mercoledì 20 novembre 2024

Jerry Cantrell - I Want Blood (Autoprodotto, 2024)

 


Faccio subito ammenda e mi scuso con i miei pochi lettori: gli Alice In Chains sono una delle mie band preferite e Jerry Cantrell uno dei miei eroi di giovinezza. Capite, pertanto, che riuscire a parlare di questo I Want Blood (titolo ispirato a If You Want Blood degli Ac/Dc) con la dovuta distanza e obiettività è un affare piuttosto complicato. Già, perché qui mi sono bastate poche note della prima canzone in scaletta, affinchè una lacrimuccia scendesse verso il groppo in gola. Fortunatamente, questo quinto album solista, è dannatamente buono, e lo è anche se ad ascoltarlo fosse un recensore meno fanatico del sottoscritto.

Jerry Cantrell è unico e inimitabile (questo lo capirebbe anche un appassionato di rock alle prime armi), i suoi riff oscuri e vischiosi (eppure al contempo orecchiabili e trascinanti), insieme alla voce dell’indimenticato Layne Staley, hanno segnato la storia del grunge, aggiungendo armature di metallo a una musica già scorbutica e ruvida di suo. Cantrell, però, non è solo un immenso chitarrista, ma sa anche cantare: le sue armonie vocali a fianco del compianto Staley e, più di recente, dell’ottimo William DuVall sono l’altro marchio di fabbrica di un suono che ha fatto scuola.

Qui, però, non stiamo parlando degli Alice In Chains, non è questa la sede per un trattatello di storia, la recensione riguarda Cantrell, che dopo l’ottimo Brighten (2021), un disco decisamente più acustico del suo successore, torna con un album duro, coeso, potente, dimostrando, per l’ennesima volta, di saper cantare, suonare, e scrivere canzoni fantastiche.

L’album si apre con il tempo saltellante di "Vilified", una canzone che è esattamente quello ci si può aspettare da Cantrell: il classico suono Alice In Chains (sembra di aver messo sul piatto un outtake di Dirt!), i riff fangosi, che replicano il movimento di un uomo che annaspa nelle sabbie mobili, il mood oscuro e quella voce inconfondibile, prima spalla di Layne, e ora protagonista assoluta. Non vi viene da piangere per l’emozione? Non vi sudano le mani quando parte "Off The Rails", quando quel riff acuto e vischioso vi intrappola in un loop di ricordi, e quella voce raddoppiata vi riporta all’anno di grazia 1992, il tempo in cui eravamo giovani e pieni di speranza, il tempo in cui la musica degli Alice era la colonna sonora dei nostri giorni, quei giorni in cui, però, la speranza svaniva per lasciar posto al tormento, alla frustrazione, al dolore pungolante di sentirsi diversi e incapaci di comprendere il mondo?

Cosa vi avevo detto, prima? Sapevo che avrei sbroccato, perché nella sei corde del buon Jerry risuonano gli anni più intensi della mia vita. Torno lucido, non temete, perché qui c’è da parlare di una canzone immensa come "Afterglow", che porta con sè un carico di malinconia che vi sgretolerà le spalle: lenta, dolente, arresa, di una bellezza abbacinante, nonostante le tenebre che l’avvolgono, mentre un assolo emozionante come un ricordo dolce che affiora all’improvviso vi spappolerà il cuore.

Gli Alice In Chains, quelli legati a un tempo lontano, sono vivi e vegeti, verrebbe da dire, se non fosse che quando parte la title track, un ringhio in faccia profetico di imminente tragedia, tra le scorie grunge dell’assolo, saltino fuori miasmi stoner, che solo i Kyuss o quella pellaccia di Josh Homme. E quando la polvere della derapata inizia a dissolversi, "Echoes Of Laughter" apre il portone alla ballata. Non una ballata rassicurante, niente che somigli a una carezza o una mano sul velluto: i battiti del cuore rallentano, ma ovunque poggi lo sguardo, tutto è tenebra, malessere, inquietudine, come veder nuovamente Layne Staley sul palco di MTV, non sai se arriva alla fine, ma poi una fragile e ansiogena bellezza prende il sopravvento, e sei dannatamente felice di perderti in quel dolce malessere che chiamiamo malinconia.

L’esplosivo non è finito, ci sono ancora bombe nell’arsenale Cantrell, così quando tuona "Throw Me A Line", una molotov esplode ad altezza visceri, grazie a un riff che più malefico non potrebbe essere, mentre la successiva "Let It Lie" è pura sporcizia, come rotolarsi nel fango di un letamaio, quando la chitarra di Cantrell ci avviluppa, fino a ghermire ogni spiraglio di luce e farci sprofondare, arresi, nel buio cosmico di uno spazio eterno, senza fine. "Held Your Tongue" è l’anticamera dei saluti, più un addio che un arrivederci, con l’ennesimo riff che l’ha giurata ai colori dell’arcobaleno, ma che almeno per questa volta si piega davanti all’urgenza di un ritornello melodico, quasi serico nella sua improvvisa e inaspettata gentilezza. Chiude (perché solo nove canzoni, porca troia!) "It Comes", addio psichedelico, slabbrato, e melodicamente sghembo di un disco che nemmeno i caramba, chiamati dai vicini, a cagione dell’incauto volume delle mie casse, riusciranno a farmi togliere dal lettore per tutto il prossimo mese.

Ecco, è finita. Come vi ho anticipato, non sono riuscito a trattenermi: questa non è una recensione, ma un atto d’amore verso colui che ha riempito il mio cuore, e per sempre lo riempirà, di una strana e plumbea gioia, che ha che vedere con quella strana contorsione dell’anima che Petrarca definiva “voluptas dolendi”. Quindi, prendete con le molle il voto dato al disco, che è un nove, perché il dieci lo si può dare solo a Dirt o Jar Of Flies. Prendetelo con le molle, almeno fino a quando non lo ascolterete e, poi, mi direte se ho esagerato, Dio mi è testimone che non ho mentito, o se anche i vostri vicini hanno chiamato le forze dell’ordine, perché di I Want Blood, anche voi, non riuscite proprio a farne a meno. A volume esagerato.
 
Voto: 9
Genere: Grunge, Metal
 
 

 
 
Blackswan, mercoledì 20/11/2024

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