martedì 31 ottobre 2023

BLACK STONE CHERRY - SCREAMIN' AT THE SKY (Mascot Records, 2023)

 


Con i Black Stone Cherry ci eravamo lasciati lo scorso anno, quando la band originaria del Kentucky aveva rilasciato Live From The Royal Albert Hall, un clamoroso album dal vivo, figlio del tour in terra d’Albione, per celebrare i vent’anni di carriera. Due decenni in cui il quartetto americano ha mantenuto un’invidiabile coerenza stilistica, forgiando dischi in cui il rombo delle chitarre e l’afrore sudista viene bilanciato alla perfezione da melodie uncinanti e da uno sfizioso appeal radiofonico. Una proposta decisamente mainstream, che da sempre fa storcere il naso ai puristi del rock americano, ma che nella sua schiettezza e semplicità continua a mantenersi su ottimi livelli.

Ottavo album, questo, di una discografia che, nel suo genere, ha tenuto alta, quasi sempre, l‘asticella dell’ispirazione, e che continua ad avere un costante riscontro di vendite, come dimostrato anche dal penultimo lavoro in studio, The Human Condition (2020), che, soprattutto in Inghilterra, dove la band è molto amata, ha scalato le classifiche di genere fino alla prima piazza.

Screamin’ At The Sky non fa che riconfermare il trend positivo di una band che, pur non cambiando una virgola della propria narrazione, continua a colpire nel segno con canzoni tutte di ottima fattura. Insomma, chi ha apprezzato i precedenti dischi dei BSC, finirà per innamorarsi anche di quest’ultima fatica, a cui si può riconoscere, rispetto ai predecessori, una maggiore inclinazione hard rock.

Il disco si apre con la title track e il marchio di fabbrica della band è da subito evidente: il suono è potente e grasso, e il riff spaccaossa è come sempre bilanciato da un ritornello melodico che mitica l’impatto tonitruante. Insomma, nonostante il cambio di line up (il bassista Jon Lawhon ha lasciato la band nel 2021 ed è stato sostituito da Steve Jewell), la band continua a macinare il suo rock ruvido e carnale, che miscela echi grunge, southern e hard, con l’abilità e la consapevolezza di chi il mestiere lo conosce a menadito.

Dopo questa partenza a razzo, il disco prosegue con il singolo "Nervous", un pezzone già pronto per il live set, e con "When The Pain Comes", trainata dall’ennesimo riff scalciante, che si apre poi nel consueto ritornello da mandare a memoria fin dal primo ascolto. Ed è proprio questa la freccia più acuminata dell’arco BSC, quella, cioè, di saper gestire l’impianto melodico con soluzioni mai banali, capaci di rendere appetibili anche brani in cui le chitarre, sempre protagoniste, spingono il piede sull’acceleratore, disperdendo kilowatt di graffiante elettricità.

L’altro elemento caratterizzante Screamin’ At The Sky è, poi, la sua immediatezza e la sua concisione: ogni brano dura circa tre minuti e mezzo e ogni canzone arriva dritta al punto. Una scelta che funziona maledettamente bene, e che dà la sensazione di trovarsi sulla traiettoria di un treno in corsa, che travolge l’ascoltatore con un’efficacia implacabile.

Nessun filler in scaletta, quindi, ma solo highlights, in un susseguirsi di brani potenti e accattivanti: "R.O.A.R. (Raindrops on a Rose)" scorre melodica e acchiappona su uno splendido lavoro di chitarra (fantastico il solo finale!), "Smile, World" picchia durissima su un groove hard funky da paura, "The Mess You Made" mette in luce la sezione ritmica della band, basso e batteria a spingere la forza travolgente dell’ennesimo grande pezzo dall’appeal radiofonico. E il gruppo riesce alla grande anche quando rallenta il passo, come nel mid tempo di "Here’s To The Hopeless", la cui melodia inesorabile si pone come il punto più alto di un disco, nel suo genere, assolutamente centrato.

Non è di certo sbagliato evidenziare che i Black Stone Cherry ruotino la loro proposta attorno a una sola idea, data dal connubio fra pugno e carezza, che è da sempre il segno distintivo della loro musica. Tuttavia, a differenza di band molto meno affidabili, questa caratteristica si rivela azzeccatissima, soprattutto quando la scrittura riesce ad equilibrare con intelligenza il fragore delle chitarre a ritornelli di cristallina bellezza, in un unicum che suona sempre omogeneo e coerente.

I Black Stone Cherry sono un gruppo mainstream, parola che, come si diceva, fa inorridire molti, ma che in questo caso, mai come prima, possiede una valenza assolutamente positiva. Screamin’ At The Sky, in tal senso, è un grande album, probabilmente il migliore della band di tempi di Folklore And Superstition (2008), e sarebbe davvero interessante, se mai tornassero a suonare nel nostro paese (l’ultima volta è stata due anni fa), ascoltare queste nuove canzoni dal vivo, dimensione in cui la band da Chris Robertson ha pochi eguali in termini di potenza ed elettricità.

VOTO: 8

GENERE: Rock, Hard Rock, Southern Rock 




Black Swan, martedì 31/10/2023

lunedì 30 ottobre 2023

RIVAL SONS - LIGHTBRINGER (A Low Country Sound/Atlantic, 2023)

 


Sono passati poco più di quattro mesi dall’uscita del precedente Darkfighter, e il  rilascio di questo nuovo Lightbringer potrebbe far sorgere più di un sospetto, vista la pubblicazione così ravvicinata, che si tratti di mera operazione commerciale, composta dagli scarti delle precedenti sessioni di registrazione. 

Basta, però, un solo fugace ascolto, per rendersi conto che non è così. Anzi, la sensazione è che, a questo nuovo album, che altro non è se non la faccia più luminosa della stessa medaglia, sia stato riservato il materiale migliore scritto negli ultimi anni dalla band capitanata da Jay Buchanan. Se la maggior parte dei gruppi sarebbe felice di produrre un album eccezionale in un anno, i Rival Sons possono vantarsi di averne pubblicati addirittura due.  

Lightbringer, però, pur essendo immerso nel suono più classico degli anni ’70, è l’esatto opposto del suo predecessore, la cui prospettiva più cupa e umbratile viene qui scardinata in favore di un approccio decisamente energico, esplosivo, variegato, a tratti addirittura solare. 

A produrre c’è sempre la manina santa di Dave Cobb, che ormai non sbaglia un colpo nemmeno a farlo apposta, e la band, sempre più consapevole dei propri mezzi, tira fuori l’ennesima prestazione scintillante, contornando di entusiasmo la prova vocale di Buchanan, che si conferma per l’ennesima volta uno dei migliori vocalist in circolazione in ambito rock. Solo sei canzoni, solo trentacinque minuti di musica, ma tutto declinato alla perfezione, grazie a un livello altissimo di songwriting.  

L'album si apre con la lunga Darkfighter che, come direbbero i più giovani, è tanta roba. Una mini suite di nove minuti dall’andamento altalenante, in cui confluiscono, sull’intreccio fra chitarra acustica ed elettrica, profondità blues, impennate rock, sensazioni west coast, psichedelia, echi che rimandano a Jeff Buckley, un tocco evocativo di flamenco, il tutto declinato con un approccio quasi prog. Sugli scudi, la prova maiuscola di Buchanan, per il quale ormai non esistono più aggettivi. Un brano, questo, che da solo giustifica il costo del disco. 

Se non fosse che, poi, anche gli altri pezzi mantengono l’asticella altissima. La successiva Mercy, con quel riff dannatamente fuzzy, riporta agli afrori sudisti di Feral Roots, è pura vertigine di esuberanza e gioia, e qui è Scott Holiday a tenere insieme la struttura del brano, dando a una lectio magistralis su come suonare la chitarra elettrica, senza mai strafare, ma tenendo comunque dritta la barra di un’inesauribile inventiva.  

Redemption rallenta il passo, ma nonostante l’incedere più morbido, l’ispirazione resta altissima, la canzone dà dipendenza, accerchiando il cuore con languide tentazioni malinconiche. Sweet Life mostra nuovamente i muscoli, Michael Miley tira fuori dal cilindro uno straordinario drumming, che è la sostanza e l’ossatura della canzone insieme a un ritornello irresistibile, mentre i sei minuti della successiva Before The Fire possiedono una rotondità melodica da lasciare senza fiato, è un brano solare, è potente, il refrain risucchia, il lavoro alla chitarra di Holiday è come sempre multistrato e la voce di Buchanan induce all’ebbrezza emotiva. 

Chiude il lungo viaggio iniziato quattro mesi Mosaic, una ballata che raggruma, nelle sue atmosfere vagamente indie rock (ma l’impronta settantiana di Rival Sons non viene certo meno), tutto ciò che i due album hanno esplorato: la gioia, la tristezza, l’oscurità, la luce. Il sigillo perfetto per un disco di una bellezza che lascia attoniti, la testimonianza di una band in crescita verticale, che non sbaglia una canzone e che ravviva le fiamme di quel sacro fuoco rock che, troppo spesso, inopinatamente, abbiamo dato per spento.

VOTO: 9

GENERE: Classic Rock 




 Blackswan, lunedì 30/10/2023