domenica 7 luglio 2013

MISCELLANEE : BAVIERA


Ci sono castelli e castelli. In Europa ci sono i sontuosi castelli della Loira, i misteriosi castelli della Scozia, i milioni e differenti castelli italiani. I miei preferiti sono quelli bavaresi, incastonati in paesaggi veramente da favola. Il più' conosciuto e' quello di Neuschwanstein,  da cui Mr. Disney ha preso ispirazione per il castello delle principesse. Costruito da Re Ludwig secondo, da lui abitato per ben due settimane, si erge su una collina vicino a Fussen, da cui parte anche la strada romantica. Ma Re Ludwig, che fu arrestato e deposto per aver mandato in bancarotta il regno, non gli basto' naturalmente un castello, ma ne volle altri. C' e' quello di Hohenschwangau, sempre a Fussen, piccolo e raccolto e fatto realizzare dal padre. C' e' Linderhof, con un meravigliosa grotta di Venere  e giochi d'acqua.



Ma a mio parere il più' bello e particolare e' anche quello meno visitato e conosciuto da noi italiani. Occorre andare sul lago Chiemsee, a breve distanza da Monaco di Baviera e imbarcar si per un breve tragitto. Si arriva sull'isola degli uomini e ci si trova davanti.....Versailles! In realtà il castello e' Herrenchiemsee, ma la facciata e' uguale al castello del Re Sole. Ludwig amava così tanto l'arte francese che chiese di avere una fedele riproduzione di Versailles, cosa che i suoi architetti fecero almeno per la facciata, che è' lunga esattamente gli stessi metri. Dentro ovviamente il castello e' differente, e in parte incompiuto, ma c' e' una galleria degli specchi che per alcuni sovrasta la sua collega francese. 
Visto che ci siete, ovviamente una capatina a Monaco di Baviera va fatta: città straordinaria e giovane, visitate il Deutsches Museum e fatevi una birra! La birreria più turistica e conosciuta e' la Hofbrauhaus, ma ovviamente la città e' piena di locali che offrono buona birra. Parlando di Baviera on si può non parlare di Brecht. Allora anziché leggerlo, cercate un teatro che faccia qualche sua rappresentazione, come Madre coraggio e i suoi tre figli. Purtroppo leggendo la programmazione dei teatri a Milano spesso vedo che questo grande artista e' dimenticato...

MoneyPenny, Domenica 07/07/2013

sabato 6 luglio 2013

MUSTANG SALLY – WILSON PICKETT



Quando arriva l’estate arrivano anche i cosidetti tormentoni estivi, canzoni dal contenuto artistico prevalentemente nullo, che tuttavia scalano rapidamente le classifiche e ci tengono compagnia inesorabilmente per due, tre mesi, duranti i quali li si ascolta ovunque : per radio, sulle spiagge, nei villaggi turistici, alle grigliate con gli amici. Tanto che, a prescindere dai gusti personali, quando arriva settembre, di quella canzone non ne possiamo proprio più, essendoci venuta a nausea. Poi, ci sono i tormentoni eterni, cioè quei brani, questi si, artisticamente validi, che ci accompagnano tutta la vita, che si ascoltano sempre, ovunque e in qualsiasi stagione, che sono talmente famosi che anche un sasso interrogato risponderà prontamente: “Hey, io questa la conosco ! “. Mi vengono in mente, in chiave rock, Light My Fire dei Doors, Smoke On The Water dei Deep Purple, oppure Stairway To Heaven dei Led Zeppelin, così abusata che in molti negozi musicali compare il cartello No Stairway To Heaven, per scoraggiare gli acquirenti a strimpellare il pezzo. Ciò che il meraviglioso brano degli Zep rappresenta per il rock, Mustang Sally, nella versione di Wilson Pickett, rappresenta per il blues: un classicone di genere che quasi ogni artista propone nel proprio repertorio. Una canzone eseguita da tutti e così tante volte, che John Lee Hooker nel 1997 affisse sul palco del suo locale, il Boom Boom Boom di San Francisco, un cartello contenente l’invito "Please, No Mustang Sally". 


La canzone in questione era stata scritta nel 1965 da Mack Rice, songwriter tra i più apprezzati della scena R&B, che compose brani, tra gli altri, per Rufus Thomas, Ike & Tina, Buddy Guy e Albert King. L’ispirazione per scrivere la canzone venne a Rice dopo aver chiacchierato con la cantante Della Reese, che gli aveva confidato l’intenzione di acquistare una macchina, una Ford Mustang nuova fiammante. Rice si immaginò quella bella ragazza alla guida dell’auto e compose rapidamente il brano, intitolandolo Mustang Mama. Fu grazie a un suggerimento di Aretha Franklin che successivamente la canzone prese il definitivo titolo di Mustang Sally. La versione più nota, e anche più intensa, del pezzo, la si deve però a Wilson Pickett, celebre per aver scalato le classifiche l’anno precedente con la sua In The Midnight Hour. La cover di Pickett ebbe un immediato riscontro commerciale (pubblicata a settembre del 1966, arrivò al 15esimo posto delle charts statunitensi) e divenne ben presto un classico che tutti volevano eseguire. Eppure, il brano, in quella torrida versione, rischiò di non vedere mai la luce. Leggenda vuole infatti che appena finita la registrazione del pezzo, avvenuta nei mitici fame Studios di Muscle Shoals, in Alabama, il nastro si fosse sfilato dalla bobina, cadendo a terra. Fu solo ed esclusivamente la perizia tecnica di Tom Dowd, ingegnere del suono e produttore dell’Atlantic, a salvare quella registrazione che sembrava ormai irrimediabilmente perduta. Mustang Sally ebbe poi un ulteriore periodo di gloria nel 1991, quando venne inserita nella colonna sonora del film di Alan Parker, The Commitments.




Blackswan, sabato 06/07/2013


giovedì 4 luglio 2013

ERIC CHURCH - CAUGHT IN THE ACT LIVE

Se dovessimo citare tutte le nomination, i premi vinti e i piazzamenti ai primi posti delle classifiche americane ottenuti da Eric Church in sette anni di carriera, probabilmente occuperemmo l'intera pagina del blog e qualcosa ancora avanzerebbe. Il ragazzo, originario di Granite Falls, North Carolina, è in circolazione dal 2006, ha solo tre album in studio all'attivo, ma da tempo ha già superato il confine che separa una giovane promessa da una concreta e bellissima realtà. In patria, Eric, è già considerato un mostro sacro del moderno movimento country rock, tanto che la sua ultima fatica, Chief, uscito nel 2011, ha venduto la bellezza di un milione e trecentomila copie. Un exploit, questo, che nell'epoca della digitalizzazione e delle musica liquida, somiglia davvero a una specie di miracolo. La realtà è che Church ha saputo trovare la formula vincente per proporre una musica dal gradimento trasversale, capace di interessare i giovani che fanno più fatica ad avvicinarsi alle radici, ed eccitare la fantasia di quanti, in passato, avevano amato quel movimento ribelle, l'outlaw country, che aveva come portabandiera il grande Waylon Jennings. Le canzoni di Church, infatti, sono spesso contaminate, sporcate da southern rock, da massicce dosi di chitarra elettrica e da suoni tanto ruvidi che talvolta sconfinano addirittura nei territori dell'hard rock ( il nostro eroe non ha mai nascosto una passionaccia per i Metallica, con cui ha condiviso il palco in tour nel 2012). Si aggiunga una spruzzatina di appeal radiofonico, e il gioco è fatto. Non è quindi un eccesso di presunzione decidere di rilasciare questo autocelebrativo live, che racchiude in diciassette canzoni (le hits fioccano una via l'altra) l'intera carriera del cantautore americano. Registrato al Tivoli Theatre di Chattanooga, Tennesse, dinnanzi a un pubblico caldissimo (il mixaggio di Jay Joyce sovraespone il contributo vocale dei fans, dando all'ascoltatore la sensazione di trovarsi sotto il palco), Caught In The Act riproduce due show risalenti a ottobre 2012, in cui, a dire il vero, la musica country è relegata a pochi risibili orpelli. A farla da padrone, semmai, è il rock, suonato con energico trasporto da una band tonica, che piazza riff a raffica e non lesina sudore quando c'è da pestare di brutto. Tra le tante belle canzoni in scaletta, emergonono Drink In My Hand, emozionante per l'interplay fra il cantante e il suo pubblico, l'hard rock di Lotta Boot Left To Fill, e la conclusiva Springsteen, sentito tributo di Church a uno degli idoli musicali della sua gioventù, vincitrice dell'American Country Award come canzone dell'anno 2012.
 
VOTO : 7
 
 
 
 
 
Blackswan, giovedì 04/07/2013

martedì 2 luglio 2013

HUGH LAURIE - DIDN'T IT RAIN



Offelee, fa el to mestee (pasticciere, fa il tuo mestiere) è un'espressione tipica milanese che si rivolge a chi, magari anche con un pò di arroganza, si cimenta in attività che non gli competono o si riempie la bocca di competenze che non ha. Insomma, è un modo elegante per dire a qualcuno di limitarsi a fare il suo. Eppure, non è una novità che molti bravi attori, abbiano deciso di prendersi una vacanza dal cinematografo, per coltivare in modo estemporaneo la passione per la musica rock. Ecco allora un proliferare di dischi, suonati da personaggi che siamo abituati a vedere sul piccolo e grande schermo, e che spesso e volentieri preferiremmo continuassero a recitare invece che ammorbarci le orecchie con prodotti di risibile qualità. Mi vengono in mente Johnny Deep e i suoi The Kids, Keanu Reeves e i Dogstar, Jared Leto e 30 Seconds To Mars, Jeff Bridges, Kevin Costner, Bruce Willis, Russel Crowe e compagnia cantante, che a provarci ci provano, ma riuscirci è proprio un'altra storia. Dal calderone delle nefandezze, si salvano solo la bella e feroce Juliette Lewis, Jack Black per la cospicua dose di autoironia, e soprattutto l'oxfordiano Hugh Laurie, al secolo maggiormente noto come Dr. House. Confesso che di puntate del serial televiso più famoso della storia (o quasi) ne ho viste pochine, dal momento che ospedali, dottori e malattie rare non sono proprio pane per i miei denti. Tuttavia, quando l'attore inglese si cimenta in sala di registrazione, come era già successo con il brillante esordio Let Them Talk, le cose, per il sottoscritto, cambiano completamente. Oggi, Laurie torna nei negozi con un disco di cover, il cui repertorio, peraltro assai originale, spazia tra gospel, standards blues, atmosfere jazzy, ballate da crooner col bicchiere della staffa in mano e addirittura tango. A produrlo, un grandissimo della consolle, Joe Henry, e ad accompagnarlo la Copper Bottom Band, Gaby Moreno e Jean McClain alla voce, e il grande Taj Mahal che si cimenta alla voce con un'intensa Vicksburg Blues di Little Brother Montgomery. Tredici canzoni suonate benissimo (Laurie suona il pianoforte), che possiedono un gusto retrò molto elegante (come la bellissima copertina fotografata da Mary Mc Cartney) e che ci accompagnano in un viaggio suggestivo alla ricerca delle radici del blues. Da ascoltare in ore notturne e possibilmente in cuffia, Didn't It Rain conferma che Laurie sa maneggiare la materia musicale fors'anche meglio di quanto non interpreti il suo famoso dottore. Che forse sia questo l'esclusivo percorso della sua futura carriera ? Fossi in lui ci farei un pensierino.
 
VOTO : 7
 
 
 
 
Blackswan, martedì 02/07/2013

lunedì 1 luglio 2013

THE DEL LORDS - ELVIS CLUB



" I Del Lords... qualcosa mi dicono ma non mi ricordo bene cosa". Immagino che più o meno possa essere questa la prima cosa che viene in mente leggendo il nome della band newyorkese. Non è semplice richiamare alla memoria questo gruppo, occorre spolverare la soffitta dei nostri ricordi musicali e fare un viaggio a ritroso nel tempo fino a metà degli anni '80, quando i Del Lords debuttavano con un disco forse un pò ingenuo ma sicuramente sincero e vibrante, Frontier Days (1984). Eric Ambel alla chitarra e Scott Kempner (voce e chitarra) erano una coppia di musicisti onnivori, votati a una filosofia rock'n'roll che rimasticava le radici americane con un occhio alla citazione e uno puntato ai suoni ruvidi del garage punk. Testi impegnati e rabbiosi, disillusi e malinconici, sempre dalla parte dei perdenti e dei diseredati, e una musica che mescolava varie influenze, dal blues al country, dal rock springsteeniano allo swamp e al power pop, i Del Lords diedero vita a una gagliarda, quanto breve stagione, in cui videro la luce quattro album (assolutamente imperdibile Johnny Comes Marching Home del 1986) e che terminò nel 1990, relegando il quartetto nell'archivio delle band di culto. Oggi, a distanza di ventritrè anni dal loro canto del cigno, Lovers Who Wander (1990), i Del Lords sono tornati a noi in formazione quasi completa (manca il bassista Manny Caiati sostituito nell'occasione da Michael Duclos) e con un disco nuovo di pacca. 




L'impressione, fin dal primo ascolto, è sorprendente : se il tempo trascorso solitamente immalinconisce spirito e fisico, l'effetto sortito sui quattro ex-ragazzi di New York è diametralmente opposto. Nè polvere nè ruggine : Elvis Club ha lo stesso suono grintoso e pimpante che avevano i loro album due decenni fa. Smaliziata abilità strumentale, melodie scintillanti e chitarre assassine per un rock operaio e metropolitano, che non disdegna tuttavia momenti più morbidi, come nella bellissima All Of My Life, reminiscenze anni '50 (Damaged), e coloratissima bigiotteria roots screziata di pop (Flying). Se la giocano così i Del Lords, come hanno sempre fatto : piedi ben saldi per terra, suoni spigolosi ma puliti, ritmica ruspante, il basso profilo e l'umiltà del mediano che fatica a centrocampo, salvo poi inventarsi la giocata meraviglia che fa spellare le mani dagli applausi. Così, dopo 11 canzoni che ci hanno fatto ballare, cantare e sudare, la conclusione del disco è affidata a una superba (e arrembante) Southern Pacific, cover di un'anonima canzone di Neil Young, presente in uno dei dischi meno riusciti del chitarrista canadese (Reactor del 1981). Nelle mani dei Del Lords quel brano si trasforma, esce dall'oblio e torna a ruggire come un vecchio leone ferito che assesta la zampata decisiva. Degna conclusione di un album in cui tutto è azzeccato, perfino il titolo : le radici, Memphis e Elvis sempre nel cuore, e quell' inesausta e verace attitudine a salire sul palco per darci dentro con un sudatissimo rock'n'roll.

VOTO : 7,5




Blackswan, lunedì 01/07/2013