sabato 6 settembre 2014

GOAT – COMMUNE



Le vedo già le facce estasiate dei critici di tendenza e degli ascoltatori più trendy far la boccuccia a culo di gallina e santificare, come cicisbei arrapati, la nuova fatica dei Goat. D’altra parte, questo è un disco che fa curriculum, che dimostra il loro essere inevitabilmente alternativi, consapevolmente lungimiranti, incredibilmente fichi. I Goat infatti sono delle band più fashion del momento: svedesi di Korpilombolo(e non banalmente americani o inglesi), mascherati (ma con gusto:ahahaha!), psichedelici ddebbestia e supergggiovani, il gruppo incarna perfettamente lo spirito modaiolo di una gioventù che storce il naso davanti al classic rock e poi si eccita, come un bambino sotto l’albero di Natale, se le stesse cose vengono confezionate con un bel fiocchetto indie. Perché, diciamoci la verità, questa musica, arriva da un passato lontano (anni ’70, Hendrix, Led Zeppelin), e, senza che producesse così tanto clamore, l’abbiamo già ascoltata di recente  suonata da band come Tamikrest e Tinariwen. Certo, in Commune le spezie africane sono meno accentuate e i sapori richiamano talvolta l’Oriente, ma per il resto c’è proprio tutto: tonnellate di psichedelia, riffoni acidi, distorsioni a go-go (fuzz, fuzz, fuzz!), ipnotici mantra, disinibito uso del pedale wah wah, convulsi giri funk e un pizzico di elettronica. Il tutto condito da una voce femminile che ulula dal piano di sopra (cantare è un’altra cosa) che nemmeno la mamma di Howard in The Big Bang Theory. Canzoni risapute, ma vendute come nuova frontiera del rock alternative, che non sarebbero poi nemmeno tanto male se non fossero pervase da una certa arroganza saputella e da un lavoro furbetto in fase di produzione, volto a nascondere l’algido distacco del mestiere sotto le sembianze posticce di pathos e sudore. Così, dopo ripetuti ascolti del disco, ciò che rimane è la sensazione di un rampantismo da happy hour manageriale, come se questa musica in veste alternativa fosse un modo per dimostrare che, all’ora dell’aperitivo, sotto la giacca e la cravatta batte un cuore supergiovane. Una sorta di compensazione musicale, insomma, uno status symbol di non appartenenza, un tatuaggio sonoro per colmare lacune di personalità. Non è solo un problema che riguarda i Goat, ma è un vero e proprio trend generazionale: scegliere la musica non perché sia buona ma perché ci faccia apparire più interessanti. Commune, come dicevo, non è un brutto disco, è semmai un disco insincero e senz’anima, traboccante di sonorità deja vù che orecchie meno abituate percepiranno come nuove. Ma è un ascolto che fa curriculum e quindi se ne parlerà parecchio. Per quanto mi riguarda, assolutamente prescindibile.

VOTO: 5/6





Blackswan, sabato 06/09/2014

CI ASCOLTIAMO STASERA


giovedì 4 settembre 2014

HER NAME IS CALLA - NAVIGATOR



Originari di Leicester e composti da membri provenienti da due gruppi post punk, gli inglesi iLIKETRAINS e gli scozzesi The Twilight Sad, gli Her Name Is Calla escono in questi giorni con il loro terzo album in studio, successore di Heritage (debutto datato 2008) e del ponderoso The Quiet Lamb (dodici canzoni, più di un'ora e un quarto di musica, uscito nel 2010). Band dal nome estremamente suggestivo, discepoli di un post rock ricco di chiaroscuri, insidioso, cinematografico e fortemente onirico, gli HNIC vengono portati in palmo di mano dalla critica specializzata, pur avendo uno scarsissimo ritorno commerciale. E non potrebbe essere diversamente, visto che i quattro ragazzi di Leicester seguono il proprio percorso artistico senza guardare in faccia nessuno, ostinandosi a ordire trame complesse in cui confluiscono cupe dissertazioni elettroniche, folk dal mood profondamente gotico, sferragliamenti post rock, arrangiamenti d'archi dagli echi presbiteriani, silenzi, rumorismo assortito, epici crescendo e visioni romantiche. Un mix decisamente ben strutturato, eppure di difficile digestione, che impone, come nel caso di Navigator, un ascolto attento, ripetuto, paziente, volto a cogliere le infinite sfumare di una scaletta che non lascerà di certo indifferente l'ascoltatore propenso al viaggio e alla sperimentazione. Merito della voce espressiva del leader Tom Morris e di un songwriting che risulta nel contempo spontaneo e ragionato, che alterna momenti dai contorni cesellati ad altri di un lirismo urgente, debordante, ferocemente intenso. Dodici "canzoni" che tracciano un percorso complesso, mai lineare, più facilmente agibile nel folk iniziale di I Was The Back Of The Nightingale e nelle citazioni radiohediane di Ragman Doll, impervio nelle vette frastagliate di Dreamlands, scontroso nei campionamenti di The Roots Run Deep, sconvolgente nell'ascensione sublime dell'epica Burial. Un cammino lungo un'ora, che vi lascerà esausti, straniati, ma felici.

VOTO: 8





Blackswan, giovedì 04/09/2014

martedì 2 settembre 2014

COME UNA RADIO, PIU' UNA RADIO: SI RICOMINCIA !






Ascoltatori carissimi, sono lieto di annunciarvi che RadioPaneSalame, dopo la pausa estiva, è sul punto di tornare a trasmettere! Tutto avrà inizio con un evento live programmato per sabato 6 settembre, a partire dalle ore 21.00. Nel corso della trasmissione verrà presentato il palinsesto 2014/2015, arricchito di nuovi, interessantissimi programmi. Si preannuncia pertanto una stagione esplosiva: a fianco dei vecchi cavalli di battaglia della radio, arriveranno inedite rubriche che avranno per oggetto cinema, televisione, letteratura e, udite udite, anche calcio. Insomma, il raggio d'azione della radio si amplia, trasmetteremo sette giorni su sette, e ogni giorno avrà la sua peculiarità. Per chi si fosse affezionato, torneranno i compagni sbronze di Alta Gradazione, le prurigini di Wanda, le pillole monografiche di Lozirion e Affettati Misti, il talk show che tutto il mondo ci invidia. Per quanto mi riguarda, anche quest'anno non mancheranno le scanzonature di School Of Rock, gli approfondimenti sul rock a stelle e strisce di Americana (attenzione perchè quest'anno avremo una trasmissione gemella che si occuperà di letteratura americana) e ritornerà Dalla Parte Del Killer, trasmissione ispirata a Come Un Killer Sotto Il Sole, unico blog al mondo che se ti va lo leggi, e se non ti va lo ascolti. A questo piatto già ricco, si aggiungerà un'ulteriore pietanza gustosissima, dal momento che è iniziato il conto alla rovescia per l'apertura del nuovo sito - www.radiopanesalame.it - dove potrete seguire tutte le trasmissioni della radio e non solo.
Ciliegina sulla torta: RadioPaneSalame, grazie anche alla collaborazione dell'OraBlu, prenderà il posto di Radio Popolare come radio ufficiale della sesta edizione de Il Mondo Nel Quartiere, evento multietnico che si terrà il 5 ottobre a Baranzate di Bollate. Mica pizza e fichi !
Non mi rimane che salutarvi e augurarvi buon ascolto e buon divertimento con RadioPaneSalame. Come una radio, più di una radio.

Blackswan, martedì 02/09/2014

lunedì 1 settembre 2014

COUNTING CROWS - SOMEWHERE UNDER WONDERLAND





Per un grande disco ci vogliono due recensioni, due diversi punti di vista, due voci che, nello specifico cantano nello stesso coro, eppure con due tonalità leggermente sfasate. E’ quello che abbiamo pensato io e Alessandro, quale primo atto concreto di una collaborazione a distanza volta a promuovere la cultura americana, passione che infiamma entrambi. Ci saranno altri scritti, ci sarà la radio, ci sarà a breve un’associazione che ci porterà, lo speriamo, a fare grandi cose. Vi terremo aggiornati. Nel frattempo, godetevi questo disco dei Counting Crows (in uscita nei negozi a partire dal 16 settembre), perché è davvero una bomba. 


Ogni nuovo disco dei Counting Crows segna un periodo. E' inevitabile, se si pensa che non hanno mai brillato per prolificità. August and everything after (1993) veniva da un lotto di canzoni tra cui scegliere, con una scrittura talmente elevata da provocare vertigini, e Recovering the satellites (1996) ha sfruttato la scia del successo planetario (tutto meritato) del suo predecessore, scegliendo un approccio più rock ed elettrico, secondo molti pastrocchiando un po' troppo con suoni e testi, secondo il sottoscritto registrando un raro capolavoro di chitarre, pianoforte e melodia.
Con This desert life si è cercato di ancorarsi alle radici del rock americano per andare oltre, e sperimentare qualche nuova forma canzone, a volte allungata altre volte ridotta al minimo concesso (strofa/ritornello e via). Rispettando la regola di un disco ogni tre anni, ecco poi Hard Candy (2002) forse il punto meno alto della loro discografia, con tante idee non messe a fuoco, l'allargamento della formazione a sette elementi (solo oggi hanno probabilmente trovato la giusta potenzialità di un gruppo così ampio) e la necessità di cercare per forza un singolo ("American Girls", troppo pop anche se sempre con il gusto Counting Crows). Dopo il 2002, in ben dodici anni, due soli dischi. Prima lo stupendo  Saturday Nights & Sunday Mornings , anno di grazia 2008, con una prima parte volutamente sopra le righe (chitarre, chitarre e chitarre) ed una seconda volutamente riflessiva. Ed ora, Somewhere under wonderland, il disco che prima o poi i Counting Crows dovevano fare. 




Innanzitutto. I Counting Crows hanno tutte le caratteristiche per diventare la rock/folk/americana band più caratteristica di un intero genere. L'ugola talentuosa di Adam Duritz, uno di quelli capaci di cantare l'elenco telefonico facendoci piangere dalla passione e dall'emozione, a cui  aggiungere una penna letteraria oggi senza pari; il genio di Charlie Gillingham ad armeggiare tra piano, organo e mellotron, forse il più completo ed al contempo il più vintage dei tastieristi in circolazione; la chitarra poderosa di Jimmi Immergluck e quella maliziosa, sempre pronta ad assoli che si stampano in testa come carta carbone di Dan Vickrey; un chitarrista ritmico (nonché ottimo produttore ed armeggiatore di suoni) come David Bryson e poi una sezione ritmica creata rubando i migliori elementi alle band del genere. Non sempre da un buon arsenale si ricava un'arma degna delle aspettative, ma se già il precedente disco era da mettere in bacheca tra le cose migliori mai sfornate, Somewhere under wonderland  sono i Counting Crows che si presentano nella loro veste più rilassata, senza dover dimostrare nulla a nessuno.
Il disco si apre e si chiude con due immense canzoni. "Palisades Park", scelto anche come singolo, rivela il grado di libertà che Duritz abbia raggiunto come cantante, leader e scrittore. Più di otto minuti di canzone, introdotti da un minuto di tromba e piano, per poi esplodere in un pianoforte come non se ne sentono da anni. Adam canta, narra, rincorre le parole senza soluzione di continuità e nel finale si lascia andare ad un flusso della coscienza che ricorda (finalmente) le sue improvvisazioni dal vivo. "Palisades Park" riesce, per la prima volta nella loro discografia, ad imprimere su un disco di inediti la profondità di Duritz ed il suo rapporto con la parola.
Dalla parte opposta del disco, un brano come "Possibility Days", più romantica e nel solco della tradizione dei Corvi, ma per fortuna che ancora oggi riescono a scrivere brani così toccanti. Il suo incipit narrativo: 

"It was a cold 3 A.M. at JFK
Guess you stayed 'cause you wanted to stay" 

dice già tutto di quanto la vita di questo enorme paese sia nella penna di questo grande talento.
In mezzo a queste due canzoni c'è un po' di tutto. Il country rock di "Cover up the sun", l'impeto di "Dislocation" (e qui Recovering the satellites è dietro l'angolo), le atmosfere unplugged della stupenda "God of ocean tides" , in realtà la cosa più vicina a Saturday Nights & Sunday Mornings. Ma se c'è un brano da nominare per capire cosa sono oggi i Counting Crows, allora "Scarecrow" è la miglior presentazione possibile. Un mid-tempo dal gusto vintage, belle chitarre in evidenza ma senza invadere troppo, un Hammond che entra nella canzone come una lama nel burro, una melodia cristallina ed Adam che gioca con le parole come un raffinato professore di semantica che gioca con assonanze e doppi sensi : 

"you know what I know about the bedroom boys
And the undercover Russians in a pink Rolls Royce
They bang the drum, she sets the beat
They carry Miss America out into the street
She sings snowman, scarecrow, John Doe, buffalo!"

Eccoli i Counting Crows del 2014, molto più consapevoli del loro potenziale. Forse il precedente Saturday Nights & Sunday Mornings poteva contare su una scrittura ed intuizioni più ispirate, ma Somewhere under wonderland è uno di quei dischi da portarsi in giro per il mondo e non aver bisogno di altro.
Per chi scrive, la migliore rock band del mondo. 

VOTO : 8,5





Alessandro Raggi, lunedì 01/09/2014

Non è un caso se quando mi trovo a parlare dei Counting Crows il mio discorso parta sempre dal loro esordio, da August And Everything After, pubblicato nell'anno di grazia 1993. Quel disco, tra i più importanti della mia vita e legato a un'infinità di bei ricordi, non solo restituì passione a tanti cultori di Americana, che in quegli anni '90 si trovarono di colpo ad avere le tasche piene di pietre preziose (i Jayhawks di Hollywood Town Hall, i Black Crowes di The Sothern Harmony), ma avvicinò al genere tanti giovani stufi dei suoni ruvidi provenienti da Seattle (ormai peraltro in fase di normalizzazione). Potremmo discutere ore sulla preminenza di questo gruppo sull'altro o sul primato di bellezza dei dischi del periodo; ciò nonostante, la mia convinzione personale è che l'esordio dei Counting Crows avesse qualcosa in più, un carico di suggestioni che rendeva August... non solo un disco intensissimo, ma soprattutto un disco sostanzialmente diverso. Non parlo solo di suono o di un songwriting senza sbavature: ciò che rendeva davvero unico quell'esordio era un mood malinconico ai limiti della disperazione e il cantato recitativo e traboccante di lacrime di Adam Duritz. Segni distintivi che in seguito divennero il vero limite delle composizioni della band, non sempre in grado di trovare misura e sintesi, ma spesso preda di un'autoindulgente verbosità. Da questo punto di vista, Somewhere Under Wonderland è una sorta di nuovo inizio, un disco che si sgrava della pesante eredita di August, che abbandona certi pattern ormai usurati e che rilancia la band oltre quella recenzione in cui la musica di Duritz e compagni aveva trovato terreno fertile per replicarsi con mestiere, ma senza grande fantasia. Un nuovo inizio, dicevamo, che presenta due sostanziali novità. Come mai prima, le canzoni si presentano equilibrate, dirette, asciugate da fronzoli e orpelli; e come mai prima, Somewhere Under Wonderland suona come un disco rock, prepotentemente rock, senza che, tuttavia, questa nuova carica di energia venga ad assorbire per intero il lato più malinconico e meditabondo che da sempre caratterizza il sound della band californiana. 



Un lavoro essenziale e diretto che, per converso, si apre con Palisades Park, una delle canzoni più lunghe e complesse della discografia dei corvi: otto minuti abbondanti, eppure non una nota in più o fuori posto, una piccola suite in cui tutto è necessario, un capolavoro a incastro (intelaiatura jazzy, digressioni improvvise, ritornello scalpitante) in cui domina la voce multiforme di Adam Duritz, che sceglie però la strada della narrazione a scapito della consueta recitazione. E che Palisades Park sia una canzone immensa, non vi sono dubbi: finisce e hai già voglia di riascoltarla, e a ogni nuovo ascolto scopri un particolare che ti era sfuggito, un'intonazione, un leggero controtempo, un palpito, un battito del cuore. Tanto bella che se anche il disco finisse ora, saremmo definitivamente appagati, inebriati da un ritorno che nessuno avrebbe scommesso così intenso. C'è dell'altro però, ci sono altre otto canzoni (siamo al minimo storico) che costituiscono una scaletta coesa, compatta, sostanziosa, a tratti, persino possente. Earthquake Driver e Dislocation mostrano i muscoli del rock ma possiedono anche grandi potenzialità radiofoniche; Scarecrow pesca un ritornello dalla melodia cristallina; Elvis Went to Hollywood regala un inusitato tripudio di chitarre; God Of Ocean Tides ritorna esattamente là, dove tutto ebbe inizio, somewhere in the middle of America, mentre il country rock di Cover Up The Sun suona come un classico dei Greatful Dead in prospettiva 2.0. Concludono il disco John Appleseed's Lament, l'unico brano "normale " in scaletta, e Possibility Day, in cui Duritz vola altissimo, regalandoci una delle "sue" canzoni, quattro minuti acustici, intimi, commossi. Pronto ovviamente a essere smentito da chiunque, ho l'impressione che per trovare un disco dei Counting Crows così bello e convincente debba tornare indietro nel tempo fino a Recovering The Satellites. Era il 1996 e sono passati quasi vent'anni. Tuttavia, questa resta una delle poche band del pianeta che, quando è in credito di ispirazione, riesce ancora a far battere il mio cuore di un amore appassionato e sincero.
Un grande disco.

VOTO: 9





Blackswan, lunedì 01/09/2014