traboccano di cantautori adolescenti che descrivono tristemente le loro vite, con lo sguardo depresso e le lacrime agli occhi. Eilish ha sovvertito le regole, non c’è dubbio e lo ha fatto in soli due anni. Un lampo o un’eternità, dipende dai punti di vista.

When We All Fall Asleep… era un disco che raccontava i traumi adolescenziali universali – romanticismo, edonismo, social, gruppi di amicizie – come fantasie horror-comiche consapevolmente inquietanti, creando un immaginario di carri funebri, lingue cucite, amici seppelliti, pareti di marmo schizzate di sangue. Quella macabra, ma tutto sommato giocosa, ironia è meno evidente in questo nuovo lavoro. Sfarfalla di tanto in tanto, come nell'esplorazione della celebrità nell'era dei social media di Overheated, o su NDA, dove il ragazzo con cui Billie flirta è obbligato a firmare un accordo legale di riservatezza. Ma sono solo momenti, perché il mood generale di Happier Than Ever è notevolmente più cupo.

Your Power e Getting Older trattano entrambe di coercizione sessuale - la prima in modo esplicito, la seconda in modo più obliquo – e sono canzoni adulte, dallo sguardo disincantato, ferito. Sono passati due anni, e Billie è una persona diversa, un’artista diversa, che porta sulle spalle pesi prima inimmaginabili. Non è un caso che l'argomento principale dell'album, sia la fama e il suo impatto negativo sull’artista: ??gli stalker sono in agguato, le relazioni interpersonali vengono intossicate, la privacy non esiste ed è impossibile far tacere l'opinione pubblica su ogni aspetto della vita privata. L'argomento si insinua persino nelle canzoni d'amore dell'album: nella title track, Eilish si chiede se l'oggetto del suo amore abbia letto le sue interviste sul web e in My Future la cantante ritiene impossibile conciliare una storia d'amore con i progressi della sua carriera.

E’ cambiata la narrazione e in qualche modo è cambiata anche la musica: la scaletta sembra meno coesa, più eterogenea, con qualche inaspettata apertura cantautoriale. Se l’impianto sonoro è sostanzialmente simile a quello del suo predecessore (le voci sussurrate, il canto con influenze jazz, il mood intimo, la predominanza dell’elettronica, qualche occasionale ricamo di chitarra o pianoforte), il quadro complessivo, però, risulta più sommesso, meno appariscente. E un paio di momenti percorrono traiettorie decisamente lontane dal lavoro precedente di Eilish: l’inaspettata Billie Bossa Nova, che sembra un pastiche scherzoso, e il beat techno di Oxytocin, trainata da un synth atonale, sono figlie di una visione decisamente nuova.

Come nuovo è il mondo che, oggi, circonda la Eilish, la sua persona, la sua arte. Un mondo che ha trasformato la ragazzina emo in donna, che vive la celebrità a fatica, con sofferenza. Certo, ascoltare una pop star che si lamenta di essere una pop star di solito è snervante. Eppure, questo tema, plasmato dalle sue mani, con quella voce e quel pathos, sembra davvero toccante e credibile. C'è qualcosa di molto realistico in canzoni come Not My Responsibility, Overheated e Getting Older, in cui la Eilish oscilla fra gratitudine per il suo successo acquisito e la disperazione provocata dall’adulazione e dalla falsità altrui e dal peso delle aspettative che la cantante ha ingenerato.

Sono passati solo due anni dal debutto e tante cose sono cambiate. La sensazione di chi scrive è che le nuove canzoni abbiamo fino ad ora ricevuto una risposta abbastanza tiepida. E credo sia inevitabile, visti i contenuti di questo nuovo Happier Than Ever, un disco molto meno glamour e immediato, più riflessivo e maturo del suo predecessore, i cui testi, ormai, non riflettono più le vite e le esperienze dei suoi fan adolescenti: non ha molto senso fingere di essere ancora come loro quando hai venduto milioni di dischi e percorso la lunga scalinata della celebrità.

La Eilish è diventata vecchia, in soli due anni in cui è successo di tutto. Ciò non toglie nulla alla qualità di Happier Than Ever, e anzi, viene da chiedersi se, un successo meno eclatante, non possa contribuire a strutturare ulteriormente il talento artistico di una ragazza che sembra aver acquisito un linguaggio capace di essere trasversale e toccare cuori e menti anche di chi, come il sottoscritto, ha parecchi anni più di lei. Se così sarà, lo scopriremo fra due anni. Nel frattempo, godetevi questo disco, che merita di essere annoverato fra le cose migliori del 2021.

VOTO: 8,5 




Blackswan, giovedì 19/08/2021

mercoledì 18 agosto 2021

PET SHOP BOYS - DISCOVERY: LIVE IN RIO (Parlophone, 2021)

 


Da un lustro circa a questa parte, essere fan dei Pet Shop Boys regala notevoli soddisfazioni. Ancor più del loro ultimo HotSpot (2020), disco straordinariamente fresco e divertente, che testimoniava un’ispirazione al livello dei giorni migliori, negli ultimi anni, l'attività più interessante dei Pet Shop Boys è stata, infatti, l'immersione profonda che hanno fatto nei propri archivi. A partire dal remaster dell'anno scorso del loro film del 1987 It Couldn't Happen Here, a una vasta gamma di performance televisive caricate in alta qualità sulla pagina YouTube ufficiale della band, il loro enorme corpus multimediale accuratamente rivisitato è la dimostrazione della grande energia creativa che Neil Tennant e Chris Lowe hanno regalato ai propri aficionados in quasi quattro decenni di attività.

Originariamente pubblicato come film concerto negli anni '90, ma ora ristampato come album dal vivo, Discovery: Live in Rio - 1994 cattura il primo viaggio dei Boys in Brasile, tappa di un tour globale, per promuovere Very (1993), tra Singapore, Australia e America Latina, parti di mondo, queste, che i Boys non avevano mai toccato prima.

Nel 1991, i Pet Shop Boys, per la prima volta a livello internazionale, avevano portato in tour un'opera teatrale elaborata e operistica catturata dal film concerto Performance. Il loro album più recente a quel tempo, Behaviour del 1990, era uno splendido affresco della loro dance postmoderna e, in parte, un'elegante elegia per amici, compagni e collaboratori scomparsi a causa dell'AIDS, e sebbene sia stato spesso considerato dalla critica come il miglior disco del duo, il materiale e il relativo tour non erano riusciti a sfondare, come si sarebbe potuto immaginare.

Con Very, invece, il duo diede vita a un significativo restyling, che meglio si adattava alla cultura DJ più ritmata del nuovo decennio, riuscendo così a mettere a segno un clamoroso successo commerciale, dal momento che quel disco sarebbe diventato il loro album più venduto in patria. Una musica da ballo più esplicita, quindi, sempre i PSB ma ancora più dandy e modaioli: Discovery fotografa questo nuovo corso, il passaggio dal teatro dell'opera delle prime esibizioni dal vivo alle atmosfere di una serata da club, che irradia glamour e appassionata condivisione col pubblico, come solo la musica popolare può fare.

Se Performance, infatti, aveva tracciato una linea di demarcazione netta tra performer e pubblico, con Tennant e Lowe che si sentivano più attori in un dramma che musicisti in una band, con Discovery, i Boys vestono con esplicita decisione i panni degli showmen. Figlia dell'energia della cultura rave, l'atmosfera è divertita e allegra, anche se non manca quel tocco di teatralità che da sempre connota le performance del duo: il film concerto (nella confezione oltre al dvd sono presenti anche due cd) è, infatti, pieno di ballerini e modelle che si pavoneggiano sul palco in perizoma, mentre Tennant e Lowe sono vestiti in abiti ecclesiastici, quasi fossero ammiccanti sacerdoti del pop.

Il modo migliore per tornare a quegli anni d’oro e godersi un filotto di canzoni (e cover) che i fan e i nostalgici faranno fatica a tirare via dallo stereo (e della tv). Per tutti gli altri, un imperdibile documento storico di una band che ha fatto ballare, e non in senso figurato, mezzo mondo e diverse generazioni.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, mercoledì 18/08/2021

martedì 17 agosto 2021

TIFFANY MC DANIEL - IL CAOS DA CUI VENIAMO (Blu Atlantide, 2021)

 


“Una ragazza diventa donna davanti al coltello. Deve imparare a conoscerne la lama. La ferita. A sangui- nare. A portare la cicatrice senza smettere, in qualche modo, di essere bella e con le ginocchia abbastanza forti da poter strofinare il pavimento della cucina ogni sabato. Sarai perduta o trovata. Due verità che pos- sono accapigliarsi per l’eternità. Ma cos’è l’eternità se non un’intricata bestemmia? Un cerchio incrinato, lo spazio di un cielo acceso di fucsia. Se la portassimo giù sulla terra, l’eternità sarebbe un susseguirsi di vette lontane. Una terra nell’Ohio, dove tutti i serpenti nascosti nell’erba saprebbero in che modo gli angeli hanno perduto le loro ali. Accenderei una candela ora, ma finirei per dimenticare poi di spegnerla, e la mia casa andrebbe in cenere. Un mucchietto di cenere tanto piccolo da farmi dubitare di averne mai posseduta una. Una casa si costruisce dal principio e il mio principio sono Landon e Alka, mio padre e mia madre…”

 

Con il suo straordinario e fulminante esordio, L’estate Che Sciolse Ogni Cosa, Tiffany McDaniel ha ottenuto, grazie anche al passaparola, meritati plausi sia da parte della critica e che del pubblico. Un successo crescente, che ha portato la giovane narratrice originaria dell’Ohio a essere considerata una delle figure più interessanti della letteratura statunitense contemporanea. E a ragione, anche se cimentarsi nella lettura di un suo romanzo, però, non è operazione semplice. Non tanto per la prosa, che è agile e scorrevole, quanto semmai perché bisogna accettare di stare al suo gioco e alle regole che questo gioco comporta.

La McDaniel, infatti, rapisce letteralmente il lettore e lo trasporta in un mondo parallelo, seducendolo con una scrittura sempre in bilico fra reale e surreale, che gioca e si diverte con gli eccessi, creando personaggi immaginifici eppure incredibilmente veri, quasi palpabili fisicamente, commuovendo alle lacrime con stille di luminosa umanità o terrorizzando con le storie più crude e violente, declinate però con un gusto per l’immagine poetica che ha pochi eguali.

Il Caos Da Cui Veniamo catapulta il lettore a Breathed, Ohio, nel ventennio che va dagli anni ’50 agli anni ’70 del novecento; il dato storico e l’ambientazione realistica (la vicenda è ispirata alla vita della madre della scrittrice), tuttavia, restano in una dimensione sospesa e rarefatta, fluttuanti in un mondo rurale che sembra senza tempo.

Bitty, la voce narrante, racconta la storia della propria famiglia, i Lazarus, padre indiano, madre bianca e sei figli, tutti diversissimi fra loro. Una famiglia disfunzionale, come tante, peggio di tante, una famiglia che rappresenta il Caos su un piano di lettura immediato: il padre, figura amorevole, capace di mistificare la realtà con la forza della propria fantasia, la madre, vittima di uno stupro incestuoso da parte del proprio genitore, e in balia di fantasmi e folli raptus di violenza, e sei ragazzini, ognuno con la propria peculiarità, le proprie passioni e, soprattutto, il proprio tormento interiore.

Una casa diroccata e risistemata con cura amerovole delinea i confini di un territorio in cui l’amore, la complicità e la delicatezza dovranno fare i conti con tradimenti, rancori, brutali violenze, incesti e omicidi. Questa è la famiglia dei Lazarus, un groviglio di contraddizioni, un campo di battaglia in cui non si fanno prigionieri, il piccolo, tumultuoso Caos generato dal Caos supremo, quello di un Dio cecchino, lontano dalle vicende umane, che spara a casaccio, solo per il divertimento di farlo, ma al contempo artefice di tutte le bellezze del mondo, di quella natura rigogliosa che abbraccia la storia in una stretta che scioglie ogni cosa, lasciando che ogni tragedia evapori nella dimensione onirica del sogno.

E’ l’eterna convivenza fra il bene e il male, una lotta che genera tanta bellezza e tanto dolore: non esiste né il bene assoluto (Trustin) né il male assoluto (Leland), esistono solo gli uomini che contengono entrambi. Da un grande male, quindi, può nascere il bene e viceversa. Non c’è però, nella narrazione della McDaniel alcun intento consolatorio o assolutorio, ma solo una tragica constatazione di ciò che è la vita. Il Caos fa rumore, il Caos genera scontro, il Caos domina incontrastato. E’ questo il motivo per cui la scrittrice americana non si limita a raccontare, ma spinge sull’eccesso, calca la mano sui suoi personaggi e sulle sue storie: la narrazione deve destare dal torpore e deve, soprattutto, far rumore, esattamente come gli spari che riecheggiano nelle notti di Breathed. In questa vita, in cui tutto è precario e caduco, l’unica speranza e barlume di salvezza è rappresentato dall’arte, le cui disparate forme, musica, scrittura, pittura, sono rappresentate dalle pulsioni positive di alcuni personaggi del racconto.

Il Caos Da Cui Veniamo, però, non esaurisce qui il proprio spessore ma è anche un appassionante e appassionato romanzo di formazione, che riesce a toccare e sviscerare, con ardore ed empatia femminista, la condizione della donna di quegli anni (gli stereotipi, le vessazioni, la discriminazione) che, fatte le dovute proporzioni, non si discosta molto da quella odierna.

Un romanzo potente e lirico, una saga familiare che tocca le coscienze con il vivido colore del sangue e la forza evocativa di una storia al limite, che lascia il lettore senza fiato fino all’ultima pagina.


Blackswan, martedì 17/08/2021

lunedì 16 agosto 2021

AYRON JONES - CHILD OF THE STATE (Big Machine/John Varvatos, 2021)

 


Originario di Seattle, trentacinque anni da compiere ad agosto, Ayron Jones è arrivato a pubblicare il suo album d’esordio lasciandosi alle spalle una vita travagliata e una lunga gavetta. Abbandonato dai genitori e quindi adottato, Jones ha iniziato fin da piccolo a interessarsi alla musica, partendo dal gospel e studiando pianoforte, batteria e violino, prima di approdare alla chitarra, strumento che ha segnato la sua carriera. Studio, quindi, ma anche tanti concerti con la sua band, Ayron Jones and the Way, e un paio di dischi a produzione limitata, che sono serviti a rodare stile e ispirazione.

Child Of The State è, quindi, un sorta di debutto nel mondo musicale che conta, il premio per la perseveranza che l’ha portato a raggiungere un traguardo voluto con le unghie e coi denti. Figlio della città che gli ha dato i natali, Jones coagula nella sua musica il meglio del Seattle sound: la sua idea di rock paga debito al grunge, genere che, anche se in modo sfumato, è il sottofondo costante della scaletta, e il suo tocco alla chitarra evoca spesso evoca il fantasma di Jimi Hendrix. L’incontro di queste influenze è rielaborato, però, da un visione personale, in cui confluisce, per stessa ammissione di Jones, l’amore da sempre provato per la musica nera e il blues. Lo stile secco, asciutto, muscolare e il suono potente e graffiante ne fanno un chitarrista anomalo, che viene al sodo e guarda alla sostanza, tenendosi distante da smargiassate o esibizioni di tecnica fine a se stessi.

Child Of The State riassume tutti questi aspetti, evidenziando anche un discreto gusto melodico, con cui Jones alterna poderose sferzate a momenti decisamente più morbidi. La partenza è di quelle che lasciano il segno: il riff di Boys From The Puget Sound avvolge l’ascoltatore in una cupa spirale e lo risucchia in un magma di sportellate elettriche e tamburi battenti, Mercy incalza potente tra invocazioni di misericordia e affermazioni di indipendenza (And When I Die, I’ll Die Free), Take Me Away, il primo singolo tratto dall’album, non fa prigionieri grazie a una linea di basso assassina e a una chitarra, urgente e graffiante, che stringe d’assedio i padiglioni auricolari, Supercharged è una derapata adrenalinica trascinata da un incalzante riff hendrixiano.

Poi, il disco rallenta: Free è melodica e saltellante, più adatta ai passaggi radio che all’headbagging compulsivo e My Love Remains è una virile ballata d’amore, abbastanza prevedibile ma ben confezionata. Il disco si riaccende con Killing Season, ennesimo assalto all’arma bianca dal ringhio grunge, genere, questo, che ritorna anche nella successiva Spinning Circles, che inizia come una ballata avvolta in un voluttuoso arrangiamento d’archi per poi deragliare in un rumoroso ritornello che omaggia chiaramente i Nirvana.

Con Baptized in Muddy Waters Jones omaggia le proprie radici e cita ancora, questa volta i Led Zeppelin di Baby I’m Gonna Leave You, mentre in Hot Friends il chitarrista si diverte nuovamente ad attizzare il fuoco del Seatle Sound.

Chiudono l’hendrixiana Emily e la psichedelica Take Your Time, due brani che sigillano un disco appassionato e sanguigno, un’autentica gemma per tutti coloro che sono alla costante ricerca di novità in ambito rock. Se è vero che Jones non inventa nulla e si limita a mischiare le carte della tradizione più nobile della città di appartenenza, è altrettanto vero che la sua gagliardia e il suo entusiasmo irrorano di fresca linfa le canzoni di Child Of The State, un disco che farete fatica a togliere dal lettore. Da provare.

Voto: 7,5

 


 

 

Blackswan, lunedì 16/08/2021