Sono passati poco più di quattro mesi dall’uscita del precedente Darkfighter, e il rilascio di questo nuovo Lightbringer potrebbe far sorgere più di un sospetto, vista la pubblicazione così ravvicinata, che si tratti di mera operazione commerciale, composta dagli scarti delle precedenti sessioni di registrazione.
Basta, però, un solo fugace ascolto, per rendersi conto che non è così. Anzi, la sensazione è che, a questo nuovo album, che altro non è se non la faccia più luminosa della stessa medaglia, sia stato riservato il materiale migliore scritto negli ultimi anni dalla band capitanata da Jay Buchanan. Se la maggior parte dei gruppi sarebbe felice di produrre un album eccezionale in un anno, i Rival Sons possono vantarsi di averne pubblicati addirittura due.
Lightbringer, però, pur essendo immerso nel suono più classico degli anni ’70, è l’esatto opposto del suo predecessore, la cui prospettiva più cupa e umbratile viene qui scardinata in favore di un approccio decisamente energico, esplosivo, variegato, a tratti addirittura solare.
A produrre c’è sempre la manina santa di Dave Cobb, che ormai non sbaglia un colpo nemmeno a farlo apposta, e la band, sempre più consapevole dei propri mezzi, tira fuori l’ennesima prestazione scintillante, contornando di entusiasmo la prova vocale di Buchanan, che si conferma per l’ennesima volta uno dei migliori vocalist in circolazione in ambito rock. Solo sei canzoni, solo trentacinque minuti di musica, ma tutto declinato alla perfezione, grazie a un livello altissimo di songwriting.
L'album si apre con la lunga Darkfighter che, come direbbero i più giovani, è tanta roba. Una mini suite di nove minuti dall’andamento altalenante, in cui confluiscono, sull’intreccio fra chitarra acustica ed elettrica, profondità blues, impennate rock, sensazioni west coast, psichedelia, echi che rimandano a Jeff Buckley, un tocco evocativo di flamenco, il tutto declinato con un approccio quasi prog. Sugli scudi, la prova maiuscola di Buchanan, per il quale ormai non esistono più aggettivi. Un brano, questo, che da solo giustifica il costo del disco.
Se non fosse che, poi, anche gli altri pezzi mantengono l’asticella altissima. La successiva Mercy, con quel riff dannatamente fuzzy, riporta agli afrori sudisti di Feral Roots, è pura vertigine di esuberanza e gioia, e qui è Scott Holiday a tenere insieme la struttura del brano, dando a una lectio magistralis su come suonare la chitarra elettrica, senza mai strafare, ma tenendo comunque dritta la barra di un’inesauribile inventiva.
Redemption rallenta il passo, ma nonostante l’incedere più morbido, l’ispirazione resta altissima, la canzone dà dipendenza, accerchiando il cuore con languide tentazioni malinconiche. Sweet Life mostra nuovamente i muscoli, Michael Miley tira fuori dal cilindro uno straordinario drumming, che è la sostanza e l’ossatura della canzone insieme a un ritornello irresistibile, mentre i sei minuti della successiva Before The Fire possiedono una rotondità melodica da lasciare senza fiato, è un brano solare, è potente, il refrain risucchia, il lavoro alla chitarra di Holiday è come sempre multistrato e la voce di Buchanan induce all’ebbrezza emotiva.
Chiude il lungo viaggio iniziato quattro mesi Mosaic, una ballata che raggruma, nelle sue atmosfere vagamente indie rock (ma l’impronta settantiana di Rival Sons non viene certo meno), tutto ciò che i due album hanno esplorato: la gioia, la tristezza, l’oscurità, la luce. Il sigillo perfetto per un disco di una bellezza che lascia attoniti, la testimonianza di una band in crescita verticale, che non sbaglia una canzone e che ravviva le fiamme di quel sacro fuoco rock che, troppo spesso, inopinatamente, abbiamo dato per spento.
VOTO: 9
GENERE: Classic Rock
Blackswan, lunedì 30/10/2023
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