giovedì 30 maggio 2024

Daniele Pasquini - Selvaggio Ovest (NN Editore, 2024)

 


 

Alla fine dell’800 l’Italia è da poco un unico stato, ma nelle campagne non è cambiato nulla o quasi: i butteri della Maremma, i mandriani a cavallo, badano come sempre al bestiame e si guardano dai briganti che infestano la zona. Penna, un buttero capace e taciturno, insieme a suo figlio Donato ha appena fatto arrestare Occhionero, uno dei fuorilegge più spietati. Nel frattempo, la giovanissima Gilda, figlia di un carbonaio, medita vendetta contro i complici di Occhionero, colpevoli di averle usato violenza; quando il brigante prepara la fuga dalla caserma, presidiata dal vanesio Orsolini, arriva in Italia il Wild West Show, il grandioso spettacolo di Buffalo Bill, che insieme a pistoleri e capi indiani gira il mondo in cerca di guadagni e di fama. E mentre lo Show si sposta a Firenze, un furto di cavalli intreccia le vite dei protagonisti, innescando la catena di eventi che condurrà fino al drammatico scontro finale. "Selvaggio Ovest" è allo stesso tempo un romanzo d’avventura, un romanzo corale, un arazzo dove le piccole vite spiccano vivide e indimenticabili sul grande intreccio della Storia.

 

Fine ‘800, Maremma. Terra aspra e pericolosa, terra di butteri, carbonai e briganti, di paludi e acquitrini, un luogo antico, dove la malaria miete vittime tanto quanto la povertà, dove le storie si tramandano di padre in figlio davanti al focolare domestico o in fumose osterie, dove la vita è duro lavoro, dall’alba al tramonto, sudore e mani callose, dove il susseguirsi delle stagioni non è solo un mero dato climatico, ma porta con sé presagi di morte.

Daniele Pasquini conduce il lettore in questo territorio selvaggio, ove si intrecciano i destini dei mandriani Penna e del di lui figlio Donato, della piccola Gilda, del feroce bandito Occhionero (che ricorda la figura di Domenico Tiburzi, detto “il domenichino”) e del vanaglorioso carabiniere Orsolini, mentre sullo sfondo si staglia la controversa figura di Buffalo Bill, che ai tempi portò in Italia il suo spettacolo itinerante, chiamato Wild West Show. 

E’ questo il contesto in cui si dipana l’epica del romanzo d’avventura, in cui l’immaginario western e i racconti di frontiera vengono catapultati nello scenario di territori selvaggi e ostili, ancor più dell’evocato far west, in cui la lotta per la sopravvivenza, uomo contro uomo, uomo contro la natura avversa, diviene l’abbrivio per una narrazione potente, cruda e al contempo poetica, in cui violenza e pietas, onore e vergogna, si fondono in una matassa tanto vivida quanto inestricabile. 

Non mancano i colpi di scena, gli inseguimenti e le sparatorie, che fanno di Selvaggio Ovest un romanzo vibrante, che evoca la suggestioni di certi romanzi d’avventura e di formazione letti durante l’adolescenza. Il merito dell’autore toscano, tuttavia, non si limita certo a questo solo aspetto.

E’ soprattutto l’immersione nel contesto storico a carpire l’attenzione del lettore, che si troverà a esplorare un’Italia antica e una cultura agreste di cui forse si conosce ancora troppo poco, e che avrà la possibilità di guardare da vicino il colonnello William F. Cody, figura emblematica di un periodo di storia americana, qui tratteggiato come persona ambigua, ben lontana dagli stereotipi iconografici a cui siamo abituati.

La prosa di Pasquini resta impressa per la sua efficacia e versatilità, cruda e diretta quando la violenza esplode nei suoi esiti esiziale, classicissima, ma mai paludata, nelle splendide descrizioni naturali, lirica nei momenti cruciali, in cui il tormento emerge dallo sguardo di personaggi, raccontati con una profondità psicologica, intensa e sfaccettata. Un romanzo superbo, il cui ampio respiro sovrappone la storia alla Storia, emoziona e incuriosisce, dando lustro alla recente letteratura nostrana, non sempre in grado di raggiungere vette di questo eccelso livello.

 

Blackswan, giovedì 30/05/2024

 

martedì 28 maggio 2024

Nutshell - Alice In Chains (Columbia, 1994)

 

 


Quando nel 2013, la rivista Rolling Stone chiese ai suoi lettori di votare le dieci canzoni più tristi di tutti i tempi, Nutshell degli Alice In Chains si piazzò al nono posto, in una virtuale classifica del dolore, vinta poi da Tears In Heaven di Eric Clapton.

Nutshell (letteralmente: guscio di noce) è Layne Staley, è il suo mondo interiore, il suo spaesamento, la sua sofferenza, quel suo dramma esistenziale, che otto anni dopo lo porterà alla morte.

Dopo aver completato l'album Jar Of Flies, pubblicato il 25 gennaio del 1994 e da molti considerato il capolavoro della band di Seattle, Staley, infatti, entrò in riabilitazione per quella feroce dipendenza da eroina che gli aveva minato il fisico e l’anima. Una dipendenza contro la quale stava combattendo ad armi impari proprio durante la registrazione di Nutshell (seconda traccia dell’EP), le cui liriche, in tal senso, raggrumano una disperazione che lascia senza parole.

 

Inseguiamo bugie stampate male

Affrontiamo il percorso del tempo

Eppure combatto, eppure combatto

Questa battaglia da solo

Nessuno con cui piangere

Nessun posto da chiamare casa

 

Cinque versi che racchiudono ciò che il cuore di Staley provava: dolore, solitudine e, soprattutto, la consapevolezza della sconfitta, nonostante la lotta inane per uscire dal tunnel, per tornare pulito, per riappropriarsi di una vita che lentamente lo stava per abbandonare.

C'è di più nella canzone, però, oltre alla lotta contro l'eroina. In Nutshell, Staley si sofferma anche sulla sua incapacità di vivere e rielaborare il successo, sulle conseguenze di quella fama, tanto inaspettata, che gli impediva di essere veramente sé stesso, che lo esponeva agli altri, lasciandolo nudo e indifeso ("inseguiamo bugie stampate male"). Un male di vivere che gli rendeva ostile il mondo che lo circondava e quella vita moderna che non riusciva proprio a capire e ad accettare.

 

Il mio dono di sé è violentato

La mia privacy è messa al bando

Eppure trovo, eppure trovo

Ripetendo nella mia testa

Se non posso essere me stesso

Mi sentirei meglio morto

 

Una posizione questa non certo sorprendente. Il movimento grunge, infatti, fu in gran parte una reazione agli anni '80, visti come un decennio di conformismo, corporativismo senz'anima e musica stereotipata.  Lo spirito della gioventù degli anni '90 era il rifiuto di sottomettersi alla "macchina", non tanto in senso politico, quanto, semmai, personale e spirituale. Staley lo incarnava perfettamente ("se non posso essere me stesso, mi sentirei meglio morto"), era quello che sentiva, ma, in senso più ampio, il suo rifiuto della società era anche lo zeitgeist del grunge.

Nutshell non è mai stata pubblicata come singolo, ma ha un significato speciale tra i fan e i membri superstiti della band. Il bassista Mike Inez, ad esempio, ha sempre sostenuto che è la canzone che gli fa pensare a Staley più di ogni altra, e ancora oggi quando gli AIC la eseguono dal vivo, viene loro spontaneo dedicarla a Staley e al bassista Mike Starr, anch'egli deceduto a causa della dipendenza dall'eroina (morì l’8 marzo del 2011).

Gli Alice in Chains aprirono il loro spettacolo MTV Unplugged del 10 aprile 1996 proprio con Nutshell, e quella registrazione, confluita su vinile qualche mese dopo, è rimasta nella leggenda. Un live act emozionante, perché era la prima volta che la band suonava insieme da più di due anni a causa della lunga battaglia del cantante contro la dipendenza dall'eroina, e perchè Staley, nonostante le afasie e gli errori, diede vita a una delle performance vocali più strazianti e intense della sua carriera.

 


 

 Blackswan, martedì 28/05/2024

lunedì 27 maggio 2024

Vampire Weekend - Only God Was Above Us (Columbia, 2024)

 


L’omonimo esordio datato 2008 e il successivo Contra (2010) attirarono sui newyorkesi Vampire Weekend un turbinoso polverone mediatico e il plauso di critica e pubblico, che vedevano in quelle, apparentemente innocue canzonette, l’essenza di un suono indie caratterizzato da un surplus di freschezza e da idee melodiche da capogiro.

La band, in seguito, si è mantenuta su livelli ottimi (dischi d’oro, Grammy, posizioni alte in classifica), ma quell’uno due da ko ha creato continue aspettative ed è anche stato il pungolo per uscire dalla fruttuosa comfort zone. Non è quindi un caso che il pop sbarazzino dei primi due album e l’immagine di vivaci universitari laureatisi con una tesi su Graceland di Paul Simon siano ornai quasi un retaggio del passato, un ricordo di una band che si è evoluta e che oggi possiede caratteristiche molto diverse.  

Only God Was Above Us, il loro primo album in quasi cinque anni e il secondo nell'ultimo decennio, vede, infatti, i Vampire Weekend riadattare il proprio pedigree musicale per creare un suono più vario e ancora più eclettico. Un suono che oggi è un'insolita fusione di grandeur barocca, pop zuccherino e una certa urgenza punk, mai esibita in modo diretto, ma fremente semmai sottotraccia.

Ad ascoltare l’iniziale "Ice Cream Piano", cartina di tornasole per quello che seguirà, tutto questo è immediatamente chiaro: un quartetto d'archi suona come contrappunto a una chitarra stridente e comicamente distorta, tra arrangiamenti bizzarri e una melodia cristallina. Una canzone che suona ancora famigliare, e che ci fa capire che questi sono i Vampire Weekend.

Eppure, qualcosa è decisamente cambiato: la band è diventata sempre più la creatura del cantautore-chitarrista Ezra Koenig (soprattutto da quando il cofondatore Rostam Batmanglij se n'è andato nel 2016), e le canzoni sono tutte costruite attorno alle sue melodie appiccicose e di facile presa e alla sua voce ingannevolmente lamentosa. Anche il contesto è cambiato. Laddove il precedente Father of the Bride (2018) si estendeva su 18 brani per circa un'ora di durata, Only God Was Above Us è più breve (solo dieci canzoni) e più serrato.

La collaborazione tra Koenig e il suo coproduttore Ariel Rechtshaid (Haim, Adele, Solange, Madonna, Charli XCX), che si è sviluppata negli ultimi tre album della band, ha prodotto evidenti cambiamenti in termini di complessità espositiva e sofisticatezza, e quel mood sbarazzino degli esordi, che ha fatto un paio di apparizioni in Father of the Bride, qui non si trova da nessuna parte. Inoltre, se le canzoni di quell’album erano in gran parte basate sulla chitarra, sembra che Koenig abbia trascorso gran parte della pandemia ad affinare il suo modo di suonare il pianoforte, strumento che appare predominante in molti brani di questo nuovo lavoro.

Only God Was Above Us è in definitiva un disco dei Vampire Weekend diventati adulti: è divertente, vario, bizzarro, tracima di euforia e idee melodiche di ampio respiro, ma è al contempo più ragionato, più elegante e limato con intelligenza e certosina pazienza. L’ascolto ripetuto fa emergere sempre nuovi particolari goduriosi, ed è come muoversi in un giardino botanico che, a ogni angolo, riserva continue sorprese: colori accessi, forme inaspettate e seducenti profumi (la sezione fiati in "Surfer", i cori inquietanti di "Mary Boone", le orchestrazioni della conclusiva "Hope").

Ciò che, però, soprattutto, conta in questo bellissimo spettacolo sono il raffinato senso della melodia e la voce distintiva e versatile di Koenig, uno che conosce la sua arte e ama il suo mestiere, e sa perfettamente quando lasciare sospesa una linea e quando abbellirla con un'armonia o un controcanto giocoso. E se a volte tutto sembra un po’ troppo intelligente e sofisticato, poco importa: basta lasciarsi andare all’ascolto usando il cuore e non la testa. Vi divertirete.

Voto: 7,5

Genere: Indie Pop, Indie Rock 




Blackswan, lunedì 27/05/2024

giovedì 23 maggio 2024

Joel Dicker - Un Animale Selvaggio (La Nave Di Teseo, 2024)

 


2 luglio 2022, due ladri rapinano una importante gioielleria di Ginevra. Ma questo non sarà un colpo come tutti gli altri. Venti giorni prima, in un elegante sobborgo sulle rive del lago, Sophie Braun sta per festeggiare il suo quarantesimo compleanno. La vita le sorride, abita con il marito Arpad e i due figli in una magnifica villa al limitare del bosco. Sono entrambi ricchi, belli, felici. Ma il loro mondo idilliaco all’improvviso s’incrina. I segreti che custodiscono cominciano a essere troppi perché possano restare nascosti per sempre. Il loro vicino, un poliziotto sposato dalla reputazione impeccabile, è ossessionato da quella coppia perfetta e da quella donna conturbante. La osserva, la ammira, la spia in ogni momento dell’intimità. Nel giorno del compleanno di Sophie, un uomo misterioso si presenta con un regalo che sconvolgerà la sua vita dorata. I fili che intrappolano queste vite portano lontano nel tempo, lontano da Ginevra e dalla villa elegante dei Braun, in un passato che insegue il presente e che Sophie e Arpad dovranno affrontare per risolvere un intrigo diabolico, dal quale nessuno uscirà indenne. Nemmeno il lettore.

Ormai, parlare di caso editoriale a ogni uscita di un romanzo di Joel Dicker, è quanto mai riduttivo. Nonostante il nuovo corso, inaugurato con Il Caso Alaska Sanders, romanzo a partire dal quale lo scrittore svizzero è diventato editore di sé stesso, Dicker è una vera e proprio macchina da guerra, vende milioni di copie in tutto il mondo e i suoi lavori sono attesi con trepidazione da schiere di fan adoranti.

Per un semplice, quanto evidente motivo: è dannatamente mainstream. La sua prosa è accessibile a tutti, non si perde in descrizioni paesaggistiche e non indugia mai nella descrizione psicologica dei personaggi, che si perdono nell’oblio appena chiusa l’ultima pagina di un suo romanzo. Una scrittura che procede sempre in orizzontale, nella quale non c’è spazio per il ragionamento e la riflessione, e tutto è diretto, immediato, immediatamente assimilabile. In Dicker, ciò che conta davvero, è l’azione, l’hic et nunc del colpo di scena, l’intreccio narrativo a incastro, questo sì, complesso, almeno fino a quando tutti i nodi vengono al pettine.

Un Animale Selvaggio ne è l’ennesima conferma: i fatti si affastellano uno sull’altro, in un continuo alternarsi tra presente e passato, per produrre un accumulo di tensione e insufflare adrenalina nel lettore fino alle ultime pagine, in cui, altro merito dello scrittore, nulla è come si poteva prevedere nel corso della lettura.

Anche se vette come La Verità Sul Caso Harry Quebert non sono mai più state raggiunte (per quanto Alaska Sanders ci fosse andato molto vicino), Dicker continua ad affascinare i propri lettori con uno stile, piaccia o meno, ben definito e immediatamente riconoscibile, e con quell’innato talento che gli permette di costruire thriller palpitanti, che hanno l’indubbio merito di divertire con leggerezza e, nello specifico, anche un filo di prurigine.

Se cercate in un romanzo qualcosa di più di questo, è meglio passare oltre, perché qui non troverete nulla che si avvicini a quella che siamo soliti definire “alta” letteratura. Se, invece, il vostro obbiettivo è quello di passare qualche ora di piacevole svago, muovendovi tra la Costa Azzurra e Ginevra, Un Animale Selvaggio non vi deluderà. Perché Dicker, pur con tutti i suoi limiti, sa tenere in pugno il lettore con facilità disarmante. In questo, vi assicuro, è un vero maestro.

 

Blackswan, giovedì 23/05/2024

martedì 21 maggio 2024

Linger - The Cranberries (Island, 1993)

 


Settima traccia dall’album di debutto Everybody Else Is Doing It, So Why Can't We?, e secondo singolo pubblicato, Linger è una delle canzoni più famose del repertorio dei Cranberries e anche una delle più amate dai fan.

Il brano fu composto dal chitarrista Noel Hogan, prima che Dolores O'Riordan si unisse alla band. In origine, le liriche della canzone furono scritte dal primo cantante del gruppo, un ragazzo di nome Niall Quinn. Quando, dopo l’uscita dalla line up di quest’ultimo, la O'Riordan fece il provino per la band, e quindi venne assunta, trasformò Linger in una struggente canzone d’amore, traboccante di rimpianto.

Il testo, infatti, si ispira al primo amore della cantante, un giovane soldato che la maltrattava e la tradiva, ma dal quale non riusciva a separarsi. In tal senso, i primi versi della canzone sono espliciti e non ammettono fraintendimenti: “…Ma è soltanto il tuo comportamento, Mi lacera a pezzi, Sta rovinando ogni giorno. E giurai, giurai che sarei stata fedele…Allora perchè stavi tenendo la sua mano? É questo il modo in cui stiamo? Stavi mentendo per tutto il tempo? Era soltanto un gioco per te?”. Ciò su cui la O’Riordan voleva focalizzarsi era il tempo dell’innocenza, delle prime tragedie amorose, di quelle infatuazioni che prendono le sembianze di amori eterni e, invece, sono effimere e finiscono per sciogliersi come neve al sole, lasciando nel cuore un vuoto che sembra non possa mai essere riempito.

I Cranberries registrarono la prima versione di questa canzone nel 1990, nello studio del loro manager a Limerick, in Irlanda. Era una delle tre canzoni incluse in una demo distribuita ai negozi di dischi locali, che arrivò poi a varie case discografiche, tra cui la Island Records, che mise sotto contratto la band, pubblicando, l’anno successivo un EP dal titolo Uncertain.

Linger non venne però inserita nella scaletta dell'EP, in quanto la band, di concerto con l’etichetta, era convinta dell’alto potenziale del brano e lo voleva “spendere” solo quando avessero costruito una base di fan più ampia. La strategia funzionò: la canzone venne inclusa nel loro album d’esordio, il citato Everybody Else Is Doing It, So Why Can't We?, e pubblicata come secondo singolo nel Regno Unito (dopo Dreams), scalando le classifiche fino alla posizione 74, raggiunta nel febbraio 1993. Quando la band, l’estate di quello stesso anno, andò in tourneè negli Stati Uniti come spalla ai The The, Linger cominciò a prendere piede nelle stazioni radio americane, il video passò su MTV, e il brano, pubblicato come singolo, il 12 febbraio del 1994, raggiunse la piazza numero 8 delle chart statunitensi, e di seguito, fu ristampato anche nel Regno Unito, dove balzò al quattordicesimo posto.

Anni dopo, nel 2006, Dolores O'Riordan cantò questa canzone nel film Cambia La Tua Vita Con Un Click, una commediola romantica diretta da Frank Coraci e interpretata e prodotta da Adam Sandler. Nel film, il personaggio di Sandler possiede un telecomando che può riportarlo indietro nel tempo. Quando sua moglie ricorda il loro primo bacio, gli chiede se ricorda anche la canzone che stava suonando in quel preciso momento. Sandler usa il telecomando, torna indietro nel tempo, e scopre che la canzone era Linger. L'apparizione nel film non fu facile da affrontare per la O'Riordan, che, alla fine degli anni ’90, ebbe un esiziale crollo nervoso, che la allontanò dalle scene per un lungo periodo, in cui si dedicò a crescere i suoi tre figli e a riprendersi emotivamente dai travagli dovuti alla celebrità. Tuttavia, fu anche l’abbrivio per la sua seconda parte di carriera, visto che dopo essere comparsa nella pellicola, decise di completare alcune canzoni che aveva composto, e che confluirono nel suo primo album da solista, Are You Listening?, pubblicato il 4 maggio del 2007. 




Blackswan, martedì 21/05/2024

lunedì 20 maggio 2024

Dool - The Shape Of Fluidity (Prophecy, 2024)

 


Panta rei, sosteneva Eraclito, cioè, tutto scorre. Tutto cambia, costantemente, e l’universo è solo un alternarsi di opposti, di caldo e di freddo, di giorno e di notte, di vita e di morte. Una realtà inoppugnabile, che oggi sembra ancora più vera, se si considera la rapida evoluzione della tecnologia, l’impalpabile consistenza del virtuale, la velocità con cui mutano le opinioni, le mode, i giudizi della società.

Al loro terzo album, dal titolo emblematico (The Shape Of Fluidity, “la forma della fluidità”) gli olandesi Dool (nome che in lingua madre significa “vagare”) affrontano i temi del cambiamento personale, fisico e psicologico, di fronte a questo mondo in continua evoluzione. Un tema caro, in particolare, alla cantante e chitarrista Raven van Dorst, che dopo essere nata ermafrodita, fu sottoposta alla rimozione degli organi genitali maschili da parte di un medico che, con l’assenso dei genitori, presumeva di poter determinare chirurgicamente quale tipo di vita il bambino avrebbe dovuto condurre, decidendo che sarebbe stata una femmina. Quando, divenuta adulta, Raven ha scoperto l’inganno, è caduta in un lungo periodo di prostrazione, caratterizzato dalla ricerca dell’io interiore, dalla lotta contro i tabù e l’ipocrisia della società, fino a decidere recentemente di rivendicare ciò che gli altri hanno cercato così insensatamente di portarle via, abbracciando infine la sua vera natura ermafrodita.

Ecco allora il senso di un disco che, liricamente, si pone mille domande: in che modo il cambiamento ci influenza? Come continuare a essere noi stessi in un mondo così incredibilmente esigente e aggressivo nei confronti dell'individuo (e del diverso)? La risposta risiede nella necessità di essere fluidi, liquidi come l’acqua, per navigare attraverso questo oceano di incertezze e brutalità, per dominare il caos, per far fronte alla nostra impermanenza e alla nostra caducità.

Musicalmente, l’album riflette i concetti appena espressi, le canzoni mostrano un’anima eclettica ma senza soluzione di continuità, i generi si susseguono, anche nello stesso brano, in un connubio suggestivo in cui convivono gothic rock, post punk, post rock, progressive, metal e scorie doom.

The Shape Of Fluidity è un disco con le chitarre, che, talvolta, ergono autentici muri ad alto voltaggio, in altri casi, spingono rapidi attraverso riff muscolari, più spesso, giocano su intrecci e stratificazioni, dando vita a uno sfondo tanto complesso quanto dinamico. Non solo: questo è un disco dalla grande orecchiabilità, il cui impianto melodico, sempre presente, evita però soluzioni ruffiane e banali, preferendo restare immerso nella luce fioca, ma suggestiva, del crepuscolo, o nelle più cupe trame della notte.

Apre la scaletta "Venus In Flames" e sembra di ascoltare i Placebo con l’armatura, complice anche il timbro di Raven: un brano dallo sviluppo complesso, un’entusiasmante collisione tra una cavalcata epica, feroce, quasi brutale, e momenti più rallentati in cui prevale una visione di oscura malinconia, tra richiami post punk e post rock. Anche la successiva "Self Dissect" evoca la band di Brian Molko, come fosse una "Pure Morning" forgiata nello viluppo incandescente della fiamma, così come la conclusiva "The Hand Of Creation", la cui ritmica marziale, l’incedere tenebroso e gli accordi in minore del ritornello ne fanno il brano più post punk del lotto.

La title track rappresenta al meglio la fluidità della proposta dei Dool: parte morbida e trasognata, prima che il brano si apra a uno sconquasso djent, per svelare poi la sua autentica natura di ballata dalla scintillante melodia gravida di pathos e di umori malinconici.

Pur in un contesto di straordinaria omogeneità di suoni, il disco svela anime diverse, attraverso la breve, cupa e strumentale "Currents", nelle accelerazioni vertiginose di "Evil In You", negli effluvi settantiani in odore di occult rock della nostalgica "House Of Thousand Dreams", nelle scorie doom che sporcano la tensione melodica di "Hymn For A Memory Lost".

I Dool continuano il percorso tracciato nelle loro due precedenti registrazioni in studio, pur mostrando una maturità e una concentrazione nella scrittura di canzoni che sono cresciute grazie al fieno dell’esperienza messo in cascina. C’è un maggior sforzo collettivo che unisce il songwriting del trio composto dalla van Dorst e dei chitarristi Nick Polak e Omar Iskandr, ma anche un approccio testuale molto più personale, e capace comunque di rendersi universale.

I testi di The Shape Of Fluidity , infatti, possono essere facilmente letti come storie comuni sulla ricerca di se stessi, sul nuotare contro corrente e sull’affrontare il mondo a testa alta, argomenti, questi, che riguardano tutti, anche chi, a differenza di Raven, è certo del genere a cui appartiene. Il risultato è un disco vario e fascinoso, un sali scendi emotivo che, prima, spiazza e, poi, conquista l’ascoltatore, grazie a nove canzoni che lasceranno il segno.

Voto: 8,5

Genere: Metal, Post Punk, Progressive

 


 


Blackswan, lunedì 20/05/2024

giovedì 16 maggio 2024

I'Ve Seen All Good People - Yes (Atlantic, 1971)

 


 

Una canzone splendida, una delle più belle mai scritte dagli Yes e fiore all’occhiello del loro terzo disco, The Yes Album, pubblicato nel febbraio del 1971. Non è, però, solo l’avvincente melodia a renderla una canzone speciale, quanto, semmai, il contenuto lirico, denso di riflessioni e di interessanti rimandi.

I’ve Seen All Good People è, in primo luogo, una canzone contro la guerra, e il titolo si riferisce a tutti gli esseri umani, compresi quelli che vengono ritenuti nemici. La canzone usa la metafora degli scacchi per riflettere sui comportamenti umani, quelli che portano ai conflitti e all’odio. Ecco, allora, che leggendo il testo si può considerare la frase "Non circondarti di te stesso", come un riferimento all’alterigia e all’ipocrisia umana, mentre "Muoviti indietro di due caselle" è un termine degli scacchi che significa ritirarsi e riconsiderare la propria posizione. Il testo, inoltre, fa anche riferimento alla regina, che è il pezzo degli scacchi più versatile e potente, e suggerisce di come le notizie vengano utilizzate dalla sovrana per prendere il controllo e manipolare le sue truppe, istillando odio nei confronti del nemico di turno. La guerra, insomma, è come una partita a scacchi.

La canzone, in tal senso, vuole suggerire agli esseri umani che c'è di più nella vita oltre alla guerra e all’odio religioso e razziale. Riflettete, perché siete tutte delle brave persone, che possono vivere in pace e essere sereni grazie al potere della musica, che vi rende felici e illumina la vostra strada verso il bene. La musica è il fulcro di tutto, la musica che unisce le persone, avvicinandole con un’invincibile energia magnetica.

Non solo. Per Anderson, autore della prima parte del brano, il gioco degli scacchi rappresenta una metafora delle sfide spirituali dell’esistenza. La vita, in definitiva, è un gioco di situazioni strategicamente posizionate che ti vengono presentate, e devi imparare a convivere con loro, perché ciò che conta davvero è l'idea che siamo circondati da uno spirito o da un dio o da un’energia soprannaturale, con cui dobbiamo entrare in sintonia per poter comprendere chi siamo veramente.

Ma c’è di più. La frase "Inviami un karma immediato, inizializzalo con amorevole cura” fa riferimento a Instant Karma, una canzone registrata da John Lennon un anno prima. Lennon ha avuto una grande influenza sugli Yes, che hanno interpretato la canzone dei Beatles "Every Little Thing" nel loro primo album. Inoltre, il verso "Ricorda solo che l'oro serve a noi per catturare tutto ciò che vogliamo” contiene un esplicita posizione politica, perché si riferisce ai ricchi e potenti che vittimizzano i deboli e i poveri, privandoli della speranza.

La canzone, come detto poc’anzi, è divisa in due sezioni, e cioè Your Move e All Good People, che hanno complessivamente una durata di sei minuti e cinquantacinque minuti. Negli Stati Uniti, però, il brano venne pubblicato in una versione ridotta, che comprendeva sola la prima parte e che venne data alle stampe con il titolo Your Move (I've Seen All Good People). Questa versione rimaneggiata fece storcere il naso, e non poco, al cantate Jon Anderson, che la trovava completamente sconnessa dalla versione originale, anche se poi il brano, in questa nuova veste, raggiunse la posizione numero 40 delle chart statunitensi, trasformandosi nel primo successo oltre oceano degli Yes.

 


 

Blackswan, giovedì 16/05/2024

martedì 14 maggio 2024

Pet Shop Boys - Nonetheless (Parlophone, 2024)

 


Classici, classicissimi, immarcescibili come tutte le cose buone che resistono alle angherie del tempo, all’effimera vacuità delle mode, alle rivoluzioni della società. E ci fanno stare bene, benissimo, toccando le corde della nostalgia e accarezzando le nostre orecchie stanche, bisognose di musica di qualità. I Pet Shop Boys mettono in moto la loro ancora scintillante macchina del tempo, e arrivano fino a noi, per insegnare ai comuni mortali come si scrive la perfetta canzone synth pop.

Un suono famigliare, immediatamente riconoscibile, sciccosamente vintage, eppure così incredibilmente moderno. Sarà la scarsa obiettività del fan, o il desiderio, impossibile da sopprimere, di vedere l’effetto che fa tornare ragazzini, quando ormai ci si è inoltrati nell’autunno della vita. E provare le stesse emozioni di quando mettevamo sul piatto dischi epocali come Actually o Introspective.

A prescindere, tuttavia, dalle inevitabili pulsioni passatiste, e rivestendo gli abiti dell’obiettività, queste dieci canzoni, che prendono alternativamente le sembianze di inni dance e ballate romantiche, sono di qualità eccelsa, tanto da sorpassare per ispirazione quelle contenute nel precedente e ottimo Hotspot (2020).

Un disco, Nonetheless, che prende anche posizioni su temi sociali e politici, e che celebra quelle emozioni, uniche e diverse, che rendono gli esseri umani un sistema complesso, affascinante e ricco di sfumature.

Che i due “ragazzi” londinesi siano in forma smagliante lo si capisce subito dall’iniziale "Loneliness", in cui Tennant invita esplicitamente a rompere tutte le catene autoimposte dalla solitudine (e dalla diversità) per svelarsi, uscire alla luce e vivere la propria esistenza con pienezza. Siamo di fronte a una canzone che si posiziona tra i grandi classici della band, un sublime connubio in cui convivono ritmica house, struggente malinconia e un ritornello che spappola il cuore. La mano calibratissima di James Ford (Depeche Mode, Blur, etc) veste la canzone (e l’intero disco) di arrangiamenti scintillanti, asciugando certi eccessi barocchi e plasmando l’elettronica con elementi classici (archi, ottoni), per mettere in risalto l’aspetto più squisitamente romantico e malinconico della scrittura.

La successiva "Feel" mantiene altissima l’asticella dell’ispirazione grazie a una melodia leggera, a tratti incorporea, e a un riuscitissimo gioco di sovrapposizioni vocali. Dopo un inizio così emozionante è evidente il motivo per cui Tennant e Lowe siano ancora sulla cresta dell’onda dopo quasi quarant’anni di attività; e anche quando il duo si abbandona a qualche deriva “tamarra”, come nell’europop di "Why Am I Dancing?", lo fa con una classe e un eleganza uniche, che rende l’eccesso un riuscito esercizio di stile.

Consapevoli dell’ormai acquisito status di leggende pop, eppure sempre lontani dalle pose dello star system, Tennant e Lowe apparecchiano un disco con il loro consueto stile, alternando, come dicevamo, brani dance a ballate umorali e radiofoniche, tenendo i piedi ben piantati negli anni ’80 e gettando talvolta lo sguardo a dare un’occhiata nel decennio successivo. Ma non c’è un filo di ruggine, né cali di tensione, nè usura: tutto suona fresco e immediato, e stupisce trovarsi di fronte a un filotto di canzoni, più o meno tutte, dello stesso livello. Niente che sia nuovo e che non sia già stato ascoltato, ovviamente, e né si registrano tentativi di modernizzare l’approccio, cosa che, crediamo, finirebbe per togliere spontaneità a un suono che è ormai un marchio di fabbrica.

E allora, abbandoniamoci alla nostalgia carezzevole di "New London Boy", il cui rap richiama alla memoria addirittura "West End Girls", o alla ritmica pulsante di "Dancing Star", ispirata alla vita del ballerino Rudolf Nureyev, che scappò dall'Unione Sovietica e divenne una star mondiale, un brano che invita al dancefloor con una melodia che se ti acchiappa non ti lascia più andare.

C’è anche tempo per commuoversi, e quando parte "A New Bohemia", è quasi inevitabile, una lacrima scende a rigare dolcemente le guance. Una canzone immensa, così sfacciatamente smaccata nei suoi intenti romantici da lasciare senza fiato: melodia angelica e arrangiamento d’archi vellutato, che sfocia in un finale i cui languori orchestrali evocano il grande Burt Bacharach. Un brano che è sostanza, ma anche estetica, e che veste quella malinconia dandy che da anni è il fiore all’occhiello dei Pet Shop Boys: il tempo della notte si è consumato, l’ultima sigaretta lascia che un filo di fumo lambisca gli occhi arrossati, mente lo sguardo si spinge là in fondo, dove un timido albeggiare delinea i contorni dell’orizzonte.

Tuttavia, il fil rouge che lega insieme il disco è, a ben vedere, un incrollabile senso di ottimismo per un futuro migliore, come catturato nel pop in purezza di "The Schlager Hit Parade", o nel commovente finale di "Love Is The Law", una ballata stellare che chiude il disco, con eleganza e tensione, un omaggio al “carpe diem”, che veicola intense suggestioni edoniste: “Giorni così felici trascorsi nell'ozio, Adesso il mare è caldo e il vino è giovane, La sera porta l'azione e l'attrazione principale. L'amore è uno stato d'animo E un lapsus… L’amore è la legge a cui bisogna obbedire”.

Nonetheless non suggella solo il ritorno sulle scene di due inossidabili demiurghi del pop, ma in un’ipotetica classifica dei dischi migliori dei Pet Shop Boys, si attesta fra le primissime posizioni. Non lasciatevelo sfuggire. 

Voto: 8,5

Genere: pop




Blackswan, martedì 14/05/2024

lunedì 13 maggio 2024

The Black Keys - Ohio Players (Nonesuch Records, 2024)

 


Dopo un decennio di carriera in cui i Black Keys hanno vestito i panni un po’ stretti di band di culto, il loro sesto album, Brothers del 2010, e il successivo El Camino (2011), hanno spinto il duo composto da Dan Auerbach e Patrick Carney in un'altra dimensione (grazie anche alla super hit Lonely Boy). Non un successo tale da elevarli a fenomeno di prima grandezza, ma sicuramente un’esposizione mediatica che ha alzato notevolmente l’asticella delle aspettative verso la band originaria dell’Ohio. Tanto che, i numerosi elogi ricevuti sembravano quasi aver colto di sorpresa i Black Keys, che, da quel momento, hanno cercato di espandere la loro tavolozza musicale, senza, tuttavia, allontanarsi troppo dal rock blues sanguigno degli esordi.

Se i lavori successivi mostravano anche inclinazioni diverse (con frequenti aperture verso il southern soul), senza tuttavia mai stupire veramente, Delta Kream (2021) ha portato freschezza nella loro produzione, come talvolta riescono a fare i dischi di cover. Venuta meno la pressione derivante da scrivere canzoni originali, la coppia sembrava riscoprire la gioia di suonare, sic et simpliciter.

Il successivo Dropout Boogie (2022), che ha ricevuto due nomination ai Grammy, ha visto la band apliare il raggio d’azione grazie al contributo di alcuni ospiti, cosa avvenuta anche in questo Ohio Players, in cui, forse, per la prima volta, lo spettro espressivo della band si fa decisamente più ampio all’interno anche della stessa scaletta.

Ad affiancare il duo, questa volta, ci sono Noel Gallagher e Beck, due pezzi da novanta, che hanno inciso in modo evidente nella scrittura dei brani. Noel Gallagher, un musicista che non è certo noto per il suo spirito collaborativo, ha co-scritto tre canzoni (registrate in altrettanti giorni ai Toe Rag Studios di Londra): la scattante "You'll Pay", groove r’n’b e deliziose chitarre surf-rock, la martellante "Only Love Matters" e la ballata in mid tempo "On The Game", forse la più distintiva del songwriting dell’ex Oasis, con quello spiccato retrogusto lennoniano che attraversa i quattro minuti del brano.

E’ soprattutto Beck Hansen, però, ad avere un posto di rilievo in tutto l’album, con le sue impronte digitali che lasciano tracce su ben sette canzoni. Lo troviamo a cantare spavaldo su "Paper Crown", un trascinante ibrido funky rap, e a metter mano, ad esempio, nell’eccellente "Live Till I Die", che combina rock psichedelico con le classiche e sontuose armonie a la Beck, e nella traccia d’apertura, "This Is Nowhere", uno dei brani più pop mai scritti dai Black Keys, grazie a un ritornello appiccicoso e a quei sintetizzatori che si insinuano sornioni nelle trame della ritmica.

Se "Don't Let Me Go" si immerge nel soul degli anni '60 e '70, così come la cover con arrangiamento d’archi di "I Forgot to Be Your Lover" di William Bell, in alcune occasioni riemergono dal passato anche i Black Keys del primo decennio, grazie al trascinante rock blues di "Please Me (Till I'm Satisfied)", la splendida ballata "Free Tree" e la pulsante "Read Em and Weep", in equilibrio fra ruvidezza garage rock e languori western.

Manca da citare anche "Candy And Her Friends", il cui ritornello clamorosamente malinconico evapora inaspettatamente in una seconda parte di canzone in cui il protagonista diventa il rapper Lil Noid, dando vita a un connubio straniante ma decisamente riuscito.

Come spesso accade nei dischi dei Black Keys, Ohio Players è un disco più lungo del necessario, che perde un po’ di appeal nella seconda parte, pur mantenendo un buon livello d’ispirazione. La struttura dei brani, che ruotano intorno all’ossatura ritmica di Carney, è collaudatissima, ma più che in altre occasioni i numerosi ganci melodici sono tutti di prim’ordine. Il breve minutaggio delle canzoni (molte sotto i tre minuti di durata) e la vasta gamma espressiva rendono l’ascolto piacevole e divertente, restituendo ai fan una band in forma come nei suoi giorni migliori.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Blues, Soul

 


 

 

Blackswan, lunedì 13/05/2024

giovedì 9 maggio 2024

Juan Gomez-Jurado (Fazi, 2023)

 


Il dottor Evans è uno dei migliori neurochirurghi d’America, ma è prima di tutto un padre. Una sera, tornando a casa dal lavoro, si accorge subito che qualcosa non va. L’abitazione è vuota. Sua figlia Julia, sette anni, è scomparsa. Nel giro di poco, l’uomo si scopre vittima di un ricatto terrificante: se il suo prossimo paziente uscirà vivo dalla sala operatoria, la sua bambina morirà per mano di uno psicopatico. E il suo prossimo paziente non è un uomo qualunque: la persona che Evans deve uccidere se vuole rivedere sua figlia è il presidente degli Stati Uniti. Alla fatidica operazione mancano soltanto sessantatré ore, sessantatré ore che potrebbero cambiare il destino di milioni di persone. Inizia così un disperato conto alla rovescia. Fino a che punto si può arrivare per salvare una persona amata? Con la consueta maestria, Gómez-Jurado dà vita a un nuovo, avvincente intrigo che conquista il lettore a partire dalle prime pagine senza lasciargli più un attimo di tregua. Un ritmo frenetico, un senso dell’umorismo unico, una trama perfettamente congegnata: Juan Gómez-Jurado è tornato.

Sessantatre ore. E’ questo il tempo che a disposizione di Dave Evans, uno dei più prestigiosi neurochirurghi d’America, per prendere una decisione che, comunque la si veda, avrà esiti esiziali per il suo futuro. Sua figlia Julia, infatti, è stata rapita da uno psicopatico che si fa chiamare Mr.White (figura ricorrente nei romanzi dello spagnolo), il quale, in cambio della liberazione della bambina, pretende che Evans uccida, durante una delicata operazione programmata, il suo prossimo paziente: il Presidente Degli Stati Uniti. Inizia così una lotta contro il tempo, in cui il chirurgo, aiutato dalla cognata Kate, un agente dell’FBI, da sempre segretamente innamorata di lui, dovrà riuscire a salvare la sua piccola ed evitare di commettere l’eclatante omicidio.

Chi conosce Juan Gomez-Jurado, sa esattamente cosa aspettarsi dallo scrittore iberico, che non sbaglia mai un colpo, tenendo il lettore incollato alle sue storie fino all’ultima pagina. Non fa eccezione Il Paziente, adrenalinico thriller, avvincente e ricco di colpi di scena, che porta la sua trama serratissima all’interno delle mura di un ospedale.

In tal senso, come di consueto, stupisce la meticolosità con cui Gomez – Jurado costruisce l’intreccio. Se La Cicatrice approfondiva il tema dei reati informatici e delle startup, ne Il Paziente si viene catapultati nel mondo della neurochirurgia, descritto con una dovizia di dettagli e approfondimenti tecnici, che viene da dubitare che lo scrittore non sia a sua volta un medico e non un romanziere.

Il ritmo è alto, ma non mancano, tuttavia, digressioni che servono a dare sostanza ai personaggi, anche a quelli di contorno (la moglie di Evans, Rachel, deceduta per le conseguenze di un brutto male, e l’irascibile padre di lei, Jim), e la prosa è come sempre ricca, mai banale, e attraversata da un filo di cinico umorismo, a suo modo unico.

Se è vero che il tema del rapimento, come sviluppato ne Il Paziente, non è originalissimo ed è oggetto di molti romanzi e film simili, è altrettanto vero che Gomez-Jurado riesce a tenersi lontano dal prevedibile, innescando un filotto di colpi di scena al cardiopalma e chiudendo la storia con un finale che ribalta, in parte, il convincimento che il lettore si è formato nel corso del romanzo.

Da leggere tutto d’un fiato.

 

Blackswan, giovedì 09/05/2024

martedì 7 maggio 2024

Starsailor - Where The Wild Things Grow (Auoprodotto, 2024)

 


Affacciatisi sulle scene musicali, insieme a Keane, Travis, Coldplay, Embrace, etc, a cavallo della seconda ondata di brit pop, gli inglesi Starsailor (nome preso in prestito da un album di Tim Buckley) esordirono all’alba del nuovo millennio con due dischi (Love Is Here del 2001 e Silence Is Easy del 2003) che ebbero un ottimo riscontro di vendite e di critica. Poi, il successo si affievolì, e dopo la pubblicazione di All The Plans (2009) la band si concesse un lungo iato, per ritornare sulle scene, nel 2017, con All This Life, un album discreto, ma un po’ troppo prevedibile.

Dopo altri sette anni, questo nuovo Where The Wild Things Grow, uscito quasi in sordina a marzo di quest’anno, presenta una band che sembra aver ritrovato l’ispirazione dei tempi migliori, quella facilità di scrittura e quel piglio melodico che aveva reso irresistibili i primi due lavori. Realizzato durante la pandemia globale e fortemente influenzato dal divorzio del leader James Walsh, Where The Wild Things Grow è un disco che non scende a patti con la nostalgia, evita di replicare pedissequamente quel suono che per qualche anno fu immediatamente riconoscibile, per cercare nuove strade espressive, che si dipartono da una sorta di crocevia sonoro fra Inghilterra e Stati Uniti, percorse con freschezza attraverso uncinanti melodie.

Che la band sia in palla, lo si capisce subito dall’opener "Into The Wild", un incipit dal vigore inaspettato, che evita clichè ed espedienti elettronici in favore di una strumentazione classicissima (chitarre e hammond) e di un andamento decisamente grintoso, che sfocia in un finale dalle acide sonorità rock gospel. Un piglio elettrico ribadito nella successiva "Heavyweight", sulla cui linea di basso pulsante battagliano organo e chitarre fuzzy, prima che il brano sfoci in un ritornello uncinante.

"After The Rain" è una ballatona struggente che si veste di un leggero abito country soul, facendo capire che la band trova ispirazione guardando anche verso l’altra sponda dell’Atlantico, cosa che, successivamente, accade nell’incedere pigro della suntuosa "Flowers" o nel jingle jangle a la Byrds di "Better Times", i cui cori da stadio chiamano in causa addirittura Bruce Springsteen.

E’ evidente che gli Starsailor cerchino un modo per evitare di replicare se stessi, per riproporsi al pubblico fuori dagli steccati del più frusto brit pop, e lo fanno con grande consapevolezza, come, ad esempio, in "Dead On The Monkey", un gioiellino che rielabora il loro sound caratteristico attraverso un moderno suono indie rock e un coinvolgente appeal radiofonico.

Poi, certo, la ballata nostalgica dal plumbeo retrogusto british resta la freccia più acuminata dell’arco della band inglese, che in tal senso, stante anche una ritrovata vitalità compositiva, non sbaglia un colpo. La title track vale da sola il prezzo del disco, e quegli accordi in minore che spingono il ritornello in uno sprofondo dolente e malinconico sono in grado di sbriciolare il cuore anche all’ascoltatore più disattento. Allo stesso modo, la conclusiva "Hanging In The Balance", punta di plettro e pianoforte, e il liquido fingerpicking di "Hard Love" sono tanto intense e sincere nella loro palpabile mestizia, da ingenerare più di una lacrima di commozione.

Sotto la guida del produttore Richard McNamara (chitarrista degli Embrace), con Where The Wild Things Grow, gli Starsailor sono riusciti a mantenersi fedeli alle proprie radici, ma allo stesso tempo hanno infuso nella loro musica una ritrovata passione e la volontà di rinnovarsi, evitando sterili tropi in odor di naftalina. Con ogni canzone della scaletta, la band inglese riafferma, oggi, il posto che gli è dovuto nel panorama musicale, dimostrando che, sebbene sia inevitabile un certo retrogusto nostalgico, il suo viaggio creativo è lungi dall'essere finito. Davvero un gradito ritorno.

Voto: 8

Genere: Pop, Rock

 


 

 Blackswan, martedì 07/05/2024

lunedì 6 maggio 2024

Barracuda - Heart (Cbs Portrait, 1977)

 

 


Scritta da Ann e Nancy Wilson insieme al chitarrista Roger Fisher e al batterista Michael DeRosier, Barracuda, canzone che apre Little Queen (1977), terzo album degli Heart, è un brano che trasuda rabbia e livore, e che si scaglia contro l’industria musicale, assimilata a un pericoloso pesce predatore.

Barracuda, infatti, nasce in un momento in cui la band era in rotta di collisione con la Mushroom, l’etichetta canadese che aveva pubblicato l’album d’esordio della band, ora passata alla CBS/Portrait. La loro vecchia etichetta fece causa alla band e nel 1978 pubblicò Magazine, un album composto da materiale precedentemente registrato, che gli Heart non voleva fosse pubblicato.

Questi i fatti. Dopo il loro album di debutto, gli Heart iniziarono a registrare nuove canzoni a Vancouver che avrebbero dovuto confluire nel prossimo album in studio, sotto l’egida Mushroom Records. Tuttavia, il gruppo entrò in conflitto con l’etichetta a causa di una pubblicità che celebrava le vendite di Dreamboat Annie. L'annuncio, pubblicato a tutta pagina nel numero del 30 dicembre 1976 della rivista Rolling Stone, era progettato per assomigliare alla copertina di una salace rivista in stile tabloid e mostrava le sorelle nude, con la suggestiva didascalia "Era solo la nostra prima volta!". 

Le sessioni di registrazione per il nuovo album, poi, si interruppero anche perchè la band e l’etichetta non riuscirono a rinegoziare il contratto. Dato che gli Heart avevano ormai dimostrato di essere una band capace di scalare le classifiche, si aspettavano che la Mushroom aumentasse la loro percentuale sulle royalty. Tuttavia, con sorpresa del gruppo e del loro produttore Mike Flicker, l'etichetta si rifiutò di pagare di più. Causa legale e fine dell’idillio d’amore con la casa discografica canadese.

Ma c’è di più. Quella pubblicità pruriginosa pubblicata dalla Mushroom instillò in molti il dubbio che le due sorelle avessero una relazione incestuosa. Una sera un produttore radiofonico si avvicinò ad Ann Wilson, dopo un concerto tenutosi a Detroit, e chiese alla cantante come stesse il suo "amante". Inizialmente, Ann pensava che l’uomo stesse parlando del suo allora fidanzato, il membro della band, Michael Fisher. Ma quando si accorse che il promotore, in realtà, si riferiva a sua sorella Nancy, lo ricoprì di insulti e, furibonda, tornò nella sua camera d’albergo, dove scrisse il testo di Barracuda, una canzone che, successivamente, fu oggetto di ulteriori polemiche.

Durante la campagna presidenziale del 2008, infatti, Barracuda è stata utilizzata come sigla non ufficiale per la candidata repubblicana alla vicepresidenza, Sarah Palin. La governatrice dell'Alaska si era guadagnata originariamente il soprannome di "Sarah Barracuda", quando giocava a basket al liceo, a causa della sua feroce competitività. Il nome è stato ripreso dopo che la Palin, nel 1996, è diventata sindaco della sua città natale, Wasilla. Appena le sorelle Wilson vennero a sapere dell’utilizzo improprio del brano, rilasciarono una dichiarazione in cui affermavano, senza mezzi termini: "La campagna repubblicana non ha chiesto il permesso di usare la canzone, né gli sarebbe stato concesso quel permesso. Abbiamo chiesto pubblicamente alla campagna repubblicana di non usare la nostra musica. Ci auguriamo che i nostri desideri vengano rispettati."

Ma così non fu. La canzone venne suonata alla convention repubblicana quella sera stessa, dopo che il loro candidato alla presidenza John McCain parlò e venne raggiunto dalla Palin sul palco. I rappresentanti del partito repubblicano, infatti, fecero presente di aver regolarmente ottenuto i diritti di esecuzione della canzone e non avevano alcun obbligo di ottenere ulteriori permessi per usarla. Pur senza adire le vie legali, le sorelle Wilson, qualche tempo dopo, si “vendicarono” attraverso i media, dichiarando a Entertainment Weekly: "I punti di vista e i valori di Sarah Palin non ci rappresentano in nessun modo come donne americane. Chiediamo che la nostra canzone 'Barracuda' non venga più utilizzata per promuovere la sua immagine. La canzone "Barracuda" è stata scritta alla fine degli anni '70 come un feroce sfogo contro la natura senz'anima e corporativa del mondo della musica, in particolare per le donne.”.

 


 

 

Blackswan, lunedì 06/05/2024

giovedì 2 maggio 2024

Going To A Town - Rufus Wainwright (Geffen, 2007)

 


Nonostante l’indiscussa bellezza dei quattro album che lo hanno preceduto, il successo commerciale per Rufus Wainwright, arriva solo alla quinta prova in studio con Release The Stars (2007), che vince due dischi d’oro, in Canada e in Inghilterra, dove peraltro si piazza al secondo posto in classifica. Rufus è meno tormentato, ha un nuovo compagno e vive con serenità la propria omosessualità. Ha smesso i vizi e le dipendenze dalle droghe, è passato da (scapestrato) enfant prodige della scena pop, ad autore maturo e riflessivo. Release The Stars è, in tal senso, un nuovo punto di partenza, il disco di un uomo che guarda ai sentimenti attraverso il viaggio e i luoghi della sua vita. Una geografia dell’anima che passa attraverso Parigi (Leaving For Paris), Hollywood (la title track) e, soprattutto, Berlino, ove l’album è stato in gran parte registrato (Sanssouci, Tiergarten e Going To A Town).

Quest’ultima è una canzone dalla progressione melodica talmente intensa da lasciare attoniti, un brano solo all’apparenza di facile assimilazione, ma in realtà attraversato da malinconia e tristezza, e da profonde riflessioni con cui Wainwright punta il dito contro la politica estera e interna dell’allora presidente Bush.

Il musicista, che in quel momento storico vive a New York (ricordiamoci che Wainwright è americano, ma naturalizzato canadese), prende le distanze dalla patria che gli ha dato i natali, ripetendo come un mantra la frase “I’m So Tired Of America”, un’invettiva indiretta, ma chiarissima, a George W. Bush, che era presidente da ormai sette anni e aveva, di recente, intensificato la guerra in Afghanistan.

In un’intervista a Q, rilasciata nell’ottobre del 2007, Wainwright affermò di aver sentito il bisogno pressante di scrivere la canzone, che compose in soli dieci minuti: ”In realtà mi piace vivere a New York, godendomi il bottino dell'impero. Detto questo, la situazione politica è diventata così orribile a così tanti livelli, che non credo che nessuno possa fare a meno di scriverne."

La città a cui il musicista canadese si riferisce nel titolo della canzone è Berlino, il luogo in cui, come detto, ha realizzato la maggior parte del materiale di Release The Stars. Berlino, negli intenti di Wainwright rappresentava la cartina di tornasole dell’assurdità di tutte le guerre, perché era una città che, in passato, era stata martoriata e distrutta, e che, con il passare del tempo, aveva imparato la lezione sugli orrori che l'umanità può infliggere a un popolo (“Vado in una città che è già stata bruciata, Andrò in un posto che è già stato disonorato, Vedrò alcune persone che sono già state deluse”).

C’è di più, però. La critica agli Stati Uniti è più ampia, perché non solo investe le pulsioni guerrafondaie di Bush, ma mette anche all’indice l’ipocrisia di un popolo che non si fa scrupoli ad applaudire alle guerre, e che, invece, facendo leva sulla religione, avversa in tutti i modi le minoranze LGBT. Il matrimonio gay, che non era ancora legale nella maggior parte degli Stati Uniti, era, in quegli anni, un tema caldo e dibattuto pubblicamente. Wainwright, che a Berlino aveva trovato l’amore (Jorn Weisbrodt, che poi ha sposato nel 2012) decise di prendere posizione inserendo nel brano alcuni versi, nei quali chiariva senza filtri la sua posizione: “Dimmi, pensi davvero di andare all'inferno per aver amato?  Dimmelo e non pensare che ogni cosa che hai fatto sia buona. (Ho veramente bisogno di sapere) Dopo aver inzuppato il corpo di Gesù Cristo nel sangue.” Un testo che non lascia terreno ad alcuna ambiguità e che arriva diretto al centro del bersaglio.

E che Going To A Town fosse una canzone di rottura, indigesta a molti ascoltatori americani, è evidente dal fatto che, se è vero che il brano è uno dei più suonati dal vivo da Wainwright, è altrettanto vero che le liriche acuminate e quel verso, I’m So Tired Of America, hanno sempre suscitato reazioni controverse da parte del pubblico, che spesso e volentieri ne ha subissato di fischi l’esecuzione. 




Blackswan, giovedì 02/05/2024