martedì 25 novembre 2025

Dazed And Confused - Led Zeppelin (Atlantic, 1969)

 


Che i Led Zeppelin siano stati una delle più grandi rock band di tutti i tempi è un dato di fatto. Così come è un dato di fatto che la coppia Plant/Page laddove poteva trarre “ispirazione” dal lavoro altrui non si faceva troppi scrupoli. "Dazed And Confused", ad esempio, è basata su una canzone acustica con lo stesso titolo che Jimmy Page sentì eseguire dal cantante folk Jake Holmes. Quando Page era membro degli Yardbirds, infatti, la band suonò durante la stessa serata con Holmes al Village Theatre di New York, e quando Holmes e la sua band eseguirono il brano, facendo letteralmente impazzire la platea, Page, diciamo così, “prese appunti”, e successivamente mise mano alla canzone “rendendola propria”.

Sebbene la versione di Holmes parlasse di un trip di acidi (quella degli Zep di un amore non corrisposto), la reinterpretazione di Page conteneva molti degli stessi elementi, che hanno poi fatto capolino nella versione dei Led Zeppelin: linea di basso discendente, testi paranoici e un sound generalmente inquietante.

La versione dei Led Zeppelin non fu accreditata a Jake Holmes, poiché Page riteneva che avesse modificato la melodia e aggiunto un testo diverso, sufficiente a evitare una causa per plagio. Inizialmente Holmes fece buon viso a cattivo gioco, limitandosi a dire “Page ha fatto un ottimo lavoro, ma mi ha sicuramente fregato”.

Jake Holmes, un tempo membro di Tim Rose & The Thorns, aveva scritto interi album per Frank Sinatra e per i Four Seasons, ma i suoi due dischi pubblicati nel 1967 sono ora riconosciuti come progetti rivoluzionari. In particolare, il debutto di Jake, The Above Ground Sound Of Jake Holmes, che vedeva Jake alla chitarra acustica, Teddy Irwin alla chitarra elettrica e Rick Randle al basso, conteneva l'originale "Dazed And Confused" che, come detto, Jimmy Page prese in prestito per il debutto dei Led Zeppelin (esattamente come aveva fatto con gli accordi iniziali di "Taurus" degli Spirit, che il chitarrista usò per "Stairway To Heaven").

Sebbene Holmes non intraprese alcuna azione legale all'epoca, contattò più volte Page in merito alla questione, per ottenere spiegazioni e quantomeno un riconoscimento nei crediti della canzone, ricevendo sempre risposta negativa. Molto tempo dopo, nel 2010, finalmente Holmes intentò una causa, sostenendo la violazione del copyright e citando il chitarrista dei Led Zeppelin come coimputato insieme alla sua etichetta dell’epoca. La sentenza favorevole all'organista Matthew Fisher nel caso A Whiter Shade Of Pale (causa promossa contro gli ex compagni Gary Brooker e Keith Reid) aveva creato un precedente secondo cui i diritti d’autore delle canzoni potevano essere contestati nei tribunali britannici anche molti anni dopo il plagio. Holmes raggiunse un accordo extragiudiziale con Page e il caso fu archiviato il 17 gennaio 2012, data dalla quale nei crediti del brano compare la dicitura: "Jimmy Page, Inspired By Jake Holmes".

Nei concerti dal vivo, per eseguirla, Page suonava la chitarra elettrica utilizzando un archetto di violino, sostenendo di aver avuto l'idea da un violinista turnista con cui lavorava, che gliela aveva suggerita (il violinista era il padre dell'attore David McCallum) In realtà, è probabile che l’idea gli venne ascoltando Eddie Phillips, chitarrista della band britannica The Creation, che fu un pioniere nell'uso dell'archetto di violino sulle corde della chitarra, anticipando di ben due anni Page.

Una curiosità. Nel 2014, Ben & Jerry's, multinazionale del gelato, lanciò sul mercato per pochi mesi un nuovo gusto chiamato Hazed & Confused, con esplicito riferimento alla canzone degli Zep. La vaschetta conteneva due diversi tipi di gelato, cioccolato e nocciola, con un cuore di fondente alla nocciola.

 


 

 

Blackswan, martedì 25/11/2025

lunedì 24 novembre 2025

Scardust - Souls (Frontiers, 2025)


 

Formatisi a Tel Aviv, Israele, nel 2015, dopo aver trascorso i due anni precedenti con il nome di Somnia, gli Scardust hanno pubblicato un EP, due album (Sands Of Time del 2017 e Strangers del 2020) e si sono lentamente guadagnati una fetta di notorietà, prima aprendo i concerti di Blind Guardian, Symphony X, Epica e Therion, poi girando in tour per l’Europa come headliner, riuscendo così ad aumentare la propria fan base, ma facendosi anche apprezzare dalla critica, grazie a uno straordinario mix di progressive e metal sinfonico.

Il terzo album in studio, Souls, non solo conferma quanto di buono di era già ascoltato nei precedenti, ma si pone anche come il miglior episodio della loro breve, ma intrigante discografia. Nelle dieci canzoni in scaletta trovano posto tutti gli elementi che ci si aspetta da un album di genere: tecnica mostruosa, cambi tempo, svolte inaspettate, grandi melodie e, ovviamente, anche la potenza del metal, senza che, almeno per gran parte del materiale, ci si perda in inutili quanto ridondanti orpelli. Il suono è dinamico, i ritornelli sono a presa rapida, e i brani mantengono un minutaggio relativamente basso, in modo da mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore.

Il livello di abilità musicale della line up, poi, è ipnotizzante. Ogni membro della band è un maestro nel suo strumento e si percepisce che tutti suonano con il cuore e con un'attenzione certosina ai dettagli dei singoli brani. I delicati svolazzi, il brio e la precisione, la potenza e l'emozione: tutto questo si coglie in ogni singola nota che sgorga da ogni canzone dell'album.

Noa Gruman, poi, con questa performance, entra di diritto nel novero ristretto delle migliori voci metal in circolazione. La sua capacità di catturare l’ascoltatore è qualcosa di raro, per non parlare della sua abilità tecnica che è di livello stellare. La Gruman riesce letteralmente a fare tutto, la sua voce si libra magnificamente, ma è la sua capacità di passare da uno stile all'altro a essere davvero impressionante. Un minuto prima sta cantando note che sembrano quasi impossibili da raggiungere, poi è un sussurro delicato, quindi, un groove soul, passaggi pop orecchiabili, alcune melodie contagiose in stile sinfonico, growl aspri e, per non farsi mancare proprio nulla, si cimenta anche nell’arte complessa dello scat (lo scat che esegue in "Part II - Dance Of Creation" è meraviglioso, il controllo vocale è eccezionale e non si può che rimanerne completamente affascinati.).

E’ tutta la band, però, a girare a mille: il battersita Yoav Weinberg, il chitarrista Gal Gabriel Israel, il tastierista Aaron Friedland e, soprattutto, il bassista Orr Didi, un virtuoso d’altri tempi, che spesso ruba la scena con una personalità impressionante (ascoltate l’assolo in "My Haven"). Souls è, dunque, un album incredibilmente tecnico, ma anche estremamente accessibile.

A partire dall’iniziale "Long Forgotten Song" è soprattutto la melodia a farla da padrone, sia quando la band si cimenta nella ballata emozionante come avviene in "Dazzling Darkness", sia quando spinge su un groove da headbagging come in "RIP", o si gioca la carta del ritornello irresistibile da cantare a squarciagola in "My Haven".

La trilogia "The Touch Of Life" chiude l'album con l’ospitata di Ross Jennings (Haken), presente in "Part I - In Your Eyes" e "Part III - King Of Insanity", e la sua voce aggiunge un'altra dimensione appagante alle canzoni, integrandosi e fondendosi perfettamente con quella della Gruman. Questo finale, tuttavia, è meno riuscito della prima parte dell’album e suona in certi momenti più enfatico e lezioso.

Niente di grave: Souls nel complesso resta un disco fascinoso e accattivante, che seduce a più ascolti, confermando che gli Scardust sono al momento una delle realtà più interessanti nel panorama progressive e symphonic metal.

Voto: 8

Genere: Prog Metal, Symphonic Metal 




Blackswan, lunedì 24/11/2025

giovedì 20 novembre 2025

Brandi Carlile - Returning To Myself (Interscope Records/Lost Highway, 2025)

 


L’ascesa al successo di Brandi Carlile è stata lenta, ma inesorabile. Negli ultimi cinque anni, soprattutto, il suo talento, già evidente in un filotto di album apprezzati da pubblico e critica (l’ultimo, In Thesse Silent Days del 2021 ha ricevuto l’ennesima candidatura ai Grammy) è emerso cristallino da una serie di collaborazioni che ne hanno evidenziato la versatilità. Prima i Soundgarden, poi Alicia Keys, e quindi il contributo decisivo a far tornare sul palco Joni Mitchell, dopo l’aneurisma che aveva colpito la musicista canadese nel 2015. Da quando, poi, è uscita la sua collaborazione con Elton John in Who Bilieves In Angels all'inizio del 2025, la stella di Brandi Carlile non è mai stata così luminosa.

Anni importanti, dunque, in cui la quarantaquattrenne songwriter, originaria dello stato di Washington, ha, come si suol dire, battuto il ferro finchè caldo. Dopo tanti frenetici giri di giostra, Returning to Myself è, però, il suo modo di uscire dall'ombra dei suoi collaboratori famosi, per guardarsi allo specchio e ritrovare se stessa. Una nuova partenza, quindi, dettata dalla volontà di affermare la propria autonomia artistica, di metterci la faccia, come nella copertina del disco, e tornare a raccontarsi, senza filtri, con la consueta onestà ed emotività.

Dave Cobb e Shooter Jennings, produttori dei suoi ultimi due dischi, sono stati sostituiti dalle icone dell'indie rock Aaron Dessner e Justin Vernon, insieme al giovane Andrew Watt che ha lavorato al suo album con Elton. Ne consegue che questo Returning to Myself si spoglia degli abiti del suo passato, anzi, per certi versi, è un taglio netto con tutto quello che è stato prima, e torna a mettere la Carlile, una nuova Carlile, al centro del villaggio.

Da un lato, c’è la consapevolezza di essere l’erede dichiarata di Joni Mitchell e in tal senso la title track che apre il disco profuma Laurel Canyon a miglia di distanza, con quella voce che si prende la scena su una melodia essenziale, riflettendo sulla necessità della solitudine per ritrovare la vera natura delle emozioni ("And returning to myself is such a lonely thing to do But it's the only thing to do").

E che la Mitchell sia qualcosa in più di una semplice fonte d’ispirazione è evidente nella leggerezza folk di Joni, che non è solo un omaggio, ma una sfacciata canzone d’amore alla musicista canadese: “Quando ti dico che ti amo e tu mi dici "Okay", So che mi credi, e questo è amore a modo tuo, La maledizione di una donna selvaggia è che non sopporta gli sciocchi, Non prepara tazze di tè e non fascia gli ego feriti”.

Per converso, però, c’è anche l’affermazione della propria identità, la volontà esplicita di raccontarsi per quello che Brandi è diventata oggi, come donna e come songwriter.  

"Human", scritta con i suoi compagni di band, i gemelli Hanseroth, è il brano più luminoso del disco, una bellissima ballata pop soul che invita ad accettarsi, difetti e debolezze comprese, mentre "A Woman Oversees" dà sfogo a un appassionante e vibrante gospel per raccontare una relazione ormai traballante: “Lei ti raggiunge in profondità come un barattolo di biscotti aperto, E non perché sei interessante, Ma per scavare nel tuo cuore spezzato”.

Ha sempre cantato benissimo, la Carlile, ma in Returning To Myself utilizza un approccio più sobrio, meno estroso. Ascoltate la meraviglia con cui tratteggia su doppio binario il cantato di "Anniversary", una morbida ballata avvolta in un dolce arrangiamento d’archi, o con quale naturalezza accarezza la malinconica melodia di "A War With Time", raccontando di un altro amore che potrebbe essere sul punto di collassare: “Sto vivendo una guerra con il tempo Potrei ancora allungare la mano e toccarti, E vorrei non sapere le cose che so, Sono in piedi su una porta aperta, Niente di tutto ciò è stato sopravvalutato e non vorrò mai lasciarti andare”.

La toccante ode alla genitorialità, "You Without Me", era già presente nel suo album con Elton John, ma la bellezza della canzone e quel suo suono smaccatamente a la Bon Iver la rendono perfetta per il mood introspettivo dell’album, mentre nella conclusiva "A Long Goodbye", con quel sapore vagamente springsteeniano, la Carlile ripercorre la sua vita prima di incontrare sua moglie e conclude: "Ho dovuto solo perdere la strada, per essere trovata da te".

Resta da citare ancora "Church and State", una canzone che attraversa le due metà dell’album come una scheggia impazzita. Se in tutti i brani, i temi cantati dalla songwriter sono personali e sentimentali e il se il mood principale è quello della ballata intima e malinconica, questa canzone fulmina l’ascoltatore come San Paolo sulla via di Damasco: Brandi canta l'orrore della seconda era Trump attraverso una ritmica convulsa (la linnea di basso rocciosa, la batteria martellante), un tiro rock usque ad finem, l’eco dei primi U2, gli occhi iniettati di sangue e la voce rabbiosa che trascinano letteralmente l’ascoltatore verso una deriva quasi noise, che dal vivo potrebbe  trasformare il pit in una bolgia da pogo infernale. Il furore è però mitigato da una vaga speranza, da un ironico e cupo ottimismo: “No, non vivranno per sempre, brucia il domani, non dirlo mai, sono qui oggi, poi se ne saranno andati per sempre. Non dirlo mai, non dirlo mai, non dirlo mai, Troveremo un modo, troveremo un modo, Troveremo un modo, immagina se potessimo”.

E’ questo, dunque, il vertice di un disco in cui la Carlile mostra il lato più malinconico, vulnerabile e oscuro della propria musica, lasciando forse delusi quei fan attratti dal country e dall’americana, generi che in Returning To Myself sono accantonati o rivestono un ruolo marginale. Non so dire se questo sia il miglior capitolo della sua discografia, ma è certo che questa nuova Carlile ha preso una traiettoria coraggiosa e convincente, che la traghetta fuori da facili definizioni e la definisce musicista tout court, senza bisogno di altri aggettivi qualificativi. 

Voto: 8

Genere: Songwriter, Pop, Rock




Blackswan, Giovedì 20/11/2025

martedì 18 novembre 2025

Margo Price - Hard Headed Woman (Loma Vista, 2025)

  

 


"Sono una donna testarda e non ti devo un cazzo / Non mi vergogno / Sono solo quello che sono".

 

Con questa esplicita dichiarazione, che colpisce forte come un pugno al mento, inizia Hard Headed Woman, la nuova fatica di Margo Price, quarantaduenne songwriter originaria dell’Illinois. Parole dure e arrabbiate che non solo la dicono lunga sulla personalità della musicista, ma sono anche il leit motiv che anima le undici canzoni in scaletta.

Dopo due splendidi album, That's How Rumors Get Starded (2020) e Strays (2023), in cui si è allontanata un po' dalle sue radici country, Margo Price si è rimessa gli abiti di novella Loretta Lynn, è tornata a casa, decisa, coltello fa i denti, a riprendersi lo scettro di una delle migliori interpreti femminili del genere.

Una resipiscenza dettata, forse, dal desiderio di imprevedibilità che da sempre la anima, o forse (lei è uno spirito ribelle), dalla voglia di rivalsa nei confronti di quel mondo, maschilista e conservatore, che la musica country rappresenta e nella quale, politicamente parlando, si celano molto spesso i sostenitori dell’odiato Trump. Il ritorno di Margo nella propria confort zone ci vuole probabilmente ricordare che il country un tempo era la patria di icone progressiste come Willie Nelson ed Emmylou Harris, che sfidavano il sistema attraverso il fiero spirito indipendente dei loro testi. In tal senso, la Price vuole ricordare alla gente come dovrebbe suonare la musica country, e vuole ricordare a tutti che il contributo delle donne al country viene ripetutamente trascurato e sottovalutato.

Cosa può fare allora una donna testarda di fronte a tutte queste stronzate? Beh, l'unica risposta di Margo è: non lasciarti abbattere da quei bastardi. Si intitola proprio così il primo singolo tratto dall’album, "Don’t Let The Bastards Get You Down", una canzone che incita alla ribellione contro i soprusi e le ingiustizie della vita, e sprona a guardare dritto negli occhi il bastardo e alzargli il dito medio in faccia. Un brano che sottende, sembra chiaro, anche un significato politico, un brano che altro non è, se non l’urlo arrabbiato di una donna che sa di cosa sta parlando, che è consapevole e pronta a fregarsene di tutto pur di seguire la propria strada, i propri sogni, il proprio indefettibile credo.

E’ con questa consapevolezza che la Price affronta il genere americano più classico alle proprie condizioni, esplicitando la sua coraggiosa presa di posizione facendosi fotografare, in un bella immagine del booklet, mentre è in sella a un cavallo al contrario, la schiena data alla testa dell’animale e al cowboy che ne tiene le redini. Oppure, sovvertendo i tropi del genere. La musica country ha una grande tradizione di canzoni di viaggio, anche se storicamente le liriche hanno sempre parlato di saltare sui treni in corsa o di imboccare l'autostrada e percorrerla verso l’orizzonte. Invece, in "Red Eye Flight", Margo scappa dalla città in aereo, prendendo un posto in economy per andare ovunque la porti il cuore. E il tema della fuga, attraverso il sogno, è centrale anche in "Don't Wake Me Up", in cui la Price sfrutta maggiormente l’influenza di Bob Dylan per esplorare pensieri su dove preferirebbe essere piuttosto che vivere lo squallore del mondo attuale.

Ciò che la songwriter ha sempre fatto così bene è scrivere canzoni che raccontano la sua la sua vita senza filtri, con il cuore esposto e un filo di sano umorismo, e "Losing Streak" è un altro splendido brano che dipinge il quadro più vivido della sua vulnerabilità. La songwriter canta di come cerca di sfondare nella musica, della sensazione di fallimento, dei problemi con l'alcol, del peso della depressione che ha tormentato la sua vita: “Tutti gli spiccioli nelle mie tasche e le toppe sui miei jeans Non compreranno la tristezza che il mondo mi ha regalato, ma venderei la mia anima per scrivere una canzone, per salvarmi da questo viaggio che sto facendo. Perché la pace della mente è difficile da trovare quando vivi una serie di sconfitte”. Da brividi.

Ci sono alcune cover nell'album, tra cui "I Just Don't Give a Damn" di George Jones, che il musicista scrisse alle tre del mattino in preda alla disperazione per il suo divorzio, e che nelle mani di una donna suona come il più grande "fottiti" possibile, e un duetto con Tyler Childers su una canzone scritta dal suo amico Steven Knudsen, "Love Me Like You Used To Do", un momento di dolcezza che sbriciola letteralmente il cuore.  

Dopo "Wild At Heart", che offre una contagiosa dose di nostalgia per i tempi passati, fotografando uno splendido momento di desiderio di giovinezza e libertà cantato con la sfacciataggine di una donna che li ha vissuti, l'album si conclude con "Kissing You Goodbye", altra cover di una canzone scritta da Waylon Jennings e uno dei momenti magici di un album che, pur perdendo l’originalità e la stravaganza dei due capitoli precedenti, ne guadagna in sincerità e passione, ponendo la Price nel novero delle migliori country woman di sempre.

Voto: 7,5

Genere: Country 





Blackswan, martedì 18/11/2025

lunedì 17 novembre 2025

Eurythmics - Here Comes The Rain Again (RCA, 1983)

 


Per comprendere meglio la musica degli Eurythmics, duo composto dalla cantante Annie Lennox e dal polistrumentista Dave Stewart, bisogna accennare brevemente alla loro storia. Entrambi erano membri dei Tourists, band post punk attiva alla fine degli anni ’70, che abbandonarono nel 1980 per collaborare come duo e realizzare una musica che abbracciasse le nuove tendenze elettroniche. I due, che si incontrarono quando Lennox lavorava come cameriera a Sunderland, la città natale di Stewart, intrecciarono una relazione amorosa e vissero insieme per quattro anni, salvo porre fine alla loro relazione sentimentale, proprio poco prima di fondare gli Eurythmics. Scrivere e registrare come ex amanti creava, dunque, un'interessante tensione nelle loro canzoni, sempre pervase da un ambiguo mood malinconico, che era il marchio di fabbrica della scrittura di Stewart.

"Here Comes The Rain Again" è, in tal senso, un brano perfetto, perché possiede un mix di elementi apparentemente confliggenti, come l’accostamento di un si minore a un si naturale, che danno al brano un senso di sospensione. La canzone è triste, sofferta, quasi sconsolata (il testo tratteggia un paragone tra il sentimento di un amore non corrisposto con la pioggia che cade), tanto da risucchiare l’ascoltatore in una spirale discendente, anche se a un certo punto, quel verso “parlami come fanno gli amanti” sembrerebbe ribaltarne il senso. È quasi come vagare dentro e fuori dalla malinconia, avvolti dalla bellezza oscura di una rosa che sboccia mentre intorno il giardino avvizzisce.

Invece del tradizionale schema strofa-ritornello-strofa, "Here Comes The Rain Again" alterna una prima sezione ("Here comes the rain again") a una seconda ("So baby talk to me") con pochissime variazioni, a parte un breve bridge strumentale al centro del brano. Questo crea una sensazione di monotonia, come di pioggia che continua a cadere.

Il brano fu scritto dai due durante un soggiorno al Mayflower Hotel di New York. Stewart era uscito sulla 46esima strada e aveva comprato una delle prime tastiere Casio, lunga circa 50 centimetri con tasti molto piccoli. Era una giornata nuvolosa. Annie era seduta nella stanza d’albergo, mentre il songwriter provava la tastiera suonando brevi accordi malinconici, seduto sul davanzale della finestra.  E mentre Steward continuava a suonare, la Lennox, che guardava fuori dalla finestra il cielo grigio ardesia sopra lo skyline di New York, iniziò a cantare spontaneamente la frase "Here Comes The Rain Again".

La canzone fu, quindi, registrata in una vecchia chiesa trasformata in studio, ma nonostante lo studio non fosse ancora finito, l’etichetta condusse sul posto un’intera orchestra. Così trenta archi hanno dovuto improvvisare suonando nei corridoi e persino nei bagni. Il brano è stato poi mixato unendo l'orchestra ai suoni elettronici creati da un sequencer e da una drum machine.

Il video che accompagna il brano è stato girato nelle isole Orcadi, in Scozia, dove Annie Lennox canta la canzone dentro e intorno a una nave affondata. Per tutto il tempo, vediamo Dave Stewart che la riprende con una videocamera, come se la perseguitasse. "Tutti i video esprimono un mondo interiore che si intreccia tra me e Dave, le nostre tensioni emotive", dichiarò la Lennox alla rivista Q nel 1991.

La canzone fu distribuita come terzo singolo estratto dall’album Touch nel Regno Unito, e come primo singolo negli Stati Uniti, raggiungendo rispettivamente l’ottava piazza delle classifiche britanniche (divenendo così il quinto singolo consecutivo a raggiungere i primi dieci posti) e il quarto posto di Billboard 100.

 


 

 

Blackswan, lunedì 17/11/2025

giovedì 13 novembre 2025

Idlewild - Idlewild (V2 Records, 2025)

 


In un anno segnato da grandi ritorni come il 2025, si affacciano nuovamente sulla scena anche gli scozzesi Idlewild, che non erano certo spariti dalla circolazione come successo ad altre band che hanno scelto di rilanciarsi nei mesi scorsi, ma che comunque non pubblicavano materiale nuovo da Interview Music, album datato 2019.

Quando gli Idlewild si sono presentati per la prima volta al pubblico sulla fine degli anni ’90, erano rumorosi, sfacciati, provocatori e dispensatori di un caos post-hardcore condensato in due minuti. Angoscia adolescenziale repressa o liberazione catartica, chiamatela come volete; ma mentre il millennio volgeva al termine e gli anni scorrevano via come la storia che si dissolve nella pioggia scozzese, una nuova visione scese sui ragazzi di Edimburgo.

L’aggressività iniziale e il tiro incrociato delle chitarre di un rumoroso punk rock ha lasciato il passo a un approccio decisamente più melodico, che seguiva le orme dei Teenage Fanclub e apriva la strada del cambiamento ai Biffy Clyro, in quella che potremmo definire la “variante scozzese”.

Da quel momento, la storia è cambiata, e due dischi, 100 Broken Windows (2000) e The Remote Part (2002) hanno aperto la strada del successo (molto relativo, vista la lontananza della proposta dal mainstream) alla band, il cui suono, basato soprattutto sull'eccellente lavoro chitarristico di Rod Jones (a volte pulsante, a volte croccante, ma sempre melodico), incorporava elementi pop, aperture college rock alla R.E.M. ritornelli innodici e un mood malinconico come le brume di Scozia.

È chiaro che questo periodo è un'epoca a cui guardano con affetto, perché nell'album numero dieci, intitolato in modo significativo a se stessi, la rivisitano ampiamente. Un titolo che è un punto fermo, un affermazione d’orgoglio per quanto fatto e l’abbrivio per una nuova stagione. Recuperare il passato, per poterlo riscrivere. Creare un album con la volontà di giocare sui propri punti di forza avrebbe potuto dare vita a una banale scaletta dal rendimento decrescente. Invece, inaspettatamente, Idlewild è un promemoria fresco e mirato dell'esclusiva miscela di melodie gioiose e della musicalità intelligente e caustica della band.

Il disco inizia con "Stay Out Of Place", un mid tempo che possiede ancora il tiro delle chitarre ruggenti e stridenti di Rod Jones, mentre Roddy Woomble sembra aver perfezionato ulteriormente la propria voce di media estensione. È essenzialmente ciò che ci si aspetterebbe se si chiedesse all'intelligenza artificiale di generare una tipica canzone degli Idlewild, ma quella che avrebbe potuto essere una stanca ripetizione suona invece fresca, sicura e coinvolgente.

"Like I Had Before" fa un ulteriore passo indietro, è un ritorno a casa, lo sguardo nello specchietto retrovisore per vedere se è ancora possibile scrivere momenti di rock entusiasmante.

Il ringhio chitarristico di Jones è presente anche nella frastagliata "Make It Happen", un altro brano caratteristico degli Idlewild, scattante, attraversato da dissonanze venate di punk e caratterizzato da un ritornello semplice ma coinvolgente.

Forse due ballate come "It’s Not The First Time" e "(I Can’t Help) Back Then You Found Me", costruite con grande mestiere, pagano un po’ pegno a intenti radiofonici, ma anche se meno brillanti rispetto al resto della scaletta, non abbassano poi di tanto il livello.

Gli Idlewild del XXI secolo sanno, infatti, scrivere ancora gran belle canzoni come "I Wish I Wrote It Down", che palesa l’amore della band scozzese per i R.E.M., "Permanent Colours", che porta con sé un'energia synth pop gotica, e la splendida conclusione lasciata a "End With Sunrise", forse la versione più moderna degli Idlewild, che trova nella malinconia cinematografica della sua trama melodica il vertice di un disco pienamente riuscito.

Ne è passato di tempo dai giorni di gloria della band, eppure, nonostante qualche disco non completamente centrato, la band scozzese si offre al 2025 con rinnovata energia. Non siamo ai livelli di 100 Broken Windows, ma questa nuova fatica racconta di una band che può vantare un grande passato e, ora, anche un promettente presente fatto di sfumature, di poesia e di melodia, combinate perfettamente con la chitarra incisiva e spigolosa che definisce il suono di questi Idlewild, oggi come allora.

Voto: 7

Genere:  Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 13/11/2025

martedì 11 novembre 2025

Addicted To Love - Robert Palmer (Island, 1985)

 


Sono molte le canzoni che raccontano di un amore così totalizzante da creare dipendenza, così ossessivo da prendere il sopravvento sul processo decisionale del cervello, ma Robert Palmer ha trovato un modo nuovo per esprimerlo nella celebre "Addicted To Love", una hit numero uno negli States e un successo clamoroso anche a livello mondiale.

La canzone, originariamente, avrebbe dovuto parlare di abuso di sostanze, di dipendenza da droghe, alcol o cibo, ma alla fine Palmer ritenne che alleggerendo il tema e parlando d’amore, il brano sarebbe stato più attraente.

L’idea iniziale del musicista inglese era quello di fare di "Addicted To Love" un duetto, e individuò in Chaka Khan la partner ideale. I due si misero al lavoro e in men che non si dica registrarono la canzone; ma quando tutto era pronto per la pubblicazione, l’etichetta della Khan, la Warner Brothers, vietò l’utilizzo della voce della cantante statunitense, e Palmer dovette riregistrarla da capo.

Il brano, come anticipato, ebbe un grande successo, e non solo perché possedeva un tiro irresistibile, ma anche perché fu accompagnato da un video che divenne iconico.

Il clip mostra Palmer che canta di fronte a una "band" di bellissime ragazze che si assomigliano (vestono abiti identici e sono pesantemente truccate) e che fanno finta di suonare. La cosa divertente del video è che le modelle che posano come una band sono state selezionate proprio perché non sapevano suonare alcun strumento, e di conseguenza, ogni ragazza tiene il suo tempo e si muove a un ritmo diverso.

Chi erano le ragazze nel video? Ecco l’elenco: 

 

Julia Bolino (chitarra)

Patty Elias (chitarra)

Kathy Davies (batteria)

Julie Pankhurst (tastiera)

Mak Gilchrist (basso) 

 

La Gilchrist aveva lavorato in diversi spot pubblicitari, la Bolino e la Davies avevano partecipato ad altri video musicali, mentre sia la Pankhurst che l’Elias erano al loro esordio. Tutte ricordano che Palmer si mostrò molto professionale ed educato durante le riprese, anche quando un piccolo “inciampo” avrebbe potuto farlo arrabbiare. La "bassista" Mak Gilchrist, che allora aveva ventun anni, ricorda, infatti, che il regista Terence Donovan, per cercare di rendere l’ambiente più informale e rilassato, le fece ubriacare con del vino, e che lei, annebbiata dai fumi dell’alcol, perse l’equilibrio colpendo Palmer alla nuca con il manico del basso, facendogli così sbattere la faccia contro il microfono.

Il roboante riff di chitarra che apre la canzone giunse a Palmer in sogno. Nel 1988 dichiarò alla rivista Q: "Quel riff rumoroso mi ha svegliato. Sono sceso dal letto, ho preso il registratore, l’ho registrato e sono tornato a letto. La mattina dopo ho pensato: è fatta!”.

E fu così: Palmer, nel 1987, vinse il suo primo Grammy Award nella categoria Migliore Performance Vocale Rock Maschile proprio per "Addicted To Love". Un successo quasi inaspettato, visto che in precedenza la carriera del musicista stentava a decollare.

Palmer, infatti, aveva suonato in diverse band dalla fine degli anni '60 e pubblicò il suo primo album da solista nel 1974. Coprì una vasta gamma di generi, spesso inserendo sonorità caraibiche nella sua musica (viveva alle Bahamas), e ottenne un modesto successo in classifica, in particolare con i brani "Bad Case of Loving You" e "Every Kinda People". Nel 1985, tuttavia, trovò la sua formula vincente quando ricoprì il ruolo di frontman del supergruppo The Power Station, band che lo vedeva a fianco di Andy Taylor e John Taylor dei Duran Duran e di Tony Thompson degli Chic. La band ottenne un grande successo con "Some Like It Hot", un rock esplosivo che utilizzava la giusta dose di aggressività e sensualità. Palmer integrò quel sound nel suo album Riptide, pubblicato più tardi nel 1985, con i risultati che abbiamo appena raccontato.

Una curiosità. Questa fu la prima canzone a entrare nella Hot 100 americana con la parola "addicted" nel titolo e non ce n'è stata un'altra fino a quando i Simple Plan non scalarono le classifiche con una canzone intitolata appunto "Addicted", nel 2003.

 


 

 

Blackswan, martedì 11/11/2025

lunedì 10 novembre 2025

Biffy Clyro - Futique (Warner, 2025)


 

Gli scozzesi Biffy Clyro sono tra le migliori band di rock da stadio in circolazione, di quel genere, cioè, che fa scatenare i fan sotto il palco (e loro, dal vivo, sono una bomba) e che occupa un posto privilegiato nelle scalette delle radio FM. Dopo trent’anni di carriera e dieci album all’attivo, il gruppo capitanato da Simon Neil continua a mantenere una coerenza artistica invidiabile, oltre a un ottimo livello di ispirazione, per quanto, a parere di chi scrive, non si è più ripetuta la magia di Only Revolution, autentico gioiellino datato 2009.

Dopo due buoni dischi come A Celebration Of Endings (2020) e The Myth Of The Happily Ever After (2021), i Biffy Clyro tornano sulle scene con un disco riuscitissimo, decisamente all’altezza dei loro migliori lavori. Alla base di questa nuova produzione, troviamo un’idea di fondo molto stimolante: alcuni dei momenti più importanti della nostra vita diventano tali solo con il senno di poi, generando la nostalgia che sboccia lentamente per un momento dell’esistenza che non abbiamo apprezzato appieno nell’attimo in cui lo abbiamo vissuto, non rendendoci conto che forse stavamo facendo qualcosa per l'ultima volta. Ecco, allora, il titolo Futique, una parola costruita sulla crasi fra futuro e antico.

Sotto il profilo squisitamente musicale, questa nuova fatica del power trio scozzese è un disco che vive d’urgenza, è suonato con il cuore, con il desiderio di restituire in gioia la fedeltà di migliaia di fan, e possiede un suono potente, calibrato, rotondo, che sprizza energia da tutti i pori.

Futique è, inoltre e probabilmente, una delle uscite più snelle e accessibili della band, un album più incline al pop di quanto ci si potrebbe aspettare, e ad eccezione di "Hunting Season" che spinge il piede su un acceleratore punk rock (salvo piazzare poi un ritornello di una solarità irresistibile) e dei riff sinuosi e del basso propulsivo di "Friendshipping" (un po’ prevedibile, ma esaltante), è anche decisamente privo di momenti pesanti.

Ciò non toglie che la scaletta sia confezionata con gusto e intelligenza, regalando grandi momenti di musica, anche quando i muscoli vengono tenuti ben celati sotto la maglietta. Ecco allora la melodia ruffiana di "Shot One" e le ritmiche danzerecce di "Dearest Amygdala", due brani che abbracciano certe sonorità anni ’80, o l’atmosfera cupa e meditabonda di "Woe Is Me, Wow Is You", una canzone che mette in evidenza le doti vocali di Neil e la capacità della band di piazzare, quando meno te l’aspetti, dei refrain irresistibili.

Se in alcuni dischi precedenti l’andamento della scaletta era altalenante, con grandi brani affiancati a episodi meno memorabili, in Futique lo standard resta elevato per tutti i quarantacinque minuti di durata, offrendo anche alcuni picchi vertiginosi. Così, se tenendo fede al concept che sta alla base dell’album, molti momenti della nostra vita, così come i brani musicali che ascoltiamo, acquistano significato solo se ripensati attraverso una nuova prospettiva, è altrettanto vero che sappiamo fin da subito quali sono i momenti speciali, così come quelle canzoni che passeranno dal nostro stereo ancora, ancora e ancora.

"A Little Love" e "True Believer", a esempio, sono entrambe delle hit assolute, vantano dei ritornelli enormi e godono di un energico lavoro di batteria di Ben Johnson (che è al massimo della forma per tutto il disco), mentre "Goodbye" è una struggente ballata radiofonica, zuccherina al punto giusto da evocare infiniti paesaggi malinconici.

Il trio riserva il meglio per la fine, con la fenomenale traccia conclusiva "Two People In Love", un brano meno accessibile degli altri, che sembra nato da una coraggiosa visione progressive: sei minuti in cui la splendida melodia di pianoforte si intreccia con una ritmica convulsa, il paesaggio sonoro celestiale che accompagna il ritornello innalza verso l’immensità del cielo e un outro esteso trasporta il brano verso un’incalzante deriva epica.

Futique è un disco godibile dall’inizio alla fine, attraverso il quale i Biffy Clyro offrono il meglio del loro arsenale, garantendo ai propri fan il miglior livello possibile d’ispirazione ed elargendo con generosità irresistibili melodie, capaci di farsi ricordare ben oltre l’ascolto dell’album. Impossibile, tanto per richiamare il tema che ha ispirato il disco, quando lo ascolteremo per l’ultima volta, ma di certo, visto l’ottimo risultato raggiunto, lo ascolteremo ancora per un bel po’.

Voto: 8

Genere: Rock, Pop 




Blackswan, lunedì 10/11/2025

giovedì 6 novembre 2025

Lathe Of Heaven - Aurora (Sacred Bones Records, 2025)

 


Che il post punk e le sue derivazioni dark wave abbiano trovato negli ultimi anni terreno fertile per un impetuoso revival è un dato di fatto. Le band che tornano a rimasticare le sonorità che andavano per la maggiore negli anni ’80 crescono come funghi: alcune con l’intento di interpretare quel suono in chiave moderna, plasmandolo per renderlo alternativo e appetibile a un pubblico più giovane, altre, invece, spinte da intenti evidentemente nostalgici, riprendendolo sic et simpliciter, e accompagnandolo con l’inevitabile citazione dei tanti eroi che resero leggendaria quell’epoca lontana.

In questa seconda schiera di artisti, possono essere annoverati i newyorkesi Lathe Of Heaven, che giunti con Aurora al loro secondo album, continuano in un viaggio immersivo negli anni ’80, replicandone tutte le caratteristiche: accordi prevalentemente in minore, tappeti di synth carichi di melodie malinconiche, il basso pulsante come architrave, chitarre stridenti, un suono carico di eco, un tocco di batteria elettronica, furiose cavalcate accese da urgenza punk.

Le canzoni create dalla band capitanata da Gage Allison non sono solo un recupero nostalgico, ma coinvolgono completamente i sensi dell’ascoltatore, creando la sensazione di essere fisicamente presenti in quella magica decade. Chi ha vissuto in prima persona quegli anni, tornerà ragazzo, c’è da scommetterci, e si ricorderà la propria collezione di dischi dell’epoca, composta dai capolavori di Cure, Echo & The Bunnymen, Killing Joke, Psychedelic Furs, Sister of Mercy, etc.

Alla base di Aurora, però, non c’è l’ombra di copia incolla: a fronte di un pregevole lavoro di recupero filologico, ci sono anche grandi canzoni, e se il mood resta quello crepuscolare del genere, le melodie, soprattutto nella prima metà, sono esplosive e pop, tanto da rivestire l’album di una glassa zuccherina che lo rende tanto contagioso quanto suggestivo. In tal senso, Aurora è un disco dark wave orecchiabile e raffinato, che sceglie anche una strada contigua al lo-fi, soprattutto nella seconda parte, risultando al contempo traboccante di languori malinconici e ritornelli uncinanti. 

L’iniziale "Exodus" indica in modo evidente le intenzioni dei Lathe of Heaven, mentre synth levitanti, percussioni galoppanti e ritornelli svettanti preparano la scena per ciò che verrà. La successiva "Aurora" è di una bellezza che toglie il fiato, e grazie all’irresistibile melodia del ritornello e alla voce di Allison che ricorda molto quella di Richard Butler sembra un outtakes da Mirror Moves dei Psychedelic Furs. Uno degli apici del disco e, probabilmente il momento più struggente e romantico: "La poesia della perdita, non pronunciata sulle tue labbra, sapendo che sei ancora lì, quando non c'è più niente, Perso in pura devozione, tracciando il paradiso che giace accanto a te".

Sotto il profilo delle liriche (i testi sono presenti nel booklet del cd), la scelta delle parole di Allison è ricercata e poetica, raggiungendo a tratti vertici inaspettati per una rock band. Così quando in "Just Beyond the Reach of Light" canta di essere trafitto dal potere dell'amore, sopra una valanga di tamburi fragorosi al rallentatore ("Sono intrappolato nella sua carezza, un'eclissi misericordiosa, Per farmi sentire vivo ancora una volta”), una lacrimuccia di inesplicabile felicità, complice anche lo splendido impianto melodico, inevitabilmente riga il volto.  

Se "Portrait Of A Scorched- Earth" (dedicata al genocidio di Gaza) è un tirata rabbiosa che ricorda certe cose dei primi Cure, evocati anche nella sottile lucentezza e nella ritmica incalzante di "Oblivion", "Kaleidoscope" chiude la prima parte dell’album con quel mood triste – allegro, che ti fa girare vertiginosamente la testa, in un connubio stranissimo di estasi e lacrime.  

La seconda metà di Aurora si orienta, invece, verso un sound più punk, che spinge forte il piede sull’acceleratore di "Matrix Of Control" o si lascia trascinare dai tamburi battenti e le chitarre graffianti di "Catatonia", due brani che accantonano le belle melodie per mordere selvagge alla gola. "Infinity's Kiss" ribadisce l’essenza di questa seconda parte del disco, in cui le raffinate inclinazioni melodiche e i synth fiorenti si mettono al servizio di un tiro più livido e crudo.

Un cambiamento di dinamica quasi stridente rispetto al lato A, che offre, tuttavia, maggior varietà alla proposta, accontentando anche quegli ascoltatori più inclini verso un suono pesante, che richiama alla mente Killing Joke e Bauhaus.

Chiudono il disco altre due belle sberle in faccia ("Automation Bias" e "Rorschach"), cantate da Allison petto in fuori e muscoli in bella mostra, suggellando una prova di altissimo livello, che esplora i vari volti della dark wave ottantiana attraverso una consapevolezza unica.

Se questo è il genere che più amate fin da quando eravate ragazzi, se il disco dei Cure dello scorso anno continua a girare nei vostri lettori con inarrivabile soddisfazione, date allora una chance ai Lathe Of Heaven e ad Aurora: scommetto che sarà il vostro disco del 2025.

Voto: 8

Gnere: Post Punk

 


 

 

Blackswan, giovedì 06/11/2025

martedì 4 novembre 2025

The Apartments - That's What The Music Is For (Talitres, 2025)


 

Peter Milton Walsh è uno dei più grandi songwriter in circolazione, eppure i suoi Apartments, un progetto musicale che nel 2025 compie quarant’anni di attività, vive dell’amore incondizionato solo di una piccola nicchia di ascoltatori. Underrated, direbbero gli anglosassoni, cioè sottovalutato. I motivi sono vari e sovrapponibili: Walsh ha sempre mantenuto il basso profilo dell’outsider e la sua musica, così colta, raffinata e umbratile, è destinata a un pubblico che vive costantemente con l’autunno nel cuore alla ricerca della voluptas dolendi, del desiderio di vivere il proprio dolore, filtrandolo atraverso gli occhi di una malinconia agrodolce.

Nativo di Sydney e cresciuto a Brisbane, Peter Milton Walsh esercita la sua professione di cantautore dal 1978, da quando cioè, ha militato, per un paio d’anni, nei Go-Betweens, gruppo iconico del movimento indie rock australiano. Un recinto evidentemente troppo stretto per chi aveva già in testa gli Apartments, una sorta di progetto solista intorno al quale hanno ruotato nel tempo la bellezza di diciotto diversi musicisti.

Walsh e la sua creatura da sempre suonano una musica d’atmosfera per ascoltatori malinconici, filtrata dallo sguardo consapevole di un dandy che ha perso tutto e riflette sugli struggimenti esistenziali, guardando il mondo alla luce del crepuscolo, sorseggiando un bicchiere di scotch. Questa è musica per chi è in credito nei confronti della vita, per chi ha rimpianti che non riesce ad accettare o lutti che non riesce ad elaborare. Le canzoni degli Apartments sono canzoni da notte fonda, vissuta in compagnia dei propri fantasmi, sono canzoni che profumano di foglie calpestate mentre si cammina da soli nella nebbia, canzoni per chi guarda la grigia risacca del mare in inverno, il cuore in tumulto come le onde livide che si schiantano sulla marina.

Musica per gente persa e per perdenti, per chi sceglie la solitudine di una panchina sotto la pioggia. Per espiare le proprie colpe, per ripensare a ciò che non è stato e non sarà, per cercare nelle tessiture melodiche di Walsh quella pace interiore, a cui altrimenti non arriverà mai.

Sono solo otto le canzoni di questo nuovo That’s What The Music Is For, un titolo bellissimo, che lascia spazio a ogni possibile interpretazione. A cosa serve la musica? A cosa servono queste otto canzoni avviluppate nella malinconia dell’autunno?

Ognuno di questi brani è una triste elegia che parla di relazioni finite o destinate a finire. Sono canzoni che abitano i luoghi oscuri della mente e dell’anima, laddove si raggrumano mestizia, lucida comprensione, ma anche rimpianti, amarezza, delusione e rammarico.

Non è un caso che l’iniziale "It’s A Casino Life" tra note di piano sgocciolate e un mesto drive di chitarra acustica si apra con i versi “Close My Eyes..And You’ll Come Back”, fotografando la tristezza di desideri irrealizzabili, ma anche il risentimento per una sconfitta tanto amorosa quanto personale, racchiusa in liriche che non lascino spazio all’happy ending: “Sei sempre stata la mia causa persa preferita”.

Lo schema si ripete in "Afternoons" ("Ho amato il mondo che è venuto con te") e in "A Handful Of Tomorrow" ("Ti ho amato mentre la musica suonava"): sempre la stessa atmosfera musicale malinconica e dolorosa, lenta e prolungata, come un sogno da cui il cantante fatica a svegliarsi. Un pianoforte dolce, una chitarra, una fremente angoscia lirica.

Sottili variazioni tonali emergono con gli ascolti. La bella voce di Natasha Perot porta grazia nel duetto di "Afternoons", la batteria di Nick Kennedy è più marcata in "A Handful Of Tomorrow", così come la voce di Walsh è segnata da un’amarezza senza fine, mentre "Another Sun Gone Down" è attraversata dalla tromba accorata di Jeff Crawley. Sono particolari, dettagli cesellati che richiedono svariati ascolti per capirne la portata e essere apprezzati in pieno.

Walsh scandisce le liriche con la sua voce unica, che pronuncia ogni parola come se fosse una lacrima da assaporare. Accade soprattutto nella title track in cui il songwriter immagina di fermare il passare del tempo attraverso le proprie canzoni: "Di nuovo novembre, è tempo di arrendersi al buio", canta, "Riporta indietro i giorni in cui eri presente, È a questo che serve la musica."

C’è un pungolo di macabra ironia che segna "Death Would Me My Best Career Move", un brano attraverso il quale Walsh riflette sulla propria carriera. Nonostante la qualità stellare del suo songwriting, il musicista australiano ha avuto scarso successo commerciale nei suoi quasi cinquant'anni di attività. È inquietante, dunque, sentirlo suggerire che "la morte sarebbe la mossa migliore per la mia carriera". E’ però la lucida visione di un destino artistico che spesso riserva il successo e l’attenzione meritata, solo dopo il decesso. Quante volte è capitato? A quanti straordinari musicisti?

Walsh si guarda dentro, cerca nell’intimità dei sentimenti più inaccessibili il senso della propria scrittura, ma è anche un artista che ha chiare idee politiche, attraverso le quali giudica il mondo che lo circonda. “Stasera, posso scrivere i versi più tristi, So che sembra difficile trovare la speranza. Potresti lasciare questo paese. Sei sicuro di doverlo fare? Resteresti a lottare per qualcosa di buono?” canta Walsh all'inizio di "The American Resistance", che altro non è se non un'altra storia d'amore fallita, quella tra cittadino e patria: "L'America è caduta ora, La resistenza sorge in ogni città". Militante e battagliero, a modo suo.

La disillusione trova il suo culmine nell'epica e cupa canzone di sei minuti "You Know We’re Not Supposed To Feel This Way", che chiude il disco. "Lei dice che non lo sopporto, lo sopporto comunque, altrimenti non potrei andare avanti", canta Walsh. E’ questo dunque il senso della musica, l'arte che ha il potere di lenire il dolore, di cristallizzare sentimenti rendendoli universali, e di spingerci ad andare avanti, nonostante tutto. Tenendo in vita, forse, quei grandi amori che se ne sono perduti per sempre: "Se canto questa canzone forse non scomparirai", e ancora "Ne ho viste così tante andare e venire, La musica resta, il cantante se ne va" recita Walsh, anche se il protagonista sa bene nel profondo dell’anima che sta combattendo una battaglia persa. Nessuno tornerà mai. Eppure lo deve fare. Perché l’arte e, nello specifico, la musica, non solo rendono la vita migliore, ma hanno anche il potere di consegnare un piccolo frammento del nostro cuore all’eterno.

"Sei lì nelle canzoni che lascerò dietro di me?"

Voto: 9

Genere: Songwriter, Pop

 


 


Blackswan, marttedì 04/11/2025

lunedì 3 novembre 2025

The Standells - Ditry Water (Tower, 1965)


 

Il titolo "Dirty Water", hit degli Standells datata 1965, si riferisce al notoriamente inquinato Charles River di Boston, che, ai tempi, era diventato un ricettacolo di rifiuti industriali. La canzone, tuttavia, suona come una celebrazione di Boston, e non contiene alcun monito o riflessione ecologica.

"Amo quell'acqua sporca

Boston, sei casa mia"

Un omaggio alla città, dunque, la cui sporcizia è un elemento distintivo ma anche un connotato affettivo: sarà anche sporca, ma è casa mia e la amo comunque. Questo il succo. 

La canzone, nel corso degli anni, è diventata un inno di Boston e un motivo di orgoglio per la città, e ciò nonostante sia stata scritta ed eseguita da ragazzi californiani, che di Boston conoscevano poco o niente.

Gli Standells, infatti, erano una garage band di Los Angeles e "Dirty Water" è considerato un super classico del genere. Per chi non mastica troppo la materia, il garage rock (nome che deriva dall’abitudine di musicisti amatoriali di suonare nei garage di casa) fu in voga tra la fine degli anni '50 e l’inizio anni '60 e annoverò fra le sue fila band seminali come The Wailers, The Kingsmen, The Trashmen e, appunto, The Standells (recentemente il genere è stato riportato in auge da gruppi come The Strokes, The White Stripes, The Von Bondies e The Detroit Cobras, solo per citarne alcune). 

La canzone fu composta dal produttore degli Standells, Ed Cobb, un altro californiano che un tempo faceva parte dei Four Preps e che è passato alla storia per aver scritto anche la celebre "Tainted Love", registrata originariamente dalla cantante soul Gloria Jones nel 1964, ma che divenne un successo clamoroso grazie ai Soft Cell di Mark Almond, nel 1981.

Cobb scrisse "Dirty Water" durante una visita a Boston che finì male. "Ero con una ragazza", disse alla rivista Blitz. "Due tizi hanno cercato di aggredirci, ma sono scappati. Così, quando sono tornato in hotel, ho scritto la canzone". Un po’ come se un musicista palermitano celebrasse Milano decantando le acque del Lambro (che, fortunatamente, così sporco non è), dopo aver subito una tentata rapina.

Quindi, ricapitolando: il fiume è sporco, il brano nasce da un’aggressione avvenuta nelle strade di Boston, il protagonista è circondato da rapinatori e ladri (“muggers and thieves”), fa fatica a rimorchiare perché le ragazze non possono uscire di casa (il verso "Frustrated women have to be in by 12 o'clock" si riferisce al coprifuoco osservato all'epoca dalle studentesse della Boston University), mentre sulla città aleggia ancora l’incubo dello strangolatore (“have you heard about the strangler?”, con riferimento a Albert DeSalvo, serial killer arrestato nel 1964). Ciò nonostante, il ragazzo della canzone è felice di vivere in questa squallida città. Beato lui.

"Dirty Water" fu pubblicata per la prima volta alla fine del 1965 dall'etichetta Tower, una sussidiaria della Capitol Records, e il brano debuttò il 30 aprile 1966 nelle classifiche Cash Box, raggiungendo l'ottavo posto. Conquistò, poi, l’undicesima piazza anche nella classifica dei singoli di Billboard, l'11 giugno dello stesso anno.

Un grande successo per una band che fino ad allora si era sempre posizionata nelle parti bassissime della charts statunitensi, che fu replicato anni dopo, quando la canzone venne adottata dalle squadre sportive professionistiche di Boston. La squadra di baseball dei Boston Red Sox fu la prima a utilizzarla, suonandola dopo le vittorie casalinghe del 1997. Seguirono l'esempio anche la squadra di basket dei Celtics e la squadra di hockey dei Bruins, rendendola la canzone più associata allo sport di Boston e, di conseguenza, alla città nel suo complesso. Queste squadre divennero molto forti negli anni tra il 2000 e il 2010, vincendo i campionati a mani basse, il che contribuì a far crescere ulteriormente l'entusiasmo per "Dirty Water".

Una nota di colore. Gli Standells, all’apice del successo, fecero apparizioni in film di serie B degli anni '60 come Get Yourself a College Girl e Riot on Sunset Strip. Il top, però, lo raggiunsero per essere apparsi nella seguitissima serie TV I mostri, episodio n. 26 intitolato "I mostri più strani!" (serie tv passata anche da noi, una prima volta, negli anni ’70, e poi, anche nel decennio successivo). In quell'episodio, gli Standells interpretano se stessi e offrono alla famiglia Munster una bella somma per usare la loro casa come studio di registrazione per una settimana. La famiglia Munster accetta e va ad alloggiare in un hotel, ma la nostalgia per la loro abitazione li fa rientrare a casa prima del previsto, solo per scoprire che gli Standells stanno organizzando uno scatenatissimo party.

 


 

 

Blackswan, lunedì 03/11/2025