mercoledì 4 aprile 2012

THE EXCITEMENTS – THE EXCITEMENTS


Se mettessi nel lettore il cd degli Excitements senza dirvi nulla e poi vi chiedessi di collocarlo geograficamente e cronologicamente, anche l’ascoltatore più distratto citerebbe gli Stati Uniti, un quartiere metropolitano ad alta densità di popolazione nera e gli anni ’60. Invece questo, udite udite, è il disco d’esordio di un gruppo catalano di Barcellona, e peraltro è uscito solo qualche mese fa. Il fatto è che la band in questione ( due chitarre, due sax, basso, batteria e piano ), capitanata dalla cantante di origine mozambichiane,  Koko Jean Davis, vive in un altro tempo, se ne fotte delle mode e ama follemente il vintage r’n’b e soul. L’album è infatti composto da dodici cover ripescate dall’oblio, e quindi assolutamente sconosciute, che sembrano rubate dal repertorio di uno a caso fra Tina Turner ( ai tempi in cui girava con Ike ), James Brown, Etta James o Otis Redding, e che suonano esattamente come suonavano cinquantanni fa. Perché il sound degli Excitements è ortodossia pura : nessun leziosismo pop (che imperversa nei dischi delle Adele e Duffy di turno ) e nessun accenno di modernità ( come ci aveva invece insegnato la grande Amy ), salvo forse per qualche chitarrina dal retrogusto garage, che ricorda vagamente Black Joe Lewis e la sua intepretazione, un po’ sopra le righe, del r’n’b. Ed è proprio questo il merito del combo spagnolo : approciarsi filologicamente a un’epoca, dichiarare amore imperituro al genere e far rivivere una musica concentrandosi sui contenuti invece che sulle forme. Niente glamour, insomma, ma tanto sentimento. Così, i trentacinque minuti del disco filano via divertenti e velocissimi, senza un intoppo, una battuta d’arresto o un momento che non sia deliziosamente retrò. Grazie soprattutto a un gruppo di musicisti affiatatissimo e alla voce stre-pi-to-sa della Davis, una che, ve lo assicuro, avrebbe fatto la sua porca figura anche ai tempi d’oro della Stax. “ The Excitements “ non solo è il classico cd da festa, di quelli che creano atmosfera e che dopo poche note riempiono il dancefloor, ma è, in senso assoluto, una bomba energetica che ritempra spirito e corpo. Per chi ama il genere, perderlo sarebbe un delitto.
 
 
 
 
VOTO : 7,5

martedì 3 aprile 2012

MA L'ARTE DI CHI E' ?

Killers,
molti di voi sono stati in Grecia, suppongo, ed in Inghilterra.
Saprete quindi che all'Acropoli di Atene c'è un museo in cui è conservata buona parte del materiale che un tempo decorava i templi dell'Acropoli.
Di quello che non è lì, il grosso è a Londra al British Museum.
Nel secolo 19° Lord Elgin, ambasciatore inglese a Costantinopoli (l'Inghilterra appoggiava l'Impero Ottomano in funzione antifrancese) si reca ad Atene (la Grecia era un protettorato turco) ed asporta l'ira di dio dall'Acropoli ed in particolare dal Partenone.
Rivende il tutto a svariati musei in Inghilterra, Francia e Germania.
Dal British Museum si fa dare la bellezza di 35000 sterline d'oro.
Da allora, i fregi del Partenone sono a Londra, ben conservati e visitabili gratuitamente.
Ora la Grecia li richiede indietro, e nel mondo si va formando una corrente d'opinione, anche anglosassone, secondo cui sarebbe giusto ridarli alla Grecia e sarebbe anche opportuno, dato il momentaccio che il paese sta attraversando.
Voi come la vedete?
Un'opera d'arte appartiene per sempre ed inderogabilmente al paese in cui è stata creata, o è legittima anche la pretesa di chi, pur essendosene appropriato abusivamente, se ne è poi curato per molti decenni, senza chiedere corrispettivi ma anzi spendendoci del suo?
I fregi del Partenone li vedete bene solo sotto il cielo azzurro della Grecia o vi piacciono anche sotto le fotocellule di un museo londinese?
Attenzione, qui non stiamo parlando di un quadro o di una scultura singola.
Le migliaia di quadri del rinascimento italiano collocate in giro per il mondo diffondono a mio parere la nostra arte tanto quanto se si trovassero nel nostro paese.
Ma qui si parla di pietre che incorporano in sè la storia di un popolo, ed il senso e le radici di una cultura che in quelle terre ha avuto origine per poi diffondersi ovunque.
Dove devono stare quindi, secondo voi, i fregi del Partenone e le opere d'arte in generale?

SPY ROCK A BOLLATE : IL CARTA VETRATA


Il Carta Vetrata poco prima della demolizione
Bollate, centro urbano collocato a nord ovest di Milano, è la classica cittadina dormitorio, senza particolari attrattive ( se si eccettua un noto mercatino dell’antiquariato ), ma tutto sommato ancora a misura d’uomo. Nonostante l’anonima vita di provincia sia talvolta scossa da qualche fatterello di sangue ( nulla al confronto delle limitrofe Quarto Oggiaro e Baranzate ) e l’architettura del luogo ( un pasticcio mal riuscito fra un paesone degli anni ‘70 e una periferia da cementificio selvaggio ) non induca al buon umore,  Bollate ha stranamente dalla sua una consolidata tradizione musicale. Appena fuori dalla cerchia cittadina,  nel borgo medievale di Castellazzo,  si svolge uno dei festival musicali più noti d’Italia, Il Festival di Villa Arconati , sul cui palco sono passati artisti del calibro di Paul Weller, Morrissey, Gogol Bordello, Damien Rice e Tinariwen, per citarne solo alcuni. Ma Bollate, agli inizi degli anni ’70, è anche stata la sede del Carta Vetrata, storico rock pub nel quale hanno suonato alcuni dei maggiori gruppi italiani ( e stranieri ) dell’epoca. Chi ha avuto modo di vedere il discusso film di Marco Tullio Giordana, Romanzo Di Una Strage, conoscerà per grandi linee la storia che sottende alla nascita della discoteca, visto che se parla con una certa insistenza durante le sequenze iniziali della pellicola. 

Il locale da un'altra prospettiva
Il locale nasce da un’idea di Enrico Rovelli ( poi anche fondatore del Rolling Stones di Milano ) che oltre ad essere un giovane con una grande passione per la musica, nel 1969 era molto attivo politicamente, dal momento che bazzicava gli ambienti anarchici milanesi e in particolare il circolo della Ghisolfa, a cui faceva capo la figura del povero Pino Pinelli. Senza entrare nel merito di una ricostruzione storica assai farraginosa e molto controversa, è lo stesso Rovelli ( che come informatore prese il nome in codice di Anna Bolena )  a sostenere di essere stato ricattato prima dal commissario Calabresi e in seguito dai Servizi Segreti, che pretendevano delazioni sulle sue frequentazioni politiche in cambio del rinnovo periodico della licenza per il locale. Sulle natura delle informazioni passate dal Rovelli alle forze dell’ordine si possono fare solo delle ipotesi ( vedi anche il flm poc’anzi citato ), ma certamente dovevano essere state tali da consentirgli una florida gestione del locale per parecchi anni. Nonostante mi sia prodigato in ricerche sul web, le notizie a proposito del Carta Vetrata sono pochissime e frammentarie, ed è stato impossibile rinvenire foto dell’epoca ( le immagini che ho trovato sono tutte recentissime e risalgono ai mesi immediatamente precedenti alla demolizione dello stabile, sede della discoteca ).

Da quel poco che sono riuscito a mettere insieme, il locale per qualche anno fu il classico ritrovo di tendenza per i giovani rockers milanesi, dal momento che non solo sul suo palco fecero la gavetta alcuni dei più grandi gruppi e artisti italiani degli anni ’70 ( PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Lucio Dalla, Antonello Venditti ), ma si esibirono anche stelle di prima grandezza dello star system internazionale ( ho trovato un riferimento certo a un live act dei Van Der Graaf Generator tenutosi il 1 giugno 1973, mentre sembrano assolutamente privi di fondamento  quelli relativi a un concerto dei Genesis e a uno dei Deep Purple ). 

Ultima annotazione di colore : nel 1996 è uscito uno spettacolare cofanetto della PFM, intitolato 10 Anni Live 1971 – 1981, contenente quattro cd che testimoniano di quattro diversi tour intrapresi dal gruppo nel decennio  a cui si riferisce il titolo. Il primo cd è relativo al tour italiano tenutosi fra il 1971 e il 1972 e contiene parecchi brani suonati proprio al mitico Carta Vetrata ( ci sono anche una Bollate Guitar Jam e una Bollate Keyboard Jam ). Da quel che mi sembra di capire, ma non ho alcuna certezza in merito, la discoteca cessò la propria attività più o meno nel 1981, quando l’attenzione di Rovelli si concentrò tutta sull’allora nascente Rolling Stones.
Aggiungo questo video ( ma è solo un file musicale ) n cui la PFM si esibisce al Carta Vetrata con una versione, a dire il vero non imperdibile, di My God dei Jethro Tull.




Blackswan, martedì 03/04/2012

lunedì 2 aprile 2012

TUTTI IMPRENDITORI !

Più o meno, l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è andato.
E' passata la tesi secondo cui il mercato del lavoro in Italia è stagnante perchè è troppo difficile licenziare.
All'estero questa nostra riforma sembra riscuotere consensi e di questo dovremo pur prendere atto.
Il tempo dirà se arriveranno dall'estero anche gli investimenti, oltre alle lodi, ed ho la sensazione che le due cose non vadano così di pari passo.
Leggo ad esempio che Ikea, dopo sei anni di tentativi, ha abbandonato l'idea di costruire un nuovo stabilimento nella zona di Prato.
Leggo anche che British Gas, dopo undici anni di tira e molla, non riesce a realizzare un rigassificatore a Brindisi e pensa di trasferire altrove il progetto.
In entrambi i casi, chi rema contro sono le rispettive Provincie, vale a dire enti locali che tutti (a destra come a sinistra) si erano detti intenzionati a sopprimere ma che invece proliferano, Lodi, Lecco, Monza Brianza e la fantastica Cusio Verbano Ossola, per parlare solo della Lombardia.
Però il problema sembra essere l'art. 18 e ne prendo atto, sarò io che non capisco mai niente, pazienza.
Sul Corriere di settimana scorsa leggevo una lettera aperta a firma congiunta Roberto Maroni e Maurizio Sacconi, ex ministri del lavoro, i quali esordiscono rimestando la solita trita e ritrita stupidaggine secondo cui il povero Marco Biagi è morto "anche" perchè il suo Libro Bianco sul lavoro fu troppo duramente osteggiato dalla sinistra e dai sindacati, come a dire che chi non era d'accordo con lui non è che gli abbia proprio sparato ma insomma....
Ma è micidiale la chiusura della lettera: "Abbiamo, come comunità, già pagato molto in termini di vite spezzate e di prezioso tempo perduto. Gli imprenditori, soprattutto piccoli e medio-piccoli, e i lavoratori condividono oggi la terribile insicurezza del reddito e di una stessa vita attiva. A essi la politica, la buona politica, dovrà saper offrire con la sobrietà delle decisioni e la lucidità della visione che le ispira quella speranza che mobilita la responsabilità di ciascuno".
E' ovviamente un cumulo di merda, e non avevo dubbi dati gli estensori, ma qualcosa di vero c'è.
Ormai, si suicidano in pari misura dipendenti ed imprenditori, davanti alle Camere del Lavoro, o alle sedi di Equitalia o alle banche che non aumentano un fido o revocano un castelletto.
Marchionne, che come sempre è il più svergognato, va oltre e pontifica che i diritti sono importanti, ma che a forza di volere diritti sempre crescenti si rischia di morirci, sotto ai diritti.
Dice che lui ai suoi dipendenti consiglia sempre di non avere certezze e di rimettersi continuamente in gioco (stay hungry, stay foolish, ricordate Steve Jobs?), e dice che è ora di rendersi conto che la vita non è solo avere, e che per avere (diritti ed altro) bisogna anche dare.
Dare che cosa, e a chi, non si sa.
Da tutto questo emerge un quadro inequivocabile: secondo questa gente non ci sono più certezze, non ce ne potranno più essere, per nessuno, e quindi bisogna che diventiamo tutti imprenditori di noi stessi.
Bisogna mettersi in gioco, giorno per giorno, senza pianificare nulla che non sia a breve o tutt'al più medio termine.
Stabilirsi in un luogo volendoci rimanere? Non va bene.
Una famiglia? Scordiamocela.
Mobilità, mobilità, sul territorio, nel lavoro, e quindi in tutto.
Sei mesi da ufficio acquisti in una azienda a Milano, un anno a raccogliere fichi in Basilicata,
otto mesi a vendere vernici in Emilia Romagna, fra tre anni agenti immobiliari a Courmayeur, ma perchè no?
Basta muoversi, basta essere hungry e foolish, e le occasioni fioccano.
Io, nel mio piccolo, essendo libero professionista, a modo mio faccio impresa, non ho nè ho mai voluto avere il "posto fisso" perchè so che non è adatto al mio carattere.
Però ho sempre ritenuto desiderabile che la gente possa scegliere di dedicare al suo lavoro una giusta quantità di tempo e di energie, a fronte di una giusta retribuzione, per avere il tempo e la forza di fare anche altro, di andare a prendere i figli a scuola, di andare al parco con il proprio compagno/a a prendere un gelato alle sei del pomeriggio quando è stagione, un cinemino, cose così.
Un patto nel segno di "io ti do una quantità ragionevole di me stesso e tu in cambio mi dai una somma ragionevole e dignitosa di denaro.
Quello bravo, quello assatanato, quello che è pervaso dalla scintilla di Prometeo sei tu, magico imprenditore, io la scintilla non l'ho, nemmeno mi interessa averla, ma sono onesto e fedele, va bene a te e va bene anche a me".
Sembra che non si possa più.
Sembra che non sia più sufficiente una onesta vita facendosi il mazzo dietro una pressa, o dietro una scrivania, che a volte è quasi lo stesso.
Non si può più pretendere stabilità di lavoro e di vita, non si possono più volere diritti, bisogna vivere ogni giorno cercando di inventarsi qualcosa, senza certezze, come fanno loro.
Come fa Marchionne, che nei suoi anni in Fiat ha già guadagnato abbastanza da dare sicurezza a dieci generazioni di piccoli Marchionne, e il grosso lo deve ancora prendere.
E però dice agli altri che devono rinunciare ai loro schemi vecchi e prefissati.
Stabilità e diritti, ma va, a che cosa vi servono? Guardate me, io non ne ho eppure sto bene lo stesso, dice l'ottimo Sergio.
Come fanno Maroni e Sacconi, che in un paese normale sarebbero forse, ma dico forse, due amministratori di condominio, e che qui sono stati ministri, che dicono abbassate i toni, fratelli e sorelle, vogliatevi bene, se no siete complici di chi ha ucciso Biagi, vogliate bene al vostro padrone, siate flessibili, soprattutto in avanti a novanta gradi, altrimenti all'estero pensano male di noi, condividete con il vostro padrone l'insicurezza del reddito.
Come dite, non sono gli stessi redditi? Ma che ragionamenti capziosi, sarete mica comunisti?
Loro per la verità non la subiscono mica tanto, l'insicurezza del reddito, tra stipendio da parlamentari e tutto il resto, ma fa niente, è così bello e costa così poco belare sciocchezze sulla vita degli altri...
Io ho ribrezzo di questa gentaglia, ho pena di questo paese e ho paura di che cosa il nostro mondo potrà diventare nel giro di qualche decennio.
Vorrei che nascesse qualcosa di diverso, di più umano e di più inclusivo per tutti.
Credo che sia possibile, ma credo anche che non sarà gratis.
Si annunciano anni di lotta.
Non so voi, ma io ci sono.

domenica 1 aprile 2012

I BAMBINI AI TEMPI DEL SUBBUTEO

Sarà probabilmente che in questi giorni sento molto la pressione dell’urgenza di vivere e patisco non poco la mancanza di tempo libero, ma continuo a ripensare con nostalgia alla mia infanzia. A  quegli anni in cui la nascente tecnologia ancora non ci imponeva ritmi folli, e a quel limbo di spensieratezza e meraviglie, in cui fluttuavo inconsapevolmente con l’unico assillante problema di non riuscire a racimolare la paghetta sufficiente a comprarmi le figu. Studiavo una ceppa o il minimo indispensabile a tenermi lontano dal recinto dei somari, e me la cavavo anche abbastanza bene, perché avevo dalla mia una memoria di ferro ( saranno stati quei cazzo di spinaci che mia madre mi obbligava a mangiare in quantità industriale ) e una faccia da santarellino in odore di beatitudine, per la quale la mia vecchia maestra stravedeva, consentendomi così di cazzeggiare senza troppi problemi. Per cui, tornato da scuola, dopo un fiero pasto a base di maccheroni al pomodoro, dedicavo ai compiti un tempo variabile a seconda dei programmi pomeridiani, ma mai, bada bene, superiore alla mezz’ora. Poi, sciambola, fiesta a alè ! Partitoni a calcio della durata media di tre ore e comunque mai inferiore alla consunzione fisica dei giocatori, interminabili letture di romanzi di formazione ( su tutti L’Ultimo dei Mohicani di Fenimore Cooper e I Ragazzi Della Via Pal di Molnar ) e fumetti di formazione ( Topolino, soprattutto, mentre Jacula e Il Montatore, sarebbe arrivati più tardi, insieme agli ormoni e a  tante pippette ), niente televisore, ma una varietà assorita di giochi che ancora oggi mi paiono fichissimi. C’erano le biglie, le piramidi di biglioni da abbattere e le mitiche biglie americane, piccoli gioielli di inestimabile valore, per possedere le quali eri disposto a qualunque cosa, anche del tipo “ Hei ! Questa è mia sorella, potete farvela ! “; c’erano le figu, cielo manca manca cielo, ti do due Palanca per Spillo Altobelli, eddai ! e c’erano le mitiche macchinine di Formula 1 ( strippavo per la Lotus nera di Ronnie Peterson ); e che dire dei mitici soldatini, quelli piccoli, che già segnavano, in modo discretamente sottile ma inesorabile, il futuro politico e sociale di un bambino ?  Da un lato, gli Airfix, costosi e bellissimi, che insieme alle scarpe Adidas rappresentavano un vero e proprio status symbol per i figli dell’alta borghesia, e dall’altro, gli sfigatissimi Atlantic,  quelli che era una rogna staccarli dalla listarella centrale, e che insieme alle Tepa Sport erano il marchio indelebile della tua appartenenza al ceto proletario. Ma tra tutti i giochi, il più bello in assoluto, il più leggendario, il più amato, il più tutto insomma, era il Subbuteo

Per me fu il regalo di Natale di una lontana prozia, che da quel momento divenne uno dei miti della mia infanzia. E lo divenne, nonostante il fatto che, la povera mentecatta, oltre alla scatola con il gioco, mi regalò come ulteriore cadeaux non la squadra dell’Inter ( mortacci tua, se fai un regalo fallo bene ! ), ma la squadra del Bohemians, oscura e mediocre compagine irlandese, che aveva peraltro il demerito di avere la casacca rossa ( e il rosso, lo sanno anche i ciechi, era il colore dei cugini milanisti ). Mentre quasi tutti gli altri ragazzini allestivano veri e propri stadi di calcio utilizzando tavole di compensato, il mio Subbuteo aveva una peculiarità. Fottevo il tappeto buono dalla sala ( mio padre ci teneva ogni volta a rimarcare che fossse persiano e di pregevole fattura ), lo stendevo nella mia cameretta e sopra ci facevo aderire alla perfezione il manto verde del Subbuteo. Ne veniva fuori un unicum per veri intenditori : mentre sugli altri campi, il compensato imponeva ritmi frenetici e alte velocità, sul mio si giocava lenti, alla brasiliana. Perché il tappeto persiano faceva l’effetto erba alta: la palla rallentava,  cambiavano i ritmi di gioco, la precisione richiesta era diversa. Se fuori casa prendevo scoppole inaudite, sul mio Maracanà ero pressoché imbattibile, e davo del filo da torcere anche al figlio del commendator Arienti, che abitava al nono piano ed era così ricco da potersi permettere pure gli spalti, i tifosi e le torri con i faretti per le notturne di Coppa ( e secondo me, il bastardo, prendeva anche ripetizioni da qualche giocatore professionista, il bastardo ). Insomma, ero forte. Non un fenomeno spocchioso tutto tecnica e colpi di tacco, ma l’artefice di un calcio in punta di dito al sapore di pane e marmellata che a trattisi impreziosiva di estatici momenti di brio all’idrolitina. Tuttavia, la fine del mio Maracanà fu precoce e ingloriosa. Siccome giocavo anche da solo per allenarmi, un giorno lasciai il campo disteso al centro della mia cameretta con le formazioni sistemate per il fischio di inizio ( 4 -  3 – 1 – 2 rigorosamente speculari ) e mi assentai per una leggendaria partita al campetto sotto casa. Mio padre entrò al buio in camera mia e fu una carneficina. I danni che si presentarono ai miei occhi acclararono subito una certa rilevanza : il manto verde strappato, una porta e relativo portiere completamente frantumati, due difensori e tre centrocampisti irrimediabilmente offesi e un paio di attaccanti vivi, ma fratturati e chiaramente inutilizzabili per partite ufficiali.  D’altra parte, non è colpa mia se mio padre girava per casa non in ciabatte o a piedi nudi, come ogni cristiano che si rispetti, ma sempre, zio caro sempre, in giacca e cravatta e mocassini lucidati con suola rinforzata. 

Finì pertanto l’epoca dell’inespugnabilità casalinga e iniziò quella delle stese fuori casa, clamorose e senza soluzione di continuità. Un po’ come succede adesso con la PlayStation. Anzi, se volete vincere facile a Pro Evolution Soccer lanciatemi la sfida. Tanto non vinco nemmeno se gioco contro un bambino ingessato. Con la punta del dito ero un grande, ma coi pollici opponibili e smanettanti faccio una fatica boia. E poi, adesso ho poco tempo per allenarmi. Massimo una partita al mese e per grazia ricevuta. Come bambino mi divertivo molto di più ai tempi del Subbuteo.

Blackswan, domenica 01/04/2012