Vien da sé, iniziare questa recensione con una figurata chiamata alle armi che riunisca un popolo di appassionati sotto un’unica egida: amanti del classic rock di tutto il mondo unitevi! Sono tornati i losangelini Dirty Honey con un secondo album, Can't Find The Brakes, che non si limita a replicare la bellezza del loro omonimo esordio di due anni, ma mette la freccia e va in sorpasso, con un tiro pazzesco che annichilisce. Il piede pigiato sull’acceleratore delle chitarre, in una corsa senza freni, come recita il titolo dell’album, alludendo non solo alla rapida ascesa della band, ma anche alla capacità di plasmare un suono antico, rendendolo moderno e appetibile anche alle nuove generazioni.
Senza uscir di metafora, la band americana di strada ne ha già percorsa parecchia, se si pensa che nel 2019, praticamente sconosciuti e senza un contratto discografico, riuscirono a scalare le classifiche Mainstream Rock di Billborad fino alla prima piazza con il loro singolo When I’m Gone. Quindi, la seconda posizione raggiunta con l’album d’esordio, un exploit che ha aperto loro le porte di tanti tour come supporto ad autentiche icone quali Black Crowes, KISS e Guns N' Roses.
Insomma,
la band, composta da Marc LaBelle (voce), John Notto (chitarra
elettrica, acustica), Justin Smolian (basso, chitarra acustica) e Jaydon
Bean (batteria) incarna l’autentico spirito di un rock 'n' roll crudo e
puro, che inevitabilmente ha finito per allinearla con le grandi
leggende del passato. Basta, infatti, dare un ascolto anche fugace
ascolto di questo nuovo lavoro, per rendersi conto di quanto siano
evidenti i riferimenti con gruppi storici quali Rolling Stones,
Aerosmith, Led Zeppelin e Black Crowes. La voce potente di Marc
LaBelle, poi, ricorda molto da vicino quella di Robert Plant (ascoltate
prima di dire che sto bestemmiando in chiesa), e i grandi riff rock
blues delle chitarre possiedono un background antico, ma sono, tuttavia,
infusi di moderna spavalderia e da un suono che, per quanto derivativo,
mostra il tocco distintivo della band.
Registrato all'inizio di questa primavera in Australia, Can't Find The Brakes è stato levigato nuovamente dalla mano del produttore Nick DiDia, già artefice del successo dell’esordio, circostanza, questa, che garantisce continuità di visione nell’evoluzione del suono. Un suono pazzesco per un album, dicevamo, vibrante, energico, per lunga parte tiratissimo.
Grandi canzoni, la prima delle quali, "Don’t Put Out The Fire", sgomma rapidissima verso l’esatto punto d’impatto fra Rolling Stones e Ac/Dc, voce graffiante, ritmica quadrata, splendido riff, linea di basso trascinante e armonie serrate ovunque.
Il
singolo "Won’t Take Me Alive", uscito tempo fa, ha già infuocato le
radio rock americane ed è pronto a liquefare anche le casse del vostro
stereo. L’aggressivo riff di chitarra di Notto porta con sé il dna di
Joe Perry, spinge la strofa verso un ritornello melodico orecchiabile,
ed esplode in un assolo pazzesco, che infiamma ulteriormente una canzone
da pogo sudatissimo. I riff killer continuano senza soluzione di
continuità, come nel groove paludoso di "Dirty Mind", altro brano in
quota Aerosmith, che sfoggia anche una potentissima linea di basso e il
ritornello più acchiappone del lotto, e nella velocità adrenalinica
della title track, che ha la potenza di un treno merci lanciato a tutta forza contro i padiglioni auricolari dell’ascoltatore.
Non mancano tuttavia anche momenti più raccolti, come l’acustica "Coming Home", dolcissima e malinconica, o la struggente "You Make It Alright", ballatona in infusione miele liquerizia dalle fragranze southern alla Black Crowes, che mette in evidenza l’intenso falsetto di LaBelle e un tappeto vellutato di hammond, suonato da Ian Peres.
In
scaletta, vale la pena segnalare anche le sciabolate slide di "Ride On",
il mid tempo epico di "Roam", una sorta di "Nothing Else Matters" in cui
LaBelle dimostra l’intera gamma espressiva della sua splendida voce, e
la conclusiva "Rebel Son", il brano strutturalmente più complesso del
disco (e anche il più lungo), la cui ossatura funky coagula in quasi
sette minuti l’ampio spettro filologico della band (Led Zeppelin Black
Crowes e Rolling Stones) spingendo la canzone verso un convulso ed
eccitatissimo finale.
Oggi, essere giovani e suonare classic rock è quasi un atto rivoluzionario, una scelta coraggiosa e ostinata, che non guarda le classifiche, non si piega all’hype e alle mode, che sceglie la nicchia e la qualità invece di puntare al successo commerciale. I Dirty Honey sono, in tal senso, la testimonianza che oltre alle truppe indie, trap e hip hop, esiste anche una gioventù alternativa, che suona, che suda, che restituisce vigore a un genere troppo stesso dato per autoreferenziale e incapace di rinnovarsi. Il quartetto losangelino, invece, ha imboccato la strada giusta, sprinta alla grande e non ha paura di capottarsi. A tutta velocità, senza usare i freni, succeda quel che succeda. E’ l’autentico spirito che anima il rock, l’unica musica ancora in grado di fare da collante fra le generazioni. Un popolo in calo demografico, certo, ma ancora fiero e combattivo.
VOTO: 9
GENERE: Classic Rock
Blackswan, lunedì 04/12/2023
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