Tim
Smith ha lasciato i Midlake nel 2012, durante le sessioni di
registrazione per il seguito previsto del terzo album della band texana,
The Courage Of Others del 2010. Troppo perfezionista per
vivere i ritmi frenetici della band, affermò. E non gli si può dar
torto, visto che ha impiegato più di dieci anni per riaffacciarsi al
mondo della musica con il progetto Harp, condiviso con la moglie Kathi
Zung, e un disco intitolato Albion, che la dice lunga sulle passioni musicali del songwriter americano.
Ombroso
e quasi sussurrato, l'album di debutto di Harp evoca i campi del Sussex
per riflettere sulla perdita creativa, sulla solitudine e sul fluttuare
agrodolce dei giorni. Ispirati da William Blake, Herstmonceux Castle e
Faith dei Cure, uno dei dischi più desolati e depressi della band
capitanata da Robert Smith, i coniugi creano un paesaggio autunnale con
riverberi che pagano debito agli anni Ottanta, voci spettrali e batteria
tagliente e metallica. Il risultato non è certo un ascolto facile,
perché sembra di fluttuare in un crepuscolo permanente, attraverso il
quale, solo a tratti, passano pallidi raggi di sole.
Si astengano, pertanto, gli allegroni alla ricerca di melodie di facile presa e ritmi serrati. Tuttavia, Albion,
che, come dicevamo, arriva un decennio dopo che Smith lasciò Midlake, è
un disco che, pur con qualche differenza rispetto al passato, si farà
apprezzare da coloro che hanno amato la band folk rock texana, visto che
di quel suono recupera sia la trama principale che alcuni dettagli:
archi sintetizzati e flauti ansimanti, infatti, si nascondono dietro lo
strato nebbioso dell’interplay fra suoni elettrici e chitarra acustica.
La voce triste e ammaliante di Smith, poi, non cerca mai la scena,
incede lentamente, senza sussulti, dando vita a un flusso introspettivo,
forse un po’ monocorde, ma perfettamente al servizio della rarefazione
umbratile delle emozioni.
Gran
parte dell'album si muove a passo d’uomo, lentamente, in un alveo
sognante connotato dai carezzevole pastelli dell’iniziale "The Pleasent
Grey" e dal meditabondo vagabondare del singolo "I Am the Seed", una
sorta di metafora sul perfezionismo frustrato di Smith e sulla caducità
dell’ispirazione, in cui il vocalist canta, mestissimo: "Tutto ora giace incolto, niente dà quello che dava una volta".
In scaletta, dodici canzoni, in cui Smith raggruma tutta la sua
poetica: folk, pop, stasi ipnagogiche ("Chrystals"), melodie fluttuanti
che evocano l'ex casa madre ("Daughters Of Albion"), qualche eco che
ricorda i Cure più ombrosi ("Throne Of Amber"), la foresta, rovine
medievali, un mood autunnale e malinconico, pioggia, nebbia, languori
tristissimi che citano i primi Radiohead ("Shining Spires").
Forse, a conti fatti, ci si poteva aspettare di più dopo una gestazione quasi decennale, ed è altresì inevitabile paragonare Albion
con la precedente carriera di Smith, costellata di autentiche gemme.
Eppure, il disco ha una sua identità, è ricco di suggestioni poetiche e
momenti struggenti, e chi si sente ancora orfano di un capolavoro come The Trials Of Van Occupanther, in questo esordio potrebbe ritrovare quella magia che i Midlake, dopo l’abbandono del leader, hanno in parte dimenticato.
Il
vicequestore Rocco Schiavone è in missione non ufficiale a migliaia di
chilometri dalla sua odiata Aosta, con il vecchio amico Brizio. Vogliono
ritrovare Furio, l’altro compagno di una vita, scomparso tra Buenos
Aires, Messico e Costa Rica. Furio, da parte sua, si è lanciato a rotta
di collo sulle tracce di Sebastiano, il quarto del gruppo, scappato in
Sud America per sfuggire a una colpa tremenda e alla conseguente
punizione. L’antefatto è lontano nel tempo e ha squassato le vite di
tutti loro. E adesso Rocco e Brizio devono impedire «la pazzia» di
Furio, ma vogliono anche capire i perché di Seba, quali sono stati i
motivi profondi di quel tradimento orribile con cui Rocco ha già provato
a fare i conti, in modo da poter dare l’addio come si deve a
un’amicizia vecchia quanto loro.
A pochi mesi di distanza da ELP, Antonio Manzini torna nelle librerie con Riusciranno i nostri eroi a trovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America? che cita, omaggiandolo, il noto, e splendido film di Ettore Scola Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?
Nessuna indagine, questa volta, per l’amato rocco Schiavone, che
accompagnato dal fido amico Brizio, vola in Sud America per fare i conti
con il passato, rintracciare Sebastiano e capire i motivi del
tradimento di costui, Prima, però, bisogna scoprire dov’è finito Furio,
partito anche lui alla volta dell’Argentina con l’intento di vendicarsi
dell’ex amico, per impedirgli di commettere un inutile omicidio.
Pur
lontano dalle consuete dinamiche noir, Riusciranno i Nostri Eroi…è
l’ennesimo capitolo riuscito della saga Rocco Schiavone, un romanzo in
cui l’indagine è sostituita dall’avventura on the road in terre
straniere, in cui il pericolo è sempre dietro l’angolo. Questo romanzo
breve o racconto lungo, che dir si voglia (il libro si legge in un
giorno), dà l’occasione a Manzini per soffermarsi sul rapporto di
amicizia che lega i protagonisti della storia, come sempre narrata con
una prosa semplice, scorrevole, perfettamente bilanciata fra ironia,
nostalgia e un pizzico di mistero.
Senza
anticipare nulla al lettore, nel finale, per certi versi inaspettato,
verranno finalmente al pettine tutti i nodi di una vicenda che è stata a
lungo il fil rouge delle avventure del vicequestore Schiavone, anche
se, è lecito sospettarlo, in futuro potrebbe esserci un “ritorno di
fiamma”. Se Riusciranno i Nostri Eroi…è una lettura indispensabile per
chi è da sempre affezionato al protagonista della saga, il consiglio per
il lettore occasionale è, invece, quello di recuperare e leggere i
precedenti romanzi (il primo è Pista Nera del 2013), perché, per quanto
possa essere piacevole la lettura, iniziare dalla fine avrebbe davvero
poco senso.
Sono passati quattro anni e una pandemia da The Traveler,
l’ultimo album di canzoni originali pubblicato da Kenny Wayne Sheperd.
In questo lasso di tempo, il chitarrista originario della Lousiana ha
pubblicato un bel disco live, Straight To You (2020) e, soprattutto, la completa reinterpretazione di Trouble Is…, un grande classico della sua discografia che nel 2022 compiva la bellezza di venticinque anni.
Oggi, Sheperd torna finalmente con un disco di inediti, intitolato Dirt On My Diamonds Vol.1,
concepito nei leggendari studi Fame di Muscle Shoals, Alabama, e poi
registrato a Los Angeles, con la supervisione di Marshall Altman, in
qualità di co-produttore e co-autore, e con i sodali di sempre: Noha
Hunt alla voce, Kevin McCormick al basso e Chris "Whipper" Layton alla
batteria.
Il
disco non presenta alcuna sorpresa di rilievo e rappresenta alla
perfezione lo stile del grande chitarrista americano, il quale, a
differenza di tanti illustri coetanei (Joe Bonamassa, Eric Gales, Kirk
Fletcher, etc) è probabilmente quello che risulta più accessibile al
grande pubblico, grazie a un’innata capacità di spaziare fra generi
diversi (blues, rock, southern, country, R&B), che maneggia con
padronanza e consapevolezza.
Forte di una band che suona a memoria e dell’interplay vocale, sempre riuscitissimo, fra Sheperd e Hunt, Dirt On My Diamonds
parte alla grande con la title track, apertura potentissima e
cadenzata, resa scintillante da un grasso arrangiamento di fiati e dal
consueto funambolismo del chitarrista, autore di un assolo, come sempre,
pirotecnico.
In
"Sweet & Low" Shepherd azzecca un riff spettacolare (e assai
ruffiano) e lo sottolinea con un inusuale effetto scratch, prima di
pigiare forte sul pedale wah wah per un altro assolo al fulmicotone.
La
ritmata "Best Of Times" è un altro numero di facilissima presa, non
particolarmente incisivo, ma ben strutturato sul contrasto delle voci:
Hunt si occupa delle strofe, Shepherd del ritornello. "You Can't Love
Me" è una canzone leggera, che lambisce il pop, un brano senza grandi
pretese, una sorta di piacevole riempitivo, che si riscatta per l’ottimo
suono e per un solo breve ma efficace.
La
leggerezza di "Man On A Mission" e l’approccio melodico arioso sono
piacevolissimi, mentre "Bad Intentions" vira verso sonorità più ruvide,
quasi hard, con i fiati e le tastiere che stratificano il suono e il bel
giro di basso a dare sostanza. Qui, il lavoro alla sei corde di Sheperd
è di quelli che lasciano il segno.
In
scaletta, compare anche una cover inusuale per gli standard del
chitarrista, e cioè "Saturday Night's Alright For Fighting", il successo
di Elton John tratto dal suo Yellow Brick Road del 1973, che è pure nostalgia classic rock e che restituisce alla perfezione il mood festaiolo dell’originale.
Il
disco, dal breve minutaggio (solo trentasei minuti) si chiude con "Ease
On My Mind", il numero migliore in scaletta, una ballata blues di sette
minuti a lenta combustione, che porta nuvole su un disco altrimenti
solare, e mette in vetrina la maestria di Sheperd alla chitarra.
Dirt On My Diamonds Vol.1
è un disco sostanzialmente riuscito, in cui tutto funziona davvero
bene: band in palla, scrittura, arrangiamenti e produzione. Sheperd
suona come un vero califfo e non c’è una virgola fuori, non c’è spazio
sprecato, non una sbavatura. E questo è forse il limite di un album
godurioso, ma che manca un po’ di anima, di sudore, di sporcizia. Un po’
di ruvidezza in più non avrebbe guastato, così come qualche apertura
melodica (e ruffiana) in meno. D’altra parte, questo è KWS, un musicista
straordinario, che ama flirtare col mainstream, ma che dal vivo,
ascoltate i due live finora pubblicati, riesce a mostrare appieno tutte
le sue indubbie qualità.
Antonia
Scott è speciale. Molto speciale. Non è una poliziotta né una
criminologa. Non ha mai impugnato un'arma né portato un distintivo.
Eppure ha risolto dozzine di casi. Ma è da tempo che non esce dalla sua
soffitta a Lavapiés. Dotata di un'intelligenza straordinaria, è stanca
di vivere: ciò che ha perso contava molto più di ciò che l'aspetta là
fuori. Jon Gutiérrez, quarantatré anni, omosessuale, ispettore di
polizia a Bilbao, è nei guai: su Internet circola un video in cui,
nell'intento di aiutare una giovane prostituta, introduce nell'auto del
suo protettore una dose di eroina sufficiente a mandarlo dritto in
prigione. A farli conoscere è Mentor, la misteriosa figura a capo
dell'unità spagnola di Regina Rossa: un programma segreto volto alla
cattura di criminali di alto profilo in Europa. Così, loro malgrado,
Antonia e Jon si trovano a collaborare a un caso spinoso: il cadavere di
Álvaro Trueba, il figlio della presidentessa della banca più grande
d'Europa, è stato ritrovato in una villa immacolata con un calice pieno
di sangue in mano. La stessa notte, anche Carla Ortiz, figlia di uno dei
più ricchi imprenditori del mondo, è scomparsa. Entrambe le famiglie
hanno ricevuto una telefonata da un uomo che dice di chiamarsi Ezequiel,
ma non vogliono rivelare i dettagli della conversazione avuta con lui:
evidentemente, ci sono dei segreti così grandi da non poter essere
sacrificati nemmeno in nome di un figlio. Chi è Ezequiel? Si tratta di
uno psicopatico o dietro c'è qualcosa di più? Per Antonia e Jon scatta
così una disperata corsa contro il tempo, tra false piste, pestate di
piedi e trappole mortali, attraverso i meandri più oscuri di Madrid.
Primo volume di una trilogia, che è stata un autentico caso editoriale in Spagna, Regina Rossa
ha fatto conoscere ai lettori italiani la figura di Juan Gomez-Jurado,
uno di quegli scrittori che gli appassionati di noir non dovrebbero
lasciarsi sfuggire. Un romanzo, questo, che, infatti, è il classico
libro da cui è pressochè impossibile staccarsi, e che tiene incollati
dalla prima all’ultima pagina, grazie a un grande ritmo, a una tensione
palpabile e a un crescendo cadenzato da un susseguirsi inesausto di
colpi di scena.
Questi, tuttavia, sono solo alcuni degli elementi che rendono la lettura del romanzo estremamente palpitante. Ciò che rende Regina Rossa
una lettura di livello, non è solo la grande abilità dello scrittore
spagnolo di creare un intreccio verosimile e congeniato come una bomba a
orologeria. La differenza la fa, soprattutto, la prosa che, malgrado il
genere non richieda particolari doti narrative, è, invece, decisamente
ispirata, colorita e ricca di sfumature.
Gomez
– Jurado è, infatti, capace di creare pathos e di pompare adrenalina,
ma sa anche rallentare il ritmo per concedersi riflessioni profonde su
temi quali la morte, la vecchiaia, la paura, la caducità della ricchezza
e del potere di fronte all’essenza stessa dell’esistenza, in cui gli
affetti, amore o amicizia che siano, valgono più di qualunque possesso
materiale.
Senza
dimenticarsi una pungente dose di ironia, attraverso la quale lo
scrittore spagnolo alleggerisce il pathos, rendendo meno fosco lo
svolgimento della trama, Gomez – Jurado dà, poi, vita a un pugno di
personaggi vividi, fotografati in modo da coglierne forza e debolezza,
grazie a un approfondimento psicologico che ne mette in luce l’umanità
variopinta e sfaccettata.
Le
quattrocentotrenta pagine circa si sviluppano, a tutti gli effetti,
come una forsennata corsa contro il tempo, dando vita a una battaglia
contro il male e l’inganno, che si concluderà in un cruento redde
rationem nei sotterranei più oscuri e sordidi di Madrid.
Los
Angeles, California. E’ il 2016 e i The Record Company (Alex Stiff,
basso, cori, Chris Vos, chitarra, voce solista, e Marc Cazorla,
batteria), debuttano ottenendo un successo di critica che, forse,
nessuno si sarebbe mai aspettato. Il loro album d’esordio, Give It Back To You (anticipato di poco dall’EP Off the Ground)
scala rapidamente le classifiche di genere americane, e, spinta dai
brani "Off the Ground" (numero uno nella classifica Billboard Adult
Alternative Songs negli Stati Uniti) e "Rita Mae Young" (numero 12 nella
classifica Adult Alternative Songs), la band ottiene una nomination ai
Grammy 2017, per il miglior album blues contemporaneo.
Quel
disco fu scritto, registrato e mixato nel soggiorno di Alex Stiff a Los
Angeles, un approccio casalingo dettato dalla volontà di cogliere
l’essenza della musica, senza filtri, orpelli e artifici in fase di post
produzione. Alla base, l’idea che la musica è una cosa semplice,
immediata, scritta e suonata col cuore, e che la veracità è la strada
più rapida per abbattere ogni barriera fra chi suona e chi ascolta.
Un’idea vincente, dal momento che il successivo All of This Life
(2018), ha incontrato ulteriori riscontri positivi, che hanno portato
il singolo "Life to Fix" a raggiungere la prima piazza nella classifica
delle canzoni alternative per adulti. Dopo la pandemia e il lockdown, i
Record Company hanno, poi, pubblicato il loro terzo album, Play Loud, ottenendo ottimi risultati di vendita, a fronte di un livello di ispirazione non all’altezza dei lavori precedenti.
Eppure,
nonostante tutta questa esposizione mediatica di alto profilo, sembra
ancora che il gruppo losangelino stiano volando sotto i radar che
contano, soprattutto per quanto riguarda il nostro paese, dove la band
si è costruita una nicchia di consensi solida, ma troppo piccola
rispetto agli indubbi meriti. Insomma, a fronte di giudizi unanimi sulla
bravura dei The Record Company, le vendite sono rimaste sotto il target
auspicato dalla Concord, la loro casa discografica, che, a fine 2022,
ha rotto il sodalizio con Chris Vos e soci.
La
band ha firmato, quindi, con la Round Hill Records, ha rispolverato la
vecchia attrezzatura, e ha messo in mano ad Alex Stiff gli oneri e gli
onori della produzione. Si ritorna al passato, dunque, al soggiorno di
casa, con un lavoro crudo e onesto, ben rappresentato dal primo singolo
"Talk To Me", in cui è evidente la genesi jammistica, e, ancora meglio
da "Dance on Mondays", un pezzo rock ad alto numero di ottani, che si
sviluppa su una pulsante linea di basso ed è caratterizzato da un
rimarchevole lavoro alla slide.
C’è
voglia di puro divertimento in "I Found Heaven (In My Darkest Days)",
cinque minuti di rutilante festa, in cui l’armonica di Vos pompa note di
incontenibile euforia, e nel rockabilly di "Roll With It", che insuffla
un’irresistibile voglia di ballare, meglio se dopo aver bevuto un paio
di pinte di quella buona.
Ci
sono anche momenti più contemplativi, come la bella "Highway Lady",
levigata dalla slide di Vos, tagliata in due da un bell’assolo di
chitarra dalle sfumature psichedeliche e scossa da un finale in
crescendo. Il piatto forte del disco, però, restano i brani che fanno
battere i piedi a terra, e che pompano energia senza bisogno di
artifici, spinti solo dal carburante nobile della trance agonistica.
Ecco,
allora, la linea di basso saltellante e il riff croccante di
"Patterns", l’esplicito omaggio al suono Rolling Stones di Bad Light, il
blues caracollante di "Control My Heart Blues" e la travolgente "I’m
Working", i cui avvincenti cambi di ritmo sono frustati dall’armonica
antica di Vos.
Chiude
il disco "You Made a Mistake", ironico sfottò alla Concord che li mollò
lo scorso anno, e che ci riporta nel territorio di Blind Willie
Johnson, attraverso le atmosfere polverose di un blues classicissimo,
costruito attorno a un riff a collo di bottiglia e a una voce tormentata
e acuta.
E’
quasi inevitabile accostare questo quarto album all’esordio della band
che, scrollatasi di dosso ogni velleità mainstream che aleggiava sul
precedente Play Loud, ha ritrovato le proprie radici e un’ispirazione che fa la differenza. Resta da vedere se The 4th Album
riuscirà a eguagliare o superare i riconoscimenti dei lavori
precedenti, anche se, in realtà, poco importa. Questo nuovo disco, che
personalmente considero il migliore dei The Record Company, testimonia
dello straordinario stato di forma di una delle più ispirate band rock
blues oggi in circolazione. Quindi, stappate una bottiglia del vostro
whisky migliore e abbandonatevi a queste dieci sanguigne canzoni. Sarà
una vera goduria.
Are We There Yet?,
nuova fatica di Rick Astley, è, per quanto mi riguarda, la sorpresa
dell'anno. Dimenticato il travolgente, quanto effimero successo di fine
anni Ottanta (chi non ricorda Never Gonna Give You Up), dopo un
periodo di anonimato, il musicista britannico, si sta costruendo una
seconda parte di carriera di livello altissimo. Il suo ritorno è
iniziato con il suo album del 2016, intitolato 50, il cui
inaspettato successo in rete, ha spedito il disco direttamente alla
prima piazza delle classifiche inglesi, vendendo più di centomila copie.
Insomma, Astley si è scrollato di dosso l’etichetta scomoda di
residuato bellico degli anni Ottanta, tornando misteriosamente nel cuore
di tanti appassionati. Questo ritrovato ritorno di popolarità è stata
riaffermato anche al Glastonbury di quest'anno, quando Astley ha fatto
la sua prima apparizione al Pyramid Stage davanti a un pubblico
estasiato, seguito, poi, da una seconda esibizione all'evento, durante
la quale ha cantato cover di Smiths insieme al quintetto indie dei
Blossoms.
Che
Astley sia rinato artisticamente, ne è dimostrazione anche questo nono
album in studio, attraverso il quale il cantante britannico, mai come
prima, ha dato finalmente lustro alle sue capacità compositive e a
quella splendida voce "nera" e potente, a cui gli anni hanno regalato
ulteriore profondità.
Are We There Yet?
è un disco che guarda agli States, che plasma soul, gospel, r&b,
Stax e Motown, attraverso una sensibilità unica, infiocchettata dal quel
luccicante background pop che arriva dritto al bersaglio senza
alchimie, ma con la forza dirompente di melodie avvolgenti, calde,
consapevoli. E così, momenti brillanti e ballabili si alternano a
ballate che accarezzano il cuore di languida nostalgia e dolci
malinconie, con un’efficacia sorprendente.
Astley,
che oggi ha 57 anni, ha iniziato a realizzare il nuovo disco nel suo
studio di casa durante il lockdown, suonando lui stesso la maggior parte
degli strumenti e dando voce a diversi generi musicali, liberandosi
finalmente dagli stereotipi con cui veniva inquadrato da tempo e che lo
tenevano lontano dai radar della critica che conta.
In
scaletta, dodici canzoni eleganti, appassionate, cantate da una voce
che sa come colpire il cuore dell’ascoltatore, e che spaziano attraverso
un sensibilità eterogenea, ben lontana da quella del ragazzo col
ciuffo, che ballava sbarazzino sulle note di una dance pop divertente ma
senza profondità.
Il
disco si apre con "Dippin’ My Feet" un brano country rock che evoca il
suono di Nashville, riletto, però, attraverso uno sguardo vagamente
brit-pop. Anche la successiva "Letting Go" si muove rilassata sul
velluto di trame country, ed è possibile cogliere in sottofondo vaghe
eco di quei lontani anni Ottanta in cui Astley fu protagonista con hit
di straordinario successo. "Golden Hour" è una raffinatissima ballata
gospel, "Waterfall" abbraccia il soul in un brano che evoca Bill
Withers, il northern soul di "Forever And More" spinge con allegria
verso il dancefloor, mentre la conclusiva e meditabonda "Blue Sky" veste
abiti francescani per riflettere sull’immobilità del tempo durante la
pandemia.
Tra
le tante belle canzoni spuntano soprattutto "High Enough", mid tempo
morbido, malinconico, che punta diretta al cuore senza artifici e che
trabocca di appassionato soul, e ovviamente, non poteva mancare il
marchio di fabbrica, quel "never gonna" che tanto lo rese famoso, e che qui viene ribadito "Never Gonna Stop", brano che trova in Al Green il suo nume tutelare.
Are We There Yet?
è, in definitiva, il nuovo elegante capitolo di una seconda giovinezza,
che Astley sta vivendo percorrendo una direzione che porta lontanissimo
dal suo luccicante, quanto effimero passato. Fuori da impellenze
commerciali e forte di anni di anonimato, in cui nessuno si sarebbe mai
aspettato nulla da lui, Astley si è, con molta probabilità, riconnesso
alla sua vera anima musicale, e sta camminando lungo una strada (quella
richiamata dalla copertina del disco) che, senza eccessivi clamori, gli
sta restituendo quella dignità artistica che troppo spesso gli fu
negata. Dategli credito, non ve ne pentirete.
Fin
dall’anno di nascita, il 2012, gli Struts si sono ritagliati una
propria nicchia, alimentata da spettacoli dal vivo incendiari e da una
serie di album acclamati anche dalla critica, che hanno ammiccato ai
giganti del passato, pur mantenendo i piedi ben piantati nel presente,
guadagnandosi così l’etichetta, in realtà un po’ forzata e riduttiva, di
nuovi Queen. Dopo un decennio di attività, la band capitanata da Luke
Spiller ha raggiunto un momento importante della propria carriera,
quello in cui è necessario dare conferme, per dimostrare di meritare
tutte le lodi ottenute finora.
In
tal senso, il loro quarto album, suona decisamente più maturo e
consapevole, più rifinito nei suoni, ma in qualche modo anche più
prevedibile. Una sorta di normalizzazione, che assicurerà loro un
ulteriore spinta verso il successo, ma che, per converso, rende meno
frizzante la proposta. Un male? Non necessariamente. Perché, fatta
questa doverosa premessa, bisogna anche aggiungere che Pretty Vicious è, ad ogni buon conto, un ottimo disco, più telefonato, forse, ma comunque divertente.
Apre
le danze "Too Good at Raising Hell", un brano sfrontato e sensuale, che
dispiega immediatamente l’armamentario glam rock che la band sa
maneggiare con spavalda destrezza. La successiva title track,
tra i brani migliori del lotto, fonde mirabilmente britpop e new wave
(si può percepire un retrogusto Simple Minds), mentre "I Won't Run" e
"Do What You Want" spiegano alla perfezione il motivo per cui la band
trova consensi anche al di là dell’oceano Atlantico: sono due brani
clamorosamente radiofonici, attraversati da un divertissement innodico e
perfetti da ascoltare in macchina, alzando il volume al massimo e
pigiando il piede sull’acceleratore.
Che
la band abbia mandato a memoria la lezione impartita da Rolling Stones,
Slade e, perché no, Ac/Dc, è del tutto evidente in brani come
"Rockstar", le cui atmosfere evocano decisamente la fine degli anni
Settanta, e come la già citata "Do What You Want", un boogie in perfetto
bilico fra graffio e ammiccamento FM. E anche se è del tutto evidente
che ci troviamo di fronte a una delle band più derivative in
circolazione, è però altrettanto vero che gli Struts sanno destreggiarsi
con abilità muovendosi negli ultimi cinquant’anni di storia, rubando il
meglio e proponendolo con intelligente spavalderia.
Non
mancano, poi, in scaletta anche alcune ballate dal retrogusto
malinconico, come "Bad Decisions", forse un po’ troppo prevedibile nello
svolgimento, la più vibrante "Hands On Me", e la splendida, conclusiva
"Somebody Someday", pianoforte e voce, crescendo, suono classicissimo e
un languido tocco nostalgico che lascia un buon sapore in bocca.
Pretty Vicious
è forse meno sorprendente dei precedenti lavori, però testimonia la
volontà della band di crescere ulteriormente, anche cercando di aprirsi
sfacciatamente al mainstream. Se la direzione intrapresa sia quella
giusta, lo sapremo in futuro; quel che è certo è che con questo nuovo
disco gli Struts si confermano una band che sa rivitalizzare suoni
antichi con canzoni in grado di fare da collante intergenerazionale. Pretty Vicious
è, in tal senso, un disco che ammicca agli ascoltatori più nostalgici
ma anche in grado di incuriosire i più giovani amanti del rock. Non è
cosa di poco conto.
Diretto da Jonathan Demme, presentato negli Stati Uniti a fine 1993 e distribuito nel resto del mondo l’anno successivo, Philadelphia
è un film emozionante e struggente, di quelli a cui si pensa e si
ripensa per parecchio tempo ben dopo la visione. Fu anche un successo
clamoroso al botteghino (incassò più di duecento milioni di dollari),
cosa strana per una pellicola non certo leggera e che affrontava un
argomento che, ai tempi, era considerato ancora un tabù.
Merito,
soprattutto, della straordinaria recitazione da parte di Tom Hanks (per
interpretare il ruolo di Andrew Beckett, l’avvocato gay malato di Aids,
perse ben quattordici chili), che vinse l’Oscar come miglior attore
protagonista, e di Streets Of Philadelphia, il brano firmato da Bruce Springsteen che apre il film e che si aggiudicò a sua volta la statuetta come miglior canzone.
Demme
era consapevole della difficoltà di raggiungere il grande pubblico, dal
momento che il film toccava un argomento delicatissimo, e lo faceva,
peraltro, in modo frontale, senza risparmiare nulla allo spettatore. Philadelphia
parla di malattia e di discriminazione, è la tragedia di un uomo
comune, a cui il fato riserva un dolore immenso e un destino senza
scampo. Così, il regista, il cui intento era spingere le persone che non
avevano familiarità con i problemi dell'Aids a vedere il suo film, capì
fin da subito che coinvolgere Bruce Springsteen e Neil Young (la cui Philadelphia
chiude il film) era il modo migliore per attirare alla visione un
pubblico che normalmente non avrebbe mai visto un film su un uomo gay
che muore di Aids.
Così,
contattò prima Young, che aderì immediatamente alla richiesta, e poi
Springsteen, che aveva conosciuto nel 1985, durante le riprese del video
di Sun City, un brano di successo con intenti antirazziali,
interpretato da molte stelle del rock sotto l’egida Artists United
Against Apartheid.
Demme
inviò a Springsteen la sequenza di apertura del film, chiedendo di
comporre un brano che potesse accompagnare le immagini. Springsteen si
mise al lavoro nello studio della sua casa del New Jersey, lo stesso
dove anni prima aveva composto e registrato Nebraska, basandosi
sul alcune liriche che aveva già scritto in precedenza sulla morte
prematura di un suo caro amico. Tuttavia, per quanto ci provasse, non
riusciva a trovare un modo di bilanciare il testo con la musica, e
riteneva che il suo approccio rock non fosse adatto al genere di
pellicola.
Alla
fine, dopo svariati tentativi, mandò a Demme la versione della canzone
che riteneva migliore, avvertendolo, però, che si trattava solo di una
demo incompiuta, che sarebbe stato meglio scartare. Il regista, invece,
appena ascoltò Streets Of Philadelphia se ne innamorò
follemente e decise di inserirla così com’era nella colonna sonora del
film. Ed ebbe ragione: oltre a vincere l’Oscar, il brano di Springsteen,
si aggiudicò il Grammy Award nel 1995, giunse alla nona piazza di
Billboard e fece sfracelli soprattutto in Europa, dove raggiunse la
prima posizione in Italia, Francia e Germania, e la seconda in
Inghilterra, diventando il singolo più venduto del Boss in terra
d’Albione.
Anni
dopo, al Tribeca Film Festival del 2017, Tom Hanks e Bruce Springsteen
salirono sul palco per omaggiare Jonathan Demme, che era deceduto
qualche giorno prima del festival, e per raccontare al pubblico i
momenti cruciali del film e la genesi di Streets Of Philadelphia. Un intervento appassionato, che Tom Hanks concluse fra gli applausi affermando: “Se vuoi avere un grande momento in un film, assicurati che mettano su una canzone di Bruce Springsteen”.
I
Black Pumas arrivano da Austin, Texas, e sono un progetto messo in
piedi dal cantante Eric Burton e da Adrian Quesada (songwriter,
chitarrista e produttore), la cui idea di musica pesca a piene mani dal
r’n’b’ e dal soul, senza disdegnare però qualche incursione rockista e
qualche pennellata dalle sfumature psichedeliche.
Un
breve cappello introduttivo, questo, per indirizzare gli ascoltatori
più distratti, anche se, in realtà, molto probabilmente, non ce ne
sarebbe bisogno, dal momento che l’esordio della band texana, avvenuto
nel 2019 con l’omonimo album, non è di quelli che sono passati
inosservati. E’ vero, sono trascorsi ben quattro anni, funestati da
pandemia e guerre, e, nel mondo della musica, soprattutto, quattro anni
potrebbero anche pesare come decenni, considerando la rapidità con cui
cambia la scena. Tuttavia, è altrettanto vero, che in questo periodo, la
band ha cercato di battere un ferro caldissimo, attraverso remixe,
deluxe edition e, appena è stato possibile, una valanga di concerti.
Attività, queste, che hanno dato ulteriore visibilità a un album che si è
portato a casa un disco d’oro con il singolo "Colors", ha ricevuto
sette nomination ai Grammy Award, tra cui quella per il disco dell'anno,
e ha accumulato oltre 450 milioni di stream.
Il nuovo Chronicles Of A Diamond
segue il percorso tracciato dal suo predecessore e offre ancora una
volta un pugno di canzoni che fonde senza sforzo soul classico e funk
con una sensibilità indie contemporanea. L'album è attraversato da un
lungo groove elegante, che dà vita a un'esperienza di ascolto ricca di
emozione e musicalità, la voce di Burton è un continuo colpo al cuore,
gronda di pura emozione e il suo timbro ricorda molto da vicino quello
di un’icona black come Otis Redding, e la produzione di Quesada è ricca
di arrangiamenti rigogliosi, ritmi serrati e da quell’intelligente senso
per l’equilibrio sonoro che consente a ogni strumento di brillare.
"More
Than A Love Song" è uno dei vertici del disco, apre la scaletta come un
vero e proprio inno alla vita e all’amore, è traboccante di soul e di
allegria, la prova vocale di Burton, ondivaga nella sua espressività,
rende scintillante una canzone già di per sé perfetta, un gioiello di
scrittura e profondità emotiva. "Ice Cream (Pay Phone)" è costruita
sulla contrapposizione fra un riff di chitarra ruvido e il falsetto
divertito di Burton, ha un cuore pop rock che si apre in uno dei
ritornelli più allegri dell’album, mentre "Mrs Postman" è puro soul che
si sviluppa morbido come il velluto su un ripetuto fraseggio pianistico
dal tocco vagamente jazzy.
Il
duo, pur mantenendo un’impronta personale e identitaria nel suono, si
diverte a mischiare le carte, ad aggiungere e togliere strumenti, a
giocare sull’ambivalenza tra classicismo e modernità indie. Ecco, allora
che "Angel" si spoglia di ogni orpello per concedersi nella sua nudità
acustica e appassionata, mentre per converso la splendida "Gemini Sun"
si srotola attraverso un’elettronica minacciosa e incalzante in tonalità
minore, che si scioglie solo di fronte alla solare dolcezza del
ritornello, in un repentino cambio rotta in cui è il timone di Burton a
condurre in porto la nave.
Il
finale di disco mette in mostra tutto il talento della band coi due
migliori brani del lotto: l’avvolgente vapore psichedelico di
"Tomorrow", ballatone soul segnato da un acidissimo solo di chitarra
finale, e l’ipnotico post soul di "Rock And Roll", incalzante manifesto
innodico (“Motivazione, innovazione, ispirazione, tentazione, Rock and Roll, Rock and Roll”)
che nella sua apparente semplicità (ascoltare con attenzione la
stupefacente bellezza dell’arrangiamento) raggiunge la vetta emotiva più
alta del disco.
A Chronicles Of A Diamond
mancano solo l’effetto sorpresa che ci aveva fatto sobbalzare sulla
sedia ascoltando l’esordio, e una super hit come "Colors" (un singolo
come "More Than A Love Song" è altrettanto bello, ma decisamente meno
immediato). Eppure, anche questa nuova prova, forse più elegante e meno
verace, è la conferma di una band capace di creare trame musicali spesso
imprevedibili e sempre intriganti, che garantiscono un'esperienza di
ascolto fluida ed emozionante.
Questo
è un album che trascende i generi e il tempo, che cattura l’essenza del
soul e del funk più classici, infondendola con uno spirito decisamente
contemporaneo e un tocco di eccitante retro psichedelia. Un mix che oggi
suona più strutturato e più consapevole, e che restituisce in
raffinatezza ciò che ha tolto all’urgenza espressiva.
Terza traccia da …Nothing Like The Sun, secondo album solista di Sting pubblicato nel 1987, Englishman in New York
fu scritta dall’ex Police ispirandosi alla vita dello scrittore e
attore gay britannico Quentin Crisp e alle esperienze di emarginazione
dallo stesso vissute in seguito alla sua omosessualità. Crisp si
trasferì da Londra a New York nel 1986, e Sting, che già viveva nella
grande mela, fece visita all’artista qualche tempo dopo. Tra i due si
creò immediatamente feeling, e il cantante restò per tre giorni a casa
di Crisp, ad ascoltare i racconti di costui su cosa significasse per un
omosessuale vivere in una Gran Bretagna omofobica tra gli anni venti e
sessanta. Sting rimase molto colpito dai racconti di Crisp (che compare
anche nella videoclip del brano diretta da David Fincher), e decise così di
dedicargli il pezzo, che conteneva la frase a lui ispirata: “Ci vuole un uomo per subire l'ignoranza e sorridere, sii te stesso a prescindere da ciò che dicono”.
La
canzone fu pubblicata come singolo nel febbraio del 1988, raggiungendo
la posizione numero 51 nel Regno Unito (da noi il brano venne
certificato disco d’oro) e poi, ancora, nel 1990, in versione remix dal
produttore olandese Ben Liebrand, raggiungendo questa volta la
quindicesima piazza.
Englishman In New York
possiede, però, anche altre personalissime implicazioni. Sting, dopo
che si era trasferito a New York, sentiva maledettamente nostalgia di
casa, e per combattere la tristezza, fin da subito, si mise alla ricerca
di pub inglesi, che potessero in qualche modo fargli sentire il calore
della propria cultura e delle proprie tradizioni. In quel periodo,
pertanto, si recava spesso in un pub il sabato mattina per guardare le
partite di calcio in diretta dall'Inghilterra via satellite, bere la
birra inglese, mangiare la classica colazione britannica e incontrare i
propri connazionali. Il brano, quindi, aveva anche lo scopo di esplorare
i languori malinconici di chi vive lontano dalla propria patria, dai
propri affetti, straniero in terra straniera. In tal senso, Sting
sostiene che nella canzone, a un certo punto, sia possibile ascoltare God Save The Queen
suonata in tonalità minore, e ha sempre trovato molto divertente che
nessuno mai abbia colto questa sfumatura. Secondo la logica che anima il
brano è del tutto plausibile che il bassista evocasse casa anche in
questo modo. Non solo.
Sting,
nel concepire la canzone, voleva che la stessa suonasse come un mix
eclettico che trasmettesse tutti i vari suoni che si possono cogliere in
una strada di New York. Fu lo stesso ex Police a raccontarlo nel 1987
alla rivista Musician: “Tutto è iniziato come una sorta di cadenza
reggae, poi ho aggiunto un bridge che sembrava classico, quindi ho messo
i violini e i clavicembali, poi siamo passati a una sezione jazz.
Volevo dare l'impressione di qualcuno che camminava per strada, passando
davanti a diversi eventi musicali.”
Vale
la pena citare due particolari versioni della canzone, il cui
significato calza a pennello per tutti coloro che si sentono stranieri
nella grande mela. Ai Grammy Awards del 2018 Sting si è esibito insieme
al musicista giamaicano Shaggy, con il quale, lo stesso anno, aveva
pubblicato 44/876, un divertito e divertente album reggae a due voci. Nel momento di eseguire Englishman in New York, il ritornello cantato da Shaggy è diventato in “I'm a Jamaican in New York”.
Nel 2020, Shirazee, un musicista africano immigrato a New York, ha inciso la canzone con il titolo di "African In New York",
modificando anche i testi per poter raccontare la sua personale
esperienza nella metropoli statunitense. Sting ha talmente tanto
apprezzato questa versione del suo brano, da invitare Shirazee a unirsi a
lui per un remix di duetti intitolato "Englishman/African In New York", che hanno eseguito nel 2021 nella trasmissione Tiny Desk ospitati da NPR Music.
Vien
da sé, iniziare questa recensione con una figurata chiamata alle armi
che riunisca un popolo di appassionati sotto un’unica egida: amanti del
classic rock di tutto il mondo unitevi! Sono tornati i losangelini Dirty
Honey con un secondo album, Can't Find The Brakes, che non si
limita a replicare la bellezza del loro omonimo esordio di due anni, ma
mette la freccia e va in sorpasso, con un tiro pazzesco che
annichilisce. Il piede pigiato sull’acceleratore delle chitarre, in una
corsa senza freni, come recita il titolo dell’album, alludendo non solo
alla rapida ascesa della band, ma anche alla capacità di plasmare un
suono antico, rendendolo moderno e appetibile anche alle nuove
generazioni.
Senza
uscir di metafora, la band americana di strada ne ha già percorsa
parecchia, se si pensa che nel 2019, praticamente sconosciuti e senza un
contratto discografico, riuscirono a scalare le classifiche Mainstream
Rock di Billborad fino alla prima piazza con il loro singolo When I’m Gone.
Quindi, la seconda posizione raggiunta con l’album d’esordio, un
exploit che ha aperto loro le porte di tanti tour come supporto ad
autentiche icone quali Black Crowes, KISS e Guns N' Roses.
Insomma,
la band, composta da Marc LaBelle (voce), John Notto (chitarra
elettrica, acustica), Justin Smolian (basso, chitarra acustica) e Jaydon
Bean (batteria) incarna l’autentico spirito di un rock 'n' roll crudo e
puro, che inevitabilmente ha finito per allinearla con le grandi
leggende del passato. Basta, infatti, dare un ascolto anche fugace
ascolto di questo nuovo lavoro, per rendersi conto di quanto siano
evidenti i riferimenti con gruppi storici quali Rolling Stones,
Aerosmith, Led Zeppelin e Black Crowes. La voce potente di Marc
LaBelle, poi, ricorda molto da vicino quella di Robert Plant (ascoltate
prima di dire che sto bestemmiando in chiesa), e i grandi riff rock
blues delle chitarre possiedono un background antico, ma sono, tuttavia,
infusi di moderna spavalderia e da un suono che, per quanto derivativo,
mostra il tocco distintivo della band.
Registrato all'inizio di questa primavera in Australia, Can't Find The Brakes
è stato levigato nuovamente dalla mano del produttore Nick DiDia, già
artefice del successo dell’esordio, circostanza, questa, che garantisce
continuità di visione nell’evoluzione del suono. Un suono pazzesco per
un album, dicevamo, vibrante, energico, per lunga parte tiratissimo.
Grandi
canzoni, la prima delle quali, "Don’t Put Out The Fire", sgomma
rapidissima verso l’esatto punto d’impatto fra Rolling Stones e Ac/Dc,
voce graffiante, ritmica quadrata, splendido riff, linea di basso
trascinante e armonie serrate ovunque.
Il
singolo "Won’t Take Me Alive", uscito tempo fa, ha già infuocato le
radio rock americane ed è pronto a liquefare anche le casse del vostro
stereo. L’aggressivo riff di chitarra di Notto porta con sé il dna di
Joe Perry, spinge la strofa verso un ritornello melodico orecchiabile,
ed esplode in un assolo pazzesco, che infiamma ulteriormente una canzone
da pogo sudatissimo. I riff killer continuano senza soluzione di
continuità, come nel groove paludoso di "Dirty Mind", altro brano in
quota Aerosmith, che sfoggia anche una potentissima linea di basso e il
ritornello più acchiappone del lotto, e nella velocità adrenalinica
della title track, che ha la potenza di un treno merci lanciato a tutta forza contro i padiglioni auricolari dell’ascoltatore.
Non
mancano tuttavia anche momenti più raccolti, come l’acustica "Coming
Home", dolcissima e malinconica, o la struggente "You Make It Alright",
ballatona in infusione miele liquerizia dalle fragranze southern alla
Black Crowes, che mette in evidenza l’intenso falsetto di LaBelle e un
tappeto vellutato di hammond, suonato da Ian Peres.
In
scaletta, vale la pena segnalare anche le sciabolate slide di "Ride On",
il mid tempo epico di "Roam", una sorta di "Nothing Else Matters" in cui
LaBelle dimostra l’intera gamma espressiva della sua splendida voce, e
la conclusiva "Rebel Son", il brano strutturalmente più complesso del
disco (e anche il più lungo), la cui ossatura funky coagula in quasi
sette minuti l’ampio spettro filologico della band (Led Zeppelin Black
Crowes e Rolling Stones) spingendo la canzone verso un convulso ed
eccitatissimo finale.
Oggi,
essere giovani e suonare classic rock è quasi un atto rivoluzionario,
una scelta coraggiosa e ostinata, che non guarda le classifiche, non si
piega all’hype e alle mode, che sceglie la nicchia e la qualità invece
di puntare al successo commerciale. I Dirty Honey sono, in tal senso, la
testimonianza che oltre alle truppe indie, trap e hip hop, esiste anche
una gioventù alternativa, che suona, che suda, che restituisce vigore a
un genere troppo stesso dato per autoreferenziale e incapace di
rinnovarsi. Il quartetto losangelino, invece, ha imboccato la strada
giusta, sprinta alla grande e non ha paura di capottarsi. A tutta
velocità, senza usare i freni, succeda quel che succeda. E’ l’autentico
spirito che anima il rock, l’unica musica ancora in grado di fare da
collante fra le generazioni. Un popolo in calo demografico, certo, ma
ancora fiero e combattivo.