Originario di Seattle, trentacinque anni da compiere ad agosto, Ayron Jones è arrivato a pubblicare il suo album d’esordio lasciandosi alle spalle una vita travagliata e una lunga gavetta. Abbandonato dai genitori e quindi adottato, Jones ha iniziato fin da piccolo a interessarsi alla musica, partendo dal gospel e studiando pianoforte, batteria e violino, prima di approdare alla chitarra, strumento che ha segnato la sua carriera. Studio, quindi, ma anche tanti concerti con la sua band, Ayron Jones and the Way, e un paio di dischi a produzione limitata, che sono serviti a rodare stile e ispirazione.
Child Of The State è, quindi, un sorta di debutto nel mondo musicale che conta, il premio per la perseveranza che l’ha portato a raggiungere un traguardo voluto con le unghie e coi denti. Figlio della città che gli ha dato i natali, Jones coagula nella sua musica il meglio del Seattle sound: la sua idea di rock paga debito al grunge, genere che, anche se in modo sfumato, è il sottofondo costante della scaletta, e il suo tocco alla chitarra evoca spesso evoca il fantasma di Jimi Hendrix. L’incontro di queste influenze è rielaborato, però, da un visione personale, in cui confluisce, per stessa ammissione di Jones, l’amore da sempre provato per la musica nera e il blues. Lo stile secco, asciutto, muscolare e il suono potente e graffiante ne fanno un chitarrista anomalo, che viene al sodo e guarda alla sostanza, tenendosi distante da smargiassate o esibizioni di tecnica fine a se stessi.
Child Of The State riassume tutti questi aspetti, evidenziando anche un discreto gusto melodico, con cui Jones alterna poderose sferzate a momenti decisamente più morbidi. La partenza è di quelle che lasciano il segno: il riff di Boys From The Puget Sound avvolge l’ascoltatore in una cupa spirale e lo risucchia in un magma di sportellate elettriche e tamburi battenti, Mercy incalza potente tra invocazioni di misericordia e affermazioni di indipendenza (And When I Die, I’ll Die Free), Take Me Away, il primo singolo tratto dall’album, non fa prigionieri grazie a una linea di basso assassina e a una chitarra, urgente e graffiante, che stringe d’assedio i padiglioni auricolari, Supercharged è una derapata adrenalinica trascinata da un incalzante riff hendrixiano.
Poi, il disco rallenta: Free è melodica e saltellante, più adatta ai passaggi radio che all’headbagging compulsivo e My Love Remains è una virile ballata d’amore, abbastanza prevedibile ma ben confezionata. Il disco si riaccende con Killing Season, ennesimo assalto all’arma bianca dal ringhio grunge, genere, questo, che ritorna anche nella successiva Spinning Circles, che inizia come una ballata avvolta in un voluttuoso arrangiamento d’archi per poi deragliare in un rumoroso ritornello che omaggia chiaramente i Nirvana.
Con Baptized in Muddy Waters Jones omaggia le proprie radici e cita ancora, questa volta i Led Zeppelin di Baby I’m Gonna Leave You, mentre in Hot Friends il chitarrista si diverte nuovamente ad attizzare il fuoco del Seatle Sound.
Chiudono l’hendrixiana Emily e la psichedelica Take Your Time, due brani che sigillano un disco appassionato e sanguigno, un’autentica gemma per tutti coloro che sono alla costante ricerca di novità in ambito rock. Se è vero che Jones non inventa nulla e si limita a mischiare le carte della tradizione più nobile della città di appartenenza, è altrettanto vero che la sua gagliardia e il suo entusiasmo irrorano di fresca linfa le canzoni di Child Of The State, un disco che farete fatica a togliere dal lettore. Da provare.
Voto: 7,5
Blackswan, lunedì 16/08/2021
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