giovedì 31 ottobre 2024

40 Watt Sun - Little Weight (Fisher's Folly, 2024)

 


Tra le centinaia di ascolti annuali, quelli, cioè, di un fruitore attivo di musica, quanti sono i dischi che restano davvero, quanti quelli che possiamo dire essere diventati “nostri” e in grado quindi di accompagnarci verso il futuro, diventando una compagnia abituale dei nostri giorni?

Non molti, credo. Però, nel mare magnum delle nostre scelte, talvolta spunta il gioiellino, il disco che per bellezza e affinità, ci fa innamorare perdutamente e ci tiene legati alle sue canzoni. Per sempre. Sono quei dischi, come Little Weight dei britannici 40 Watt Sun, che non solo danno in regalo emozioni e struggimenti, ma chiedono in cambio assoluta devozione, pretendono dedizione, per poter entrare in pianta stabile nel novero dei ricordi musicali più importanti della nostra esistenza.

Figli meticci dei leggendari Warning, una delle band più iconiche e influenti del panorama doom metal inglese, i 40 Watt Sun, creatura fortemente voluta dal cantante, chitarrista e songwriter Patrick Walker, giungono al loro quarto album in studio, dimostrando per l’ennesima volta un’ispirazione di livello altissimo. Sia chiaro fin da subito, però: il doom è un retaggio del passato, che vive, semmai, nel passo lento di queste sei canzoni e nel minutaggio chilometrico di brani, il più corto dei quali è di sei minuti. Di metal, qui, non c’è nemmeno l’ombra, e il disco si muove in territori contigui allo slow core.

Se il precedente Perfect Light (2022) era un album prevalentemente acustico, le cui trame fragili si intrecciavano al vapore di nebbie autunnali e allo sgocciolio insistente della pioggia, Little Weight abbraccia nuovamente quel mood, rinforzandolo appena con un surplus di elettricità. A dispetto del suo passato, della pesantezza monolitica del doom, Walker sembra, invece, aver mandato a memoria la lezione di Mark Kozelek e di Jason Molina, la sua, a prescindere dalla veste formale, è una musica sofferta, malinconica, crepuscolare. Ma non solo.

D’altra parte, per concepire l’album, Walker si è ritirato in un cottage isolato, al largo della costa della Cornovaglia. Trascorreva le mattine camminando lungo sentieri costieri e spiagge deserte, mentre le sue giornate trascorrevano in isolate e intense sessioni di scrittura. Da lì si è imbarcato per l'isola di Gottland, in Svezia, dove si è riunito con il batterista e partner di lunga data, Andrew Prestige, per arricchire gli arrangiamenti, sempre in costante isolamento. Alla fine, alla coppia si è unito anche il bassista Roland Scriver in una casa nel Peak District (tra Manchester e Sheffield) dove il trio ha perfezionato le canzoni prima di andare in studio.

Little Weight è, quindi, un disco figlio della solitudine e del silenzio, le cui note riverberano anche la drammatica bellezza delle montagne e le distese silenziose e contemplative di quelle coste, ove ogni canzone è stata concepita. Durante tutta la sua carriera, il musicista inglese ha scavato nelle profondità della condizione umana per creare nenie poetiche intrise di malinconia, disperazione e dolore. In Little Weight, tuttavia, sembra che la disperazione si sia attenuata, e sebbene il dolore si può ancora percepire sottotraccia, le emozioni principali che Walker ha scelto di esplorare questa volta sono speranza, amore e ottimismo.

Ciò è evidente fin dalla prima traccia dell’album, "Pour Your Love". La canzone è costruita attorno a una progressione di accordi malinconica che inonda l'ascoltatore come le onde che lambiscono le coste della Cornovaglia, ma il testo sembra indicare che dopo tanto dolore, una luce, là in fondo, può portare un briciolo di serenità. "Solleva la vergogna e la sofferenza, lascia che tutto il tuo passato venga risolto, per riposare nel mio silenzio, dove tengo il mio corpo legato, e riversa il tuo amore su di me, attraverso i muri rotti che mi circondano" canta Walker, con quel timbro magnetico, nelle cui sfumature puoi incontrare Michael Stipe e, talvolta, Eddie Vedder. Walker, allora, si offre all’ascoltatore come lenimento al dolore, offre la propria mano come gesto di condivisione ed empatia. Il grande peso dell’esistenza, quel fardello che chiamiamo male di vivere, diventa un peso più gestibile: la natura, l’accecante e selvaggia bellezza che ci circonda, ma della quale spesso non riusciamo nemmeno ad accorgerci, è pronta a mitigare il dolore, ad asciugarci le lacrime, a rimetterci in carreggiata. La natura, la musica, l’amore sono a portata di mano e pronte a salvarci la vita, e se anche il nostro cuore continua a grondare sangue, là, in fondo al tunnel, una luce indica la strada.

Le sei canzoni che compongono Little Weight, per un complessivo minutaggio di tre quarti d’ora, sono esattamente così: avviluppano l’ascoltatore nella malinconia, condividono la mestizia attraverso il loro trasporto empatico, e poi, all’improvviso, quando la contrizione del cuore è totale, ecco che virano improvvisamente verso melodie di un chiarore abbagliante, che sono il motore di ogni brano, ma anche una carezza, un sorriso, un invito ad alzare la testa e a non mollare. La gioia, o quanto meno la serenità, sono a portata di mano, basta solo allungarla e afferrarle.

"Half A World Away" inizia con accordi cupi che risuonano da una chitarra pulita, su un ritmo di batteria minimal, E’ puro dolore, prima che raggi di speranza trafiggano l'oscurità, mentre il ritornello irrompa, consolatorio e dolcissimo.

Abbandonata la pesantezza doom dei Warning, le chitarre di Walker sono imbevute di fuzz quanto basta per dare gravità alle canzoni, pur mantenendo un suono limpido, che consente alla voce di risplendere. La band è maestra nell'usare lo spazio e la dinamica per creare atmosfera, sfruttando tanto le note che non suona quanto quelle che suona, in modo che i brani risultino più stratificati rispetto al precedente Perfect Light, rivelando a ogni successivo ascolto nuovi particolari, che fanno crescere la bellezza delle composizioni.

Oscurità e luce si alternano anche nella bellezza trascendente di "Astoria", la linea di basso calda, l’intreccio fra chitarra elettrica e acustica, e la voce arresa di Walker che canta, quasi sul punto di rompersi in un singhiozzo, “Tutta la mia vita sembrava come se le luci si spegnessero sull'acqua, note solitarie di chiarezza, ma non brillavano", rappresentano uno dei vertici di un disco che non ha un solo attimo che non sia necessario. La bellezza è un tutt’uno con la fragilità e la vulnerabilità, e quando si ascolta la semplice e disarmante melodia di "Feathers", si ha l’impressione che la canzone si possa sgretolare fra le mani, esattamente come il nostro cuore, strattonato da chitarre sfocate, accarezzato da un ritornello dall’imprimatur divino.

E se "Closer To Life" possiede un tocco di languido romanticismo ("Senti il tuo battito contro la mia pelle, senti la speranza che mi trattiene"), la conclusiva, meravigliosa "The Undivided Truth" abbina tensione post rock e distorsioni che evocano Neil Young, in un lungo e struggente viaggio che chiude il disco con il groppo in gola di calde e definitive lacrime.

The Little Weight è un disco da ascoltare in perfetta solitudine, in cuffia, camminando nella caligine affranta di una mattina di novembre, o di notte, in macchina, quando la solitudine afferra la gola, e le stelle guardano da lassù, mute spettatrici dei nostri tormenti interiori. Un disco per tutti coloro il cui cuore batte più lentamente, e cercano, nell’intimo dei propri pensieri, il senso di questo grande/piccolo peso, che tutti chiamiamo vita.

Voto: 9

Genere: Slow Core

 


 


Blackswan, giovedì 31/10/2024

martedì 29 ottobre 2024

Lost In Hollywood - System Of A Down (American, Columbia, 2005)


 

Quando nel 2005 esce Mezmerize (anticipando di pochi mesi l’uscita del successivo Hypnotize) i System Of A Down definiscono la svolta verso un suono meno aggressivo rispetto agli esordi e decisamente più melodico, che rende la loro proposta più orecchiabile e fruibile da un pubblico più ampio. Daron Malakian, il chitarrista della band, si prende, poi, più spazio sia come cantante (alternandosi davanti al microfono al frontman Serj Tankian) che come compositore di testi (Soldier Side - Intro, Radio/Video, Violent Pornography e Old School Hollywood).

Sono in parte sue anche le liriche di Lost In Hollywood, uno dei brani più rappresentativi dell’album, al pari singolo principale, B.Y.O.B, scritta per protestare contro la guerra in Iraq.

La canzone, come recita il titolo, ha come oggetto Hollywood, il luogo in cui il chitarrista era cresciuto da ragazzo e dove, in seguito, era andato a vivere. Lost in Hollywood suona come un avvertimento, un monito a chiunque decidesse di cercare fortuna in questo rutilante quartiere, la cui iconografia ammicca al successo, alla bella vita, alle facili occasioni di carriera. Nel testo Malakian avverte un ipotetico amico di stare lontano da Hollywood, un luogo in cui tutti mentono e di cui non ti puoi assolutamente fidare.

 

Quelle strade viziose sono piene di randagi

Non saresti mai dovuto andare a Hollywood…

Dicono che sei il migliore che abbiano mai visto

Non avresti mai dovuto fidarti di Hollywood” 

 

L’amico, però, non sente ragioni, non accetta i consigli del chitarrista e si reca ugualmente a Hollywood, per poi scoprire sulla sua pelle che quel luogo trabocca di dolore, di delusione e di sogni infranti. Anche Malakian ha provato cosa significa farsi illusioni e sperare, cercare, in quella parte della città, falsa e traditrice, un modo per emergere, per accarezzare fama e denaro.

 

Ti prendono e ti creano

Ti guardano in modi disgustosi

Non avresti mai dovuto fidarti di Hollywood

Ero in piedi sul muro e mi sentivo alto tre metri

 

Hollywood era particolarmente squallida negli anni '80, quando Malakian cresceva lì vicino, tra Vine Street e Santa Monica Boulevard. Quando, successivamente, scrisse questa canzone il quartiere si era data una bella ripulita, ma era ancora un luogo in cui molti aspiranti attori e artisti provavano il pane duro del fallimento, tritati da un feroce sistema usa e getta, a cui solo pochi eletti riuscivano a sopravvivere.

D’altra parte, tutti i membri dei System Of A Down erano cresciuti a Hollywood, intessendo, nel tempo, con quel quartiere, un rapporto di amore-odio. È lì che riuscirono a costruire una base di fan, suonando nei numerosi club della vibrante scena musicale, ma per quelli meno fortunati (e magari non meno talentuosi), Hollywood è stata impietosa. I System Of A Down hanno spesso sottolineato che esiste un lato oscuro della città, tenuto nascosto dietro le luci scintillanti, e non è un caso che una loro famosissima canzone del 2001, Toxicity (che dà anche il nome all’omonimo album) esplori proprio questi temi, implicando che quel luogo sia una "città tossica".

 Malakian, però, non si limita a dare un avvertimento, e nel corso della canzone sputa veleno su quanti non accettano il consiglio e, stoltamente, vanno a tutta velocità a schiantare le proprie illusioni contro il muro di una realtà crudele. Molti di coloro, infatti, che eccellono nelle proprie comunità, presumono di poter farcela ovunque perché non hanno mai sperimentato il vero fallimento. Non si rendono conto di essere piccoli pesci in uno stagno enorme e pericoloso e, di fronte alla vera competizione, finiscono per essere sopraffatti. Eppure, insistono, stupidamente, a vendere l’anima a Hollywood per un briciolo di successo. 

 

Tutte voi puttane alzate le mani in aria

E salutate come se non vi importasse

Le persone false vengono a pregare

Guardali, implorano tutti di restare

Tutti voi vermi che fumate cicche sul Santa Monica Boulevard

Tutti voi vermi che fumate sigarette là fuori sul Sunset Boulevard”

 

Lost In Hollywood non fu mai pubblicata come singolo, ma nel tempo divenne una delle canzoni più famose del repertorio dei System Of A Down e una delle più suonate dal vivo. Per la cronaca, appena sei mesi dopo l'uscita di Mezmerize, segui un altro album, il già citato Hypnotize, ed entrambi, incredibilmente, arrivarono al primo posto delle classifiche americane.

 


 

 

Blackswan, martedì 29/10/2024

lunedì 28 ottobre 2024

Snow Patrol - The Forest Is The Path (Polydor, 2024)

 


Melodrammatici, smaccatamente romantici, spesso ampollosi, troppo mainstream per far breccia nel cuore dei veri intenditori di musica. Eppure gli Snow Patrol, figli della seconda ondata brit pop, si sono ritagliati un’importante fetta di popolarità, per quanto generalista, a metà del primo decennio degli anni ’00, con due album, Final Straw (2003) e Eyes Open (2006) grazie ai quali hanno venduto migliaia di dischi. Poi, l’inevitabile calo di consensi, e una discografia che si è fatta, anno dopo anno, sempre più rada. Tant’è che, a tutt’oggi, sono passati più di sei anni dall'ultimo album degli Snow Patrol, Wildness, un disco, peraltro altalenante e sostanzialmente deludente, pubblicato, a sua volta, dopo ben sette anni da Fallen Empires.

The Forest is the Path, il loro ottavo disco, è stato realizzato da una band, la cui line up è stata stravolta dall’uscita di membri di lunga data quali Paul Wilson (batteria) e Jonny Quinn (basso), che se ne sono andati lo scorso settembre, e dall’ingresso in pianta stabile del polistrumentista Johnny McDaid. Ciò premesso, nonostante le varie incarnazioni del gruppo, gli Snow Patrol sono da tempo considerati una creatura a uso e consumo esclusivo del frontman Gary Lightbody. Forse è perché molte delle loro canzoni più famose sono profondamente legate alla sua esperienza personale, come avveniva, ad esempio, nel celebre Final Straw, in cui il cantante che metteva a nudo la sua anima, gli amori, le delusioni, le speranze, le paure, senza alcun filtro. 

Succede più o meno la stessa cosa in questo The Forest Is The Path, un disco che racconta il senso di Lightbody per l’amore e gli struggimenti che ne derivano, laddove la foresta, luogo in qualche modo impervio e oscuro, potrebbe rappresentare il sentiero, tortuoso e complicato, per giungere al cuore di chi si ama. Un disco, questo, in cui la vulnerabilità è tutto, le parole si fanno flusso di coscienza e anche, in qualche modo, lenimento per l’anima, mentre la narrazione intima e colloquiale acquisisce un fascino universale, perfetto per chiunque abbia un cuore infranto (quello stilizzato in copertina) e voglia rimetterne insieme i cocci.

E che il tema amoroso e le mille difficoltà che si affrontano per creare e tenere in piedi una relazione siano il cardine delle liriche dell’album, lo si comprende da alcuni intensi passaggi, come ad esempio in "The Beginning" in cui Lightbody canta, chiedendo perdono, “mi dispiace inequivocabilmente, non so proprio come amare”, o nella scarna e bellissima "These Lies", che offre all’ascoltatore una struggente confessione a cuore aperto: "Non ti mentirò più, dopo queste bugie, non più, non ti ho mai amato veramente, quindi vai via e non chiamarmi mai".

Musicalmente, il disco si apre con cinque canzoni che rappresentano la summa del suono Snow Patrol, un pop rock dall’appeal radiofonico, che evoca U2, i primi Coldplay o i Keane, confezionato perfettamente ma un po’ prevedibile nell’andamento, come se la band avesse inserito il pilota automatico.

Poi, la scaletta, con "Hold Me In The Fire", subisce una svolta e inizia a decollare: la canzone ha un taglio più rock, è trascinante e sviluppa una contagiosa melodia che esplode giocosa in un ritornello irresistibile. Strutturata nello stesso modo, è anche la successiva "Years That Fall", altro gioiellino melodico che riporta alle cose migliori della band.

Da qui in avanti vengono inanellate un filotto di ballate col cuore in mano, umorali e malinconiche, in cui la luce dei due brani precedenti, si attenua immergendosi in atmosfere crepuscolari ("Never Really Tire"), fino a spegnersi del tutto, abbandonandosi alle spire della notte, nell’emotivamente devastante "These Lies", piccolo gioiello di lacrime e struggimenti. Chiude la scaletta il falsetto di Lightbody che conduce la sospensione inziale della title track verso un crescendo ritmico che sigilla con un sospiro di sollievo un disco in molti episodi ispirato da sentimenti depressi.

Come i Coldplay, o altre band similari, la cui musica ha imboccato un percorso improntato al romanticismo più sfacciato, gli Snow Patrol sono facili da mettere alla gogna. Eppure, anche i detrattori più ostinati di fronte a The Forest Is The Path, potrebbero cambiare idea. Queste undici canzoni, infatti, non rappresentano certo una rivoluzione estetica e concettuale nella proposta della band nordirlandese, ma si fanno amare perché attraversate da una sincerità di fondo che le rende ingenuamente oneste. Dategli una possibilità, se lo meritano.

Voto: 7

Genere: pop

 


 


Blackswan, lunedì 28/10/2024

giovedì 24 ottobre 2024

Franck Thilliez - Norferville (Fazi Editore, 2024)

 


Léonie è una “mela”: rossa fuori, bianca dentro. Così l’hanno sempre chiamata i nativi americani della riserva, perché è figlia di una madre innu e di un padre bianco. È cresciuta a Norferville, una piccola cittadina mineraria tagliata fuori dal mondo, nel Grande Nord canadese. Dopo la chiusura della miniera, Léonie abbandona la sua terra di ghiaccio e si ripromette di non rimetterci mai più piede, perché Norferville l’ha brutalizzata lasciandole una ferita che non si rimargina. Ma la vita decide altrimenti e, vent’anni più tardi, Léonie si ritrova costretta a tornare in quel luogo maledetto e affrontare una volta per tutte i fantasmi del passato. Ad altre latitudini, Teddy Schaffran – un criminologo di successo che indossa un’enigmatica benda da pirata sull’occhio sinistro – è tormentato da un antico dolore. Anche lui ha un grosso conto in sospeso con Norferville e le sue sorti sono destinate a incrociarsi con quelle di Léonie. Al centro di tutto, un efferato omicidio che solleva enormi interrogativi e scoperchia un vaso di Pandora di cui Léonie è determinata a vedere il fondo.

 

Maestro del noir, autore quotatissimo in Francia, paese che gli dà i natali, e fenomeno commerciale in Europa, dove le sue opere registrano ovunque vendite da capogiro, Franck Thilliez torna con un nuovo romanzo, Norferville, probabilmente tra i migliori della sua ventennale bibliografia.

L’azione si svolge tra i ghiacci quebecchesi, a nord di un Canada gelido e selvaggio, in una terra aspra, dove i bianchi hanno colonizzato e vessato le tribù autoctone, relegandole a forza lavoro di un impianto minerario. Un luogo in cui gli uomini lottano per la sopravvivenza contro temperature brutali, in cui la natura indomabile, nonostante i tentativi di sfruttare un territorio ricco di materie prime, non fa sconti e uccide chiunque ne sottovaluti la forza distruttiva.

Qui, tra le nevi candide di una pista per cacciatori, viene trovato il corpo straziato e orrendamente mutilato di Morgane, una giovane donna, figlia di un profiler della polizia francese, Teddy Schaffran. Quest’ultimo, giunto in Canada per recuperare il corpo della figlia, si unisce a Leonie, tenente della polizia canadese, incaricata delle indagini, perché nata e cresciuta a Norferville. Ostacolati dal capo della polizia locale, con cui Leonie ha vecchi conti in sospeso, i due iniziano a scavare nel passato di Morgane, portando lentamente alla luce una terribile verità che fa rabbrividire, esattamente come il gelo impietoso che avvolge nelle sue spire la narrazione.

Norferville è un romanzo che conquista fin dalle prime pagine perché combina in modo magistrale tutti gli elementi che rendono grande un thriller: il susseguirsi dei colpi di scena, il ritmo dosato perfettamente tra pause e accelerazioni, gli indizi sparsi che sviano il lettore affamato di verità, e, soprattutto, un’ambientazione descritta con mano chirurgica e scevra da ogni inutile romanticismo, quella natura bellissima e spietata, simulacro di Dio, in un luogo a cui Dio sembra aver voltato le spalle, spettatrice silenziosa di una tragedia personale che, pagina dopo pagina, prende connotati universali.

Perché nelle intenzioni di Thilliez non c’è solo quella di risucchiare il lettore in un storia che, in tutti i sensi, mette i brividi, ma gettare uno sguardo su fatti di cronaca realmente accaduti in Canada, e cioè quello delle donne e delle ragazze indigene scomparse e assassinate, un orrore figlio del genocidio culturale perpetrato per decenni dalla Chiesa Cattolica nei confronti di migliaia di bambini indigeni, segregati e abusati, psicologicamente e fisicamente, dalle istituzioni religiose.

Un romanzo ad ampio respiro, dunque, che ha il merito di intrattenere, ma anche di spingere il lettore a scoprire di più su una pagina oscura della storia del Canada e dell’umanità intera.

 

Blackswan, giovedì 24/10/2024

martedì 22 ottobre 2024

Personal Jesus - Depeche Mode (Mute, 1990)

 


Considerato uno dei migliori dischi di tutti i tempi, Violator è l’album più venduto dei Depeche Mode con oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo, ed è l’opera che consegna alla band inglese il successo planetario. Un disco splendido, che, come direbbe i lettori più giovani, “spacca” soprattutto in virtù di due leggendari singoli: Enjoy The Silence e Personal Jesus.

Non tutti, forse, sanno che quest’ultima canzone venne ispirata dal libro Elvis And Me, in cui Priscilla Presley descriveva la sua relazione amorosa con The King, che nello specifico di quella liaison, era considerato dalla moglie alla stregua di un semidio. Un rapporto, quello fra i due, che dava l’idea di non essere propriamente equilibrato, mettendo in luce una vera e propria dipendenza da parte di Priscilla per quello che non era solo il suo uomo, ma anche mentore e una figura tanto carismatica, da indurre la donna ad annullarsi nella luce riflessa della rockstar (per farvi un'idea più precisa, consigliamo la visione di Priscilla, pellicola datata 2023, per la regia di Sofia Coppola)..

In tal senso, Personal Jesus parla dell'essere un Gesù per qualcun altro, una sorta di profeta che dà speranza e che lenisce le ferite, ma che, in modo molto ambiguo, suggerisce anche una relazione tossica, disallineata.

Allunga la mano, tocca la fede

Il tuo Gesù personale

Qualcuno che ascolti le tue preghiere

Qualcuno a cui interessi…

E sei tutto solaCarne e ossa

Al telefono

Alza il ricevitore

Ti farò diventare un credente

 

Nonostante vivesse su un altro pianeta musicale, Johnny Cash realizzò una versione scarnissima (e splendida) di Personal Jesus per il suo album del 2002, American IV, The Man Comes Around. Fu lo stesso Cash a spiegare quella strana scelta durante un’intervista a Mojo: “L'ho sentita come una canzone gospel. E se la pensi come una canzone gospel, funziona davvero bene.”.

Martin Gore ha rivelato al London Times che la band non era a conoscenza del fatto che Cash avesse interpretato questa canzone. Quando hanno saputo della registrazione della leggenda del country, i tre erano naturalmente entusiasti. E ogni volta che i giornalisti li incalzavano, sostenendo che “the man in black” avesse praticamente rubato la canzone, Gore era solito ripetere: "Penso che quando sei qualcuno del calibro di Johnny Cash, non hai bisogno di chiedere il permesso".

Il video è stato il primo dei Depeche Mode a essere trasmesso in modo significativo su MTV. Diretto da Anton Corbijn, la clip ha come tema il vecchio west, con Dave Gahan e Martin Gore nei panni dei cowboy. La versione originale del video (che si può tranquillamente trovare su youtube) fu, però, rimandata al mittente da MTV, che la riteneva, per così dire, “inappropriata”. Al minuto 2 e 20 circa, infatti, potete osservare alcune inquadrature delle silhouette di Gore che sbuffa, e poco dopo l’inquadratura delle terga di un cavallo, successione che suggerirebbe un rapporto contro natura tra il musicista e l’animale.

 


 

 Blackswan, martedì 22/10/2024

lunedì 21 ottobre 2024

Unto Others - Never, Neverland (Century Media, 2024)

 


Contaminare, ibridare, sperimentare, cercare diverse forme espressive nello stesso contesto: tutte operazioni che richiedono consapevolezza, maturità e visione d’insieme, perché, diversamente, il rischio è quello di pasticciare, di creare un inconcludente guazzabuglio e non un appetitoso minestrone. Gli americani Unto Others, nome che ha sostituito il precedente Idle Hands, sono una band con le idee chiarissime, capaci di plasmare il genere metal, punto di partenza della loro proposta, in qualcosa di completamente diverso, in uno sfizioso gioco di contrapposizioni e antitesi, che inizialmente spiazza, ma colpisce esattamente il centro del bersaglio. E’ l’abilità di un talentuoso chef: mettere tanta carne al fuoco, senza sbagliare la cottura, senza perdere profumi e sapori, e offrire ai commensali una grigliata perfetta.

La band originaria di Portland ha profonde radici gotiche, ama l’oscurità e il crepuscolo, ma si distingue da altri gruppi che vagano al limitare della notte, grazie alla capacità di creare hook elettrizzanti, di concedere qualcosa al mainstream, di rischiare l’azzardo, anche estremo, e di mitigare l’espressione cupa da sad metaller, diluendo il pessimismo con una sottotraccia divertita e sfacciata.  In tal senso, Never Neverland riesce a sviluppare un suono avventuroso, in cui si sente l’influenza della vecchia scuola gotica, senza, tuttavia, che quel suono immediatamente riconoscibile (Sister Of Mercy, Type O Negative, Cure, etc.) sia predominante, ma inserendolo semmai come fil rouge in un contesto più variegato ed eterogeneo.

Il tiro quadrato di "Butterfly", brano che apre il disco, fa pensare a tutti i riferimenti appena citati (il canto profondo, baritonale, respingente di Gabriel Franco, così come il tappeto di tastiere arrivano proprio dagli anni ’80) ma i riff potenti e gli assoli sono patrimonio della più classica scuola metal. Il risultato è una canzone che sta in perfetto equilibrio fra mood depressivo e groove trascinante, che spicca, poi, il volo in un ritornello immediatamente assimilabile.

Inizia così una scaletta che porta l’ascoltatore ovunque, a partire dalla successiva "Momma Likes The Doors Closed", follia monocromatica che spinge sull’acceleratore di un metal ottantiano (Judas Priest), per poi confluire in un’inaspettata parentesi funky, prima di un finale ansiogeno dai connotati horror. "Angel Of The Night" è puro goth rock, il basso martellante, la ritmica potente, il cantato arreso e baritonale, le chitarre riverberate portano in territori già esplorati dai Sister Of Mercy, anche se nel crepuscolo si sente il tepore melodico di un ritornello splendido.

Sono tante le belle canzoni all’arco degli Unto Others, e anche se talvolta il contesto estremamente eterogeno fa girare la testa, il livello d’ispirazione è tale da mantenere in piedi la struttura di Never, Neverland senza che si percepiscano sinistri scricchiolii. Se "Glass Slippers" e "Farewell" sono due strumentali, brevi e malinconici, non indispensabili, ma comunque piacevoli, sono parecchi i momenti in grado di far saltare l’ascoltatore sulla sedia. L’ironica "Suicide Today" nasconde dietro uno sferragliante muro di chitarre e un tiratissimo ritornello un riff di chitarra che farà piacere ai fan degli Smiths (e se aguzzate le orecchie troverete la stessa sensazione anche in "Time Goes On"), "Flatline" è una sfuriata di un minuto e mezzo a cavallo tra black metal e punk, "Sunshine" si addentra addirittura in territori arena rock con effetti sorprendenti, mentre "Cold Word", con quel sentore che rimanda a "Frederick" di Patti Smith, è un brano che trabocca di uncinanti ganci melodici. E se "Fame" centra il perfetto punto di fusione fra Judas Priest e Sister Of Mercy, "Raigeki" fila dritta come un fuso su coordinate che rimandano a suoni dark anni ’80, appena scartavetrati da una maggior intensità rock nel ritornello.

Chiude il disco la ritmica quadrata della title track, calando il sipario su una scaletta tortuosa ma di sicuro impatto. D’altra parte gli Unto Others hanno sempre dimostrato di saper far bene soprattutto una cosa: mischiare le carte e tirar fuori dalla penombra del loro mondo goth quell’asso nella manica che risulta sempre vincente, e cioè la melodia.

La band di Portland sa barare, convince l’ascoltatore di essere immerso nelle trame di un incubo notturno, o messo con le spalle al muro da uno tsunami elettrico, per poi trarlo in salvo con un ritornello che più orecchiabile non si può, di quelli da canticchiare anche quando l’ascolto del disco finisce. Intelligenza, maturità e divertita spregiudicatezza. 

Voto: 8

Genere: Goth Rock




Blackswan, lunedì 21/10/2024

giovedì 17 ottobre 2024

Eclipse - Megalomanium II (Frontiers, 2024)

 


E’ quasi inevitabile ripeterlo ogni volta come se fosse un mantra: gli svedesi Eclipse non sbagliano un colpo, sono certezza di qualità immutabile nel tempo. Allora poco importa se questo Megalomanium II, fratello minore di Megalomanium, uscito l’anno scorso, sia le seconda parte di un album doppio, venduto separatamente per ovvi motivi commerciali. Ci sarebbe da incazzarsi, ma poi, una volta messo il disco sul piatto, le cose cambiano, e si può essere soddisfatti dell’acquisto, poco importa se abbiamo speso di più.

Dal momento che le undici canzoni in scaletta rappresentano la seconda parte di quello che, come detto, sarebbe dovuto essere un doppio, è ovvio che il sound si avvicina molto al suo predecessore, spingendo con enfasi sulle consuete melodie uncinanti, ritornelli orecchiabili, bordate chitarristiche graffianti e voci potenti. Ciò significa che anche questi ulteriori undici brani mantengono la medesima qualità, sono accattivanti e altamente innodici, e portatori sani di un mood prevalentemente festaiolo.

In tal senso, il singolo "Apocalypse Blues" è un ottimo esempio delle qualità della band, in quanto è un numero carico di hook irresistibili, che trasmette una carica decisamente energizzante, nonostante il titolo possa far presagire altro.

Ciò che rende questo album così piacevole al pari dei suoi predecessori è l’innata capacità con cui gli Eclipse sanno dar vita a un suono riconoscibile, ma non monolitico, e spaziano fra umori, atmosfere e diversi stati d’animo, canzone dopo canzone. Così, se la citata "Apocalypse Blues" è un numero trainato da spavalda allegria, ecco allora che la successiva "The Spark" è più energica e pesante, sfoggia un riff di chitarra killer, un ritornello irresistibile con voci meravigliosamente armonizzate e stratificate, e un taglio un po’ tamarro, che rende l’ascolto ruffiano ma godibilissimo. La trascinante "Falling to My Knees" possiede una sottile atmosfera retrò anni ’80 capace di far scatenare i più nostalgici degli ascoltatori, mentre "All I Want" cavalca un groove massiccio trascinato da una sezione ritmica che non fa prigionieri.

Non solo bordate adrenaliniche, però. La malinconica "Still My Hero", pur tenendo il piede sull’acceleratore, riporta calde vibrazioni degli anni ’80 e adombra leggermente il mood festaiolo dell’album, mentre la power ballad "Dive into You" è il momento più intenso del disco, in cui la prova vocale di Erik Mårtensson tocca il cuore e trasmette brividi veri. L’assolo di Magnus Henriksson, poi, è di per sé uno spettacolo, ben realizzato e incredibilmente funzionale all’atmosfera delicata e malinconica della canzone.

L'atmosfera cambia di nuovo con l'intro di ispirazione western di "Until the War is Over", un grande esempio di come scrivere il perfetto rock melodico, a cui seguono "Divide & Conquer", sciabolata esiziale segnata da cromosomi NWOBHM e "Pieces", ennesimo brano innodico, perfetto per scatenarsi sotto il palco.  E se "To Say Goodbye" è avvolta in sfumate atmosfere folk, a chiudere la scaletta c'è "One in a Million", vera e propria aggressione ai padiglioni auricolari, in cui la bella melodia è stritolata dal potenza sbuffante delle chitarre, che spingono verso atmosfere umbratili.

Con questo nuovo lavoro, gli Eclipse si confermano compagine di prim’ordine nel panorama hard rock melodico mondiale, hanno definitivamente affinato il proprio suono, e dato ulteriore profondità emotiva a un songwriting che non palesa punti deboli. Pertanto, anche se il disco poteva essere allegato alla precedente fatica, facendoci risparmiare qualche euro, il risultato finale è tale che queste canzoni, rapide (tre/quattro minuti massimo di durata), innodiche e orecchiabili, ci fanno bramare, a fine ascolto, l’uscita di Megalomanium III. Con buona pace del nostro portafogli.

Voto: 8

Genere: Hard Rock

 


 


Blackswan, giovedì 17/10/2024

martedì 15 ottobre 2024

Rain King - Counting Crows (Geffen, 1993)


 

Nel 1959, il grande scrittore americano Saul Bellow pubblica quello che è considerato il suo romanzo più famoso, Henderson the Rain King (in Italia, meglio conosciuto come Il Re Della Pioggia). Il libro racconta le vicende di Eugene Henderson, un americano di mezza età, miscelando con inventiva la riflessione filosofica con una serie di avventure comiche. Nel pieno della maturità, ricco e con molti figli e donne a carico, Henderson fugge nel cuore dell'Africa alla ricerca di verità elementari sul mondo e su sè stesso. Ne emerge un ritratto a tratti spassoso e divertente, ma al contempo un'inedita e corrosiva critica alla figura dell’americano medio.

E come talvolta accade, musica e letteratura vengono a contatto, in un processo di osmosi che può produrre risultati inaspettati a fascinosi. E’ il caso di Rain King, settima traccia da August And Everything After (1993), l’acclamato esordio dei californiani Counting Crows, un disco che, ai tempi, vendette più di sette milioni di copie.

Rain King prende il titolo proprio dal romanzo di Saul Bellow, un libro che il cantante Adam Durizt lesse quando frequentava l’università, seguendo il corso di letteratura inglese. Duritz s’innamoro perdutamente del romanzo e delle avventure di Henderson, tanto che qualche anno dopo, quando scrisse la canzone, aveva ancora ben presente quello stravagante personaggio, che immortalò nel verso “Henderson is waiting for the sun”.

La canzone, però, non riguarda specificamente il libro, ma si riferisce a ciò che Duritz sentiva riguardo alla sua arte. Quel libro, infatti, era diventato un vademecum per tutto ciò che riguardava la creatività e la scrittura, e rappresentava l’idea che l’anima di un artista, tutto ciò che sente nel profondo del cuore, debba necessariamente confluire nella sua opera. Fu lo stesso Duritz a spiegarlo durante un’intervista: “tutti i sentimenti, tutto ciò che ti fa venire voglia di scrivere, ti spinge a prendere in mano una chitarra ed esprimere te stesso. Quella canzone è piena di tutti i dubbi e le paure su come mi sentivo riguardo alla mia vita in quel momento.” La creatività, certo, ma anche un senso di spaesamento, la paura di affrontare la pagina bianca, il timore della solitudine che essere un artista comporta. Ansie che divorano nel profondo e che il cantante affronta nei versi:

E io sono il re della pioggia

E io ho detto: "Mamma, mamma, mamma, perché sono così solo

Perché non posso uscire, ho paura di non tornare a casa

Beh, sono vivo, sono vivo, ma sto sprofondando

Se c'è qualcuno a casa tua, tesoro

Perché non mi inviti ad entrare?”

 

Fedele all’assunto di cui prima, Duritz ha sempre detto che le sue canzoni sono molto personali, ed è evidente che, in questo specifico brano, sia proprio lui il Re della Pioggia, colui che crea bellezza attraverso la musica e la scrittura, ma che al contempo si sente anche prigioniero di questo suo bisogno primario, insopprimibile. Rain King, in tal senso, è una canzone molto spirituale, che parla delle forze che stimolano la creatività e che danno energia all'arte.

Negli Stati uniti (a differenza che in Europa), i Counting Crows non pubblicarono nessuna canzone di August And Everything After come singolo, un approccio anomalo, ma che funzionò molto bene, visto che, come detto, l'album vendette oltre sette milioni di copie. Duritz, tra l’altro, era affezionatissimo al brano, e avrebbe voluto che fosse la punta di diamante del disco, quella che, nelle sue intenzioni, sarebbe dovuta essere la canzone più famosa della band, e che, invece, venne surclassata, in termini di popolarità, da Mr. Jones, autentico tormentone, che le radio dell’epoca passavano con disarmante regolarità.

I Counting Crows sono noti per andare fuori copione durante i concerti, suonando le loro canzoni in versioni molto diverse da quelle che si ascoltano negli album. Una pratica, questa, che si è consolidata di concerto in concerto (chi ha avuto modo di ascoltarli dal vivo, si ricorderà, ad esempio, di una Round Here stravolta e torrenziale), e che prese piede proprio da Rain King, la prima canzone con cui la band ha sperimentato questo approccio live completamente fuori dagli schemi. Tanto che, quando i Counting Crows eseguono il brano dal vivo, spesso vi integrano parte di Thunder Road di Bruce Springsteen, dando vita a un mash up di struggente bellezza.

 


 

 

Blackswan, martedì 15/10/2024

lunedì 14 ottobre 2024

Skid Row - Live In London (earMusic, 2024)

 


Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, gli Skid Row pubblicarono due album (l’omonimo esordio del 1989 e Slave To The Grind del 1991) che consegnarono alla storia la band originaria del New Jersey come una delle realtà più influenti di quel movimento chiamato, un po’ superficialmente, hair metal. Nonostante il successo conseguito con questi due album (un successo di beve durata, cancellato dall’onda impetuosa del grunge) gli Skid Row, durante quel periodo glorioso, non avevano ancora pubblicato un disco dal vivo, che, invece, a sorpresa, esce oggi.

L’album riproduce un’esibizione tenutasi allo 02 Forum Kentish Town tenutasi il 24 ottobre del 2022, per promuovere The Gang’s All Here, ultima fatica in studio del gruppo, pubblicata dieci giorni prima, con il nuovo cantante, Erik Gronwall. Si tratta, dunque, di un concerto recente, e non pescato dagli archivi, senza, quindi, l’iconico frontman Sebastian Bach, da tempo dimissionario, e con una line up che non fa comunque rimpiangere il passato.

Perché Gronwall è attualmente una delle migliori ugole metal in circolazione, anche se, e dispiace tantissimo, ha di recente lasciato la band per curarsi, dopo che gli è stato diagnosticato, nel 2021, un brutto male. Un circostanza dolorosa che, tuttavia, non ha impattato sulla qualità di questo infuocato live, in cui il cantante svedese è protagonista assoluto, grazie a una performance da brividi. Carismatico e istrionico, Gronwall si è impadronito di un songbook di canzoni leggendarie, senza far rimpiangere il suo mitico predecessore, interpretandole con un surplus di ferocia, salvo dimostrare, poi, incredibile eclettismo nell’affrontare le poche, ma scintillanti ballate in scaletta.

Live In London è una vera e propria fucilata esplosa a tre centimetri dai padiglioni auricolari, una performance che non fa prigionieri, e che spinge sull’acceleratore di un suono grezzo e senza compromessi. La scelta delle nuove canzoni ("The Gang’s All Here", "Tear It Down" e quell’aggressione alle coronarie intitolata "Time Bomb") non delude e si innesta alla perfezione in una scaletta che riprende tutti i grandi classici della band, dall’iniziale "Slave To The Grind", alla leggendaria "Monkey Business" (la "Welcome To The Jungle" degli Skid Row) fino alle indimenticate "18 And Life" e "I Remember You".

Chiude un’indemoniata "Youth Gone Wild", a sigillare un concerto travolgente, che vede una band di sessantenni suonare come se avessero vent’anni e fosse l’ultimo live act della loro vita. La pubblicazione prevede l’accoppiata Cd/Dvd, garantendo così un’esperienza completa ai numerosi fan della band e a tutti coloro che amano il rock più sanguigno e senza fronzoli.

Voto: 8

Genere: hard rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/10/2024

giovedì 10 ottobre 2024

Kingcrow - Hopium (Season Of Mist, 2024)

 


Abbiamo dovuto aspettare ben sei anni, ma ne è valsa decisamente la pena: dopo l’ottimo The Persistence, uscito nel 2018, i romani Kingcrow tornano con un nuovo disco, che si potrebbe definire, a ragion veduta, il migliore di una discografia fin qui inappuntabile.

Passati alla Season Of Mist, etichetta nota in ambito metal, la band originaria di Anguillara Sabazia continua con coerenza a proporre una musica che, pur essendo immediatamente riconoscibile, non è mai uguale a se stessa, cerca nuovi orizzonti, non accontentandosi di replicare tropi che, per quanto vincenti, toglierebbero vitalità al progetto.

In tal senso, l’etichetta di prog metal, spesso affibbiata aprioristicamente, sta davvero stretta a un disco che contiene in sé diverse, quanto seducenti sfaccettature. L’approccio prog non manca, e lo si può cogliere nella struttura complessa dei brani o nelle belle digressioni strumentali, così come, qui e là, i brani sono scossi da bordate elettriche che spingono verso sonorità decisamente hard. Ma complessivamente lo spettro è ben più ampio, e se ci sono alcuni punti di contatto con band come Leprous, Riverside e Pineapple Thief, per fare qualche esempio, lo stile resta personalissimo.

Dieci canzoni in scaletta che rifulgono di luce propria e un disco in cui tutto, ma proprio tutto, funziona benissimo: gli arrangiamenti complessi, senza mai essere ridondanti, il suono nitido e pulito, quasi scintillante, l’utilizzo centratissimo di un’elettronica calda e avvolgente, la capacità di costruire un impianto melodico limpido e orecchiabile, che acquisisce profondità grazie a un mood prevalentemente malinconico e riflessivo.

Il singolo "Kintsugi" apre il disco in accelerazione su un trascinante groove funky, e mette in evidenza un incisivo riff di chitarra, un ottimo lavoro della sezione ritmica, e un ritornello immediatamente uncinante. E’ la cartina di tornasole dell’abilità della band romana di essere diretta e accessibile, pur mantenendo standard espressivi elevati, per ricchezza e complessità espositiva. Una cosa che appare ovvia anche nell’andamento claudicante della successiva "Glitch", che combina magistralmente archi e sintetizzatori, su cui si muovono le belle linee vocali di Diego Marchesi, tra accelerazioni improvvise e momenti più sospesi e malinconici.

Un uno due micidiale, che è solo l’antipasto di un disco che non ha cedimenti. Il caos controllato di "Parallel Lines" è l’espressione più marcatamente prog del retroterra musicale dei Kingcrow, una canzone che mette in mostra le indubbie capacità tecniche del gruppo, abile nel giocare fra aggressività e stasi melodica, fremente elettricità e misurati elementi elettronici, mentre la struggente "New Moon Harvest" evidenzia il lato più oscuro e malinconico della band.

Il cuore pulsante del disco è rappresentato da "Losing Game", un brano che si gonfia lentamente in un crescendo di emotività che lascia senza fiato, e da "White Rabbit’s Hole", un’altra canzone atmosferica, avvolta da una coltre caldissima di tastiere che si dileguano di fronte all’ennesima incisiva accelerazione, in cui l’intreccio fra voce solista e cori produce nuovamente risultati strabilianti.

E se "Night Drive" parte morbidissima e cinematografica, per poi gonfiarsi di tensione trascinata da un riff ansiogeno, la conclusiva "Come Through", che si lascia alle spalle le due ottime "Vicious Circle" e "Hopium", sigilla il disco con una carezza, tra vellutati languori e dolci presagi.

Hopium è un disco splendido, che cresce ascolto dopo ascolto, e che conferma la caratura internazionale di una band che, con questo nuovo lavoro, tocca il punto più alto della carriera. Elegante, malinconica, audace ed emotivamente trascinante, quella dei Kingcrow, resta grande musica, qualunque etichetta vogliate darle. Tanto ciò che conta davvero è che quando metterete il cd nel lettore finirete risucchiati in un caleidoscopio sonoro che, per quasi un’ora, vi farà dimenticare il mondo circostante e le afflizioni della vita.

Voto: 9

Genere: Prog Metal

 


 


Blackswan, giovedì 10/10/2024

martedì 8 ottobre 2024

Cult Of Personality - Living Colour (Epic, 1988)


 

Il "culto della personalità" è una forma di idolatria sociale che si configura nell’assoluta e cieca devozione a un leader, solitamente politico o religioso, a cui vengono attribuite doti di infallibilità. Un fenomeno che potremmo definire anche come l’anticamera della dittatura: la storia è zeppa di esempi di culto della personalità (Benito Mussolini, Adolf Hitler e Stalin, per citarne alcuni), spesso negativi, e a ben vedere, anche oggi, si corre il rischio di esaltare personaggi fortemente carismatici, ma spesso privi di un abito etico e culturale, consentendo loro di fare quello che vogliono, magari governando un paese, con indiscussa autorità. Sono soggetti, questi, intrinsecamente pericolosi, perché il consenso popolare, permette loro di fare qualunque cosa, di dire alla gente che uno più uno fa tre, ed essere creduti.

E’ questo il tema affrontato in Cult Of Personality, la canzone più famosa dei newyorkesi Living Colour, prima traccia del loro album d’esordio Vivid, datato 1988.

Il destinatario delle liriche era l’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, che quando il brano fu pubblicato, era quasi a fine mandato.

Cult of Personality, essendo un brano dal contenuto essenzialmente politico, si apre e si chiude con alcune citazioni famose:

E nei pochi momenti che ci restano, vogliamo parlare con i piedi per terra in una lingua che tutti qui possano facilmente capire”.

La canzone inizia, quindi, con queste parole di Malcolm X, tratte dal suo discorso "Message To The Grass Roots" del 1963, in cui caldeggiava l’unificazione di tutti gli afroamericani.

A fine canzone, inoltre compare anche parte di una famosa frase di John F. Kennedy pronunciata nel suo discorso di insediamento del 1961:

Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”.

E poi, ancora:

L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa

Questa, invece, è una citazione da un discorso di Franklin D. Roosevelt, tenuto il 4 marzo 1933. Roosevelt usò quelle parole per annunciare il suo programma "New Deal" e incoraggiare i cittadini degli Stati Uniti, appena usciti dalla grande deperessione, a superare i loro problemi economici.

La maggior parte della canzone prende di mira l'idolatria, ma il testo è anche ambiguo, perché la band non sembra distinguere fra personaggi positivi e negativi, fra bene e male, finendo per accomunare Mussolini e Kennedy, Stalin e Ghandi. In fin dei conti, visto anche il grande successo del brano, lo scopo venne comunque raggiunto: mettere alla berlina il culto della personalità e attaccare, in questo modo, Ronald Reagan, un presidente che, a parere dei quattro ragazzi di colore, ne aveva combinate di cotte e di crude, senza avere uno straccio di visione politica.

Il grande successo di Cult Of Personality arrivò grazie a MTV, che in quel momento storico era all’apice della sua potenza. Inizialmente, la rete non voleva mandare in onda il video di un brano tanto controverso, e a quel punto la Epic, che annoverava tra i propri musicisti anche Michael Jackson, si rifiutò di concedere il video di Smooth Criminal, se MTV non avesse passato anche la videoclip dei Living Colour. I responsabili della rete televisiva sostenevano che il brano non avrebbe mai avuto successo e che non potevano scommettere tempo e denaro su una band di egregi sconosciuti. Dan Beck, responsabile del marketing della Epic, ebbe l’intuizione di mostrare loro i rapporti di vendita del singolo in Colorado, stato dove la canzone stava facendo sfracelli, e alla fine l’ebbe vinta sui titubanti responsabili di MTV.

Il video musicale è stato diretto da Drew Carolan, un fotografo amico della band. Il filmato della band che esegue la canzone è stato girato all'Hammerstein Ballroom di New York City due giorni dopo la fine del tour europeo e un giorno prima che partissero per il tour americano. Un elemento chiave (e inquietante) del video è la bambina paralizzata come un Poltergeist davanti a un televisore. Corey Glover, in un’intervista dell’epoca, cercò di spiegare il concetto: "La bambina che guardava la televisione era come una prefigurazione del mondo in cui vivevamo, in cui le persone ottenevano le loro informazioni dalla televisione... Eravamo tutti" figli dell’era della televisione. Le nostre informazioni sono arrivate di prima mano in questo modo, ed è di questo che il video cercava di parlare: i momenti cruciali della tua vita, per la maggior parte, li hai visti in televisione."

E’ interessante notare, poi, che mentre il video si avvia alla conclusione, le immagini diventano sempre più veloci, sovraccaricando la comprensione della bambina. Lei scuote la testa incredula di ciò che vede, allunga la mano e spegne la tv, lanciando un messaggio chiarissimo sulle disfunzioni dell’informazione.

Una clip tanto azzeccata, che agli MTV Video Music Awards, Cult of Personality ha vinto il premio per la migliore performance sul palco, per il miglior artista esordiente e per il miglior video.

L’incredibile appeal della canzone è dovuto essenzialmente a due fattori, dovuti entrambi allo straordinario talento di Vernon Reid, fantasioso e tecnico chitarrista prestato dal jazz al metal: il riff di apertura, che negli Stati Uniti e in Australia è stato utilizzato come sigla di diversi programmi sportivi e pubblicità, e il pirotecnico assolo, che la rivista Guitar’s World ha inserito alla posizione 86 della classifica degli assolo più belli di tutti i tempi.

 


 

 

Blackswan, martedì 08/10/2024

lunedì 7 ottobre 2024

Bella Brown & The Jealous Lovers - Soul Clap (LRK, 2024)

 


Quello di Bella Brown (al secolo Carol Hatchett) è un nome che circola da parecchio tempo nel circuito funky soul di Los Angeles, una musicista apprezzata, anche se lontana dagli echi mediatici dello star system, che ha saputo, nel suo piccolo, dare lustro alla musica nera californiana attraverso collaborazioni e una vivacissima attività live. Negli ultimi 18 mesi circa, Bella Brown e i suoi Jealous Lovers (backing band che ha già collaborato con Stevie Wonder, Elton John, Prince, etc.) si sono fatti un bel nome, grazie a un singolo, Get Mine, uscito nel 2022 per LRK, dopo che era già stato pubblicato, con minori riscontri, nel 2018.  

Dal 2022, il legame di Bella con l'etichetta LRK si è consolidato e dopo quella prima canzone, la collaborazione ha prodotto altri quattro singoli di qualità e dal discreto successo: la sorniona e dolcissima "What Will You Leave Behind", il northern soul scapicollato di "Bang, Bang, Bang”, l'intrigante e orecchiabile “Living Proof” e la sfacciata “Soul Clap”, che dà il titolo a questo full lenght d’esordio.

Queste quattro tracce sono state, poi, inserite del primo album di Bella, nella cui scaletta hanno trovato posto altre cinque canzoni originali e una radio edit di "Soul Clap", brano che apre il disco con otto minuti di funky soul corale e trascinante. Entrambe le versioni, sia quella originale che quella editata, faranno battere i piedi e ciondolare la testa, aprendo le porte a quarantacinque minuti assolutamente goduriosi.

Se le altre tre canzoni "conosciute" non hanno perso nulla del loro fascino funk/soul senza tempo, non sono da meno anche gli altri brani in scaletta: l’intensa "Lady Time" sfoggia un groove intenso impreziosito con un tocco caraibico, “Coming For You” è un pezzo potente che evoca sonorità blaxpoitation, mentre la voce di Bella Brown rappa da autentica califfa, e “I Found You” veste sgargianti abiti vecchia scuola, un completino anni ‘60 spolverato e tirato a lucido.

E se “Fast As Lightning” graffia con le sue unghiate rock, “There Is Love”, è una ballata che accarezza il cuore con il suo andamento agrodolce e classicamente soulful.

Soul Clap è un disco riuscito, molto classico nel suo svolgimento, ma intrigante per scrittura ed esecuzione strumentale (con una band di questo pedigree non era possibile aspettarsi di meno). Si ha, inoltre, la sensazione che Bella Brown si tenga ben lontano da facili compromessi e trucchetti per scalare le classifiche, ma che preferisca semmai concentrarsi sulla musica, lasciare che siano le ottime parti strumentali a farla da padrone, per suggerire un effetto finale da jam, come se stesse registrando dal vivo in uno dei piccoli club che ha calcato nei primi anni di carriera.

Il risultato è un album brillante e decisamente divertente, che permette di utilizzare plausibili accostamenti, che in futuro vedremo se confermati, con Sharon Jones, Tina Turner e con Betty Davis (anche se nello specifico manca un surplus di rabbia). Comunque sia, buona la prima.

Voto: 7

Genere: Funky, Soul, R&B

 


 

Blackswan, lunedì 07/10/2024

giovedì 3 ottobre 2024

Raffaella Fanelli - La Verità Del Freddo (ChiareLettere, 2018)

 


Hanno già ordinato la mia morte…” Maurizio Abbatino parla e racconta quello che ha visto e vissuto in prima persona. Anni di delitti, di vendette, di potere incontrastato su Roma e non solo. Misteri italiani, dal delitto Pecorelli all’omicidio di Aldo Moro, fino alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Protagonista di una stagione di sangue che ha segnato la storia più nera del nostro paese; fondatore e capo, con Franco Giuseppucci, della banda della Magliana, Abbatino è l’ultimo sopravvissuto di un’organizzazione che per anni si è mossa a braccetto con servizi segreti, mafia e massoneria. In queste pagine racconta la genesi della banda, le prime azioni, la conquista della città, gli arresti, le protezioni in carcere e fuori, l’inchiesta avviatasi oltre vent’anni fa a partire dalle sue confessioni. Può considerarsi il prologo di Mafia capitale: “Ritornano dei cognomi, si rivede un metodo… Abbastanza per pensare che le traiettorie del vecchio gruppo criminale non si siano esaurite” ha affermato l’attuale capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone. Nel libro scorre la storia d’Italia vista con gli occhi di un criminale sanguinario che ha fatto arrestare altri criminali sanguinari. Molti di loro sono tornati liberi. Lui no. Aspetta, dice, la sua esecuzione. “Sono tornato dove tutto è cominciato. Perché è qui che deve finire.”

 

Una bella serie tv e un altrettanto bel film hanno reso note le vicende della banda della Magliana al grande pubblico, ammantandole, forse involontariamente, di un’ingiustificata aura di romanticismo. Questo capitolo della più recente Storia italiana, però, di romantico non ha proprio nulla. Sono stati, invece, anni oscuri, grondanti di sangue e pervasi di terrore, le cui esiziali propaggini hanno preso nuova forma e nuova linfa vitale, arrivando fino a noi col nome non meno inquietante di Mafia Capitale (“Ritornano i cognomi, si rivede un metodo…”).

Maurizio Abbatino, detto Crispino o il Freddo, di quella banda fu uno dei boss più spietati, un killer risoluto e sanguinario, che dopo una vita di efferati delitti (“Non so dire quante volte ho ucciso. Ma ricordo i nomi di tutte le mie vittime. La cosa strana è che non riesco a contarle”) ha deciso di collaborare con la giustizia, di fare nomi e cognomi, di raccontare le dinamiche di un sistema lucido, feroce e implacabile, che per decenni ha spadroneggiato su Roma e non solo.

Questa storia, filtrata attraverso lo sguardo disincantato di Abbatino, oggi anziano e malato, viene raccontata in una lunga intervista, che il boss della Magliana ha rilasciato alla brava e coraggiosa Raffaella Fanelli (Repubblica, Panorama, Oggi, etc.), giornalista d’inchiesta che ha reso avvincente come un romanzo duecentosessanta pagine che si leggono tutte d’un fiato, e col fiato sospeso.

Non sono solo episodi noti a chi ha guardato la serie tv o il film (come il rapimento Grazioli o l’uccisione del Libanese, per citarne un paio): La Verità Del Freddo, infatti, scava più nel profondo, cercando di dare un’interpretazione (a volte solo parziale) a molti fatti di cronaca che hanno segnato la storia del nostro paese degli ultimi cinquant’anni, dal rapimento di Moro all’omicidio Pecorelli, dalla sparizione di Emanuela Orlandi all’attentato a Papa Giovanni Paolo II.

Lo scenario tratteggiato dalle dichiarazioni del Freddo è quello di un verminaio senza fondo, in cui delinquenza organizzata e mafia intessono relazioni e alleanze con servizi segreti, istituzioni politiche e religiose, in un intreccio di do ut des, ricatti e connivenze, contro cui i pochi fedeli servitori dello Stato nulla poterono fare, perché osteggiati, depistati e spietatamente assassinati (uno su tutti il giudice Occorsio).

Una storia di sangue, tradimenti e insabbiamenti che arriva fino a Mafia Capitale (la figura di Carminati, uomo nero della Magliana e padre padrone di Roma nei decenni successivi), quando, poco prima dell’inizio del processo, Abbatino viene privato dello speciale regime di protezione per i collaboratori di giustizia, decisione che suona contemporaneamente come avvertimento e minaccia. 

La verità Del Freddo è un viaggio attraverso decenni di storia che aspettano ancora delle risposte definitive, palpitante come un thriller, tragico e inquietante come la deriva di un paese terminale, incapace di fare i conti con il proprio passato, e il cui futuro si prospetta sempre più buio.

Blackswan, giovedì 03/10/2024