C'è stato un tempo, circa una ventina di anni fa, in cui gli Underoath vestivano i panni di pionieri per il loro modo di plasmare le arti oscure del post-hardcore. Hanno lasciato un segno indelebile, c’è poco da fare, grazie a un scintillante connubio tra metalcore e progressive, strattonate di inusitata violenza e il gusto per affascinanti paesaggi sonori dal sapore cinematografico.
L’ultimo album, Erase Me del 2018, aveva segnato un deciso cambiamento di stile, una svolta verso sonorità più orecchiabili ed elettroniche, che aveva fatto storcere il naso ai fan della prima ora, abituati a ben altra aggressività. Un mezzo passo falso, figlio della volontà da parte della band originaria di Tampa (Florida) di tentare di evolversi, di abbracciare un suono più compatibile con il mutare del tempo e dei gusti. Giusto o sbagliato, spetta ai fan deciderlo. Di sicuro gli Underoath, anche con questo Voyeurist, tengono aperto il dibattito, nonostante questo disco sia decisamente più violento e sferzante del suo predecessore.
La scaletta si apre con Damn Excuses, e questo è esattamente il tipo di metalcore crudo ed enigmatico che da sempre rende gli Underoath una band speciale. Un incipit straordinario, il cui groove sfocia poi in Hallelujah, una traccia più melodica e strutturalmente raffinata, in cui le chitarre riverberate creano un’atmosfera carica di pathos.
I'm Pretty Sure I'm Out Of Luck And Have No Friends inizia con il campionamento di una chiamata di emergenza senza risposta che risuona a ripetizione, un’introduzione lunga, suggestiva, dal sapore quasi post rock, il cui ritmo si accende solo nel finale, dando un esempio chiarissimo di quello che può fare la band quando decide di cambiare le regole di un gioco, altrimenti prevedibile. Un brano in netto contrasto con la successiva Cycle, in cui gli Underoath tornano a picchiare con belluina ferocia, senza tuttavia dimenticarsi di innestare in sottofondo un contrappunto melodico, che poco, però, può fare per evitare che i nostri timpani vengano ridotti in poltiglia.
In Thorn, che parte truce, la band svolta velocemente verso la melodia, evocando approcci più morbidi alla Circa Survive, e dimostrando sapienza e sensibilità nel riuscire ad accostare nella stessa scaletta brani più strutturati e digeribili a veri e propri inni metalcore.
(No Oasis) risuona come un momento di stasi contemplativa, inquieta e cupa, in cui la batteria sfarfalla mesta tra tocchi di elettronica e voci sussurrate, Take A Breath resta in equilibrio fra ferocia e melodia, mentre la We're All Gonna Die sprinta rabbiosa, non senza qualche uncinante gancio melodico, fino a scontrarsi con l’elettronica minacciosa di Numb, deriva sonora ultima di una band che, come si diceva, punta costantemente al cambiamento e alla riscrittura delle regole.
L’album si chiude con Pneumonia, un brano contornato dalla notte, sette minuti tra drone e post metal, che difficilmente troverebbe asilo in un disco di metalcore. Una canzone che cresce e si gonfia, febbrile, verso un finale che esplode con la brutalità devastante di una bomba a mano.
Un disco, questo, che gli stessi Underoath hanno definito come il loro album più ambizioso e vario pubblicato fino a oggi. Non possiamo dare loro torto: i meriti artistici sono indubbi, nonostante l’utilizzo dell’elettronica e quei costanti ganci melodici che faranno alzare il sopracciglio a chi ha nel cuore dischi come Define The Great Line (2006). Tuttavia, la strada imboccata, con qualche incertezza, in Erase Me, ritrova in Voyeurist un passo sicuro e spedito, e una rinnovata ispirazione che guarda con decisione al futuro. I tempi cambiano e così anche le band. Facciamocene una ragione.
VOTO: 7
Blackswan, giovedì 17/03/2022
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