Quella dei Chameleons potrebbe essere definita come una venerata band di culto, figlia del movimento post punk, genere riletto, però, con un surplus di romantica malinconia, grazie a due album spettacolari, Script Of The Bridge (1983) e What Does Anything Mean? Basically (1985). Poi, dopo un terzo disco (Strange Times del 1986) e la morte del manager Tony Fletcher, lo scioglimento, un lungo iato, un paio di rielaborazioni di vecchio materiale a inizio millennio e, finalmente, il ritorno.
Ventiquattro
anni senza pubblicare un disco sono tantissimi, ed è quasi naturale
che, con tutta l’acqua passata sotto i ponti, la band sia diventata
qualcos’altro. Il suono, infatti, si è evoluto: non siamo più nel regno
del potente e risonante post-punk degli anni '80. L'atmosfera generale
di questo nuovo Artic Moon assume, semmai, una dolcezza
soffusa, intrecciando sfumature soft rock, sottili digressioni
psichedeliche e un raffinato tocco glam. Il tutto declinato attraverso
il consueto mood malinconico e l’utilizzo di quelle chitarre riverberate
che rappresentano, seppur in un contesto diverso, l’elemento più
distintivo della band.
Le fonti di ispirazione per questo nuovo album dichiarate dal cantante e bassista, Mark Burgess, includono David Bowie, Beatles, T-Rex, così non è un caso se uno dei migliori brani in scaletta s’intitoli "David Bowie Takes My Hand", chiaro omaggio al duca bianco, che dopo un inizio acustico che rimanda a "Space Oddity", si sviluppa per otto minuti in cui si intrecciano malinconia e psichedelia, intimismo meditabondo e un lento librarsi nell’immensità del cielo, in un fluttuare di bellezza cosmica. Una canzone da capogiro, diversa da tutto quello che i Chameleons hanno fatto prima, ma probabilmente uno dei brani più intensi della loro storia.
Una
versione ri-registrata di "Where Are You?" (già presente nell’omonimo
EP), è il brano più potente in scaletta, un’affermazione di rinascita
spinta dal ringhio delle chitarre, uno scarto deciso rispetto al
passato, che apre il disco indicando la strada per il futuro. Arctic Moon
è composto da solo sette canzoni (nonostante la durata sia di
quarantacinque minuti), a testimonianza che la band ha scelto con cura
la musica da offrire, evitando ridondanze e riempitivi, e puntando solo
al meglio. La qualità, quindi non manca.
"Lady Strange" dondola sulle chitarre ed esercita un fascino irresistibile nell’alternarsi di chiaro scuri, di rallenti e accelerazioni, la sensuale "Magnolia" avvolge l’ascoltatore nelle sue spire psichedeliche e quando accelera è da urlo, mentre "Free Me" riscrive le regole per comporre la perfetta canzone dream pop.
In
scaletta, poi, ci sono altri due gioiellini: "Feels Like The End Of The
World" è illuminata da superbi arrangiamenti d’archi, e scivola
lentamente verso un finale ipnotico e struggente, da batticuore, mentre
"Saviours Are A Dangerous Thing", singolo e brano che sigilla il disco,
si sviluppa incalzante su cristalline tessiture di chitarra, che
esaltano il cantato cupo e malinconico di Burgess e la consueta melodia
avvincente.
Arctic Moon è un disco vibrante ed emotivamente intenso, trainato dal superbo lavoro alle chitarre di Stephen Rice e Reg Smithies, perfettamente supportati dal drumming essenziale di Todd Demma, dal tappeto cangiante delle tastiere di Danny Ashberry e dal contributo della Real Strings in Manchester di Pete Whitfield, che infonde agli arrangiamenti un autentico calore orchestrale.
Chi si aspettava dai Chameleons una replica del suono glorioso degli anni’80, però, resterà deluso. Questo nuovo esordio non riscrive il passato, ma lo lascia ai libri di storia, creando, invece, una diversa, ma non meno affabulante narrazione, che guarda a una seconda vita artistica.
Voto: 8
Genere: Rock
Blackswan, mercoledì 22/10/2025
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