Le vedo già le facce
estasiate dei critici di tendenza e degli ascoltatori più trendy far la
boccuccia a culo di gallina e santificare, come cicisbei arrapati, la nuova
fatica dei Goat. D’altra parte, questo è un disco che fa curriculum, che
dimostra il loro essere inevitabilmente alternativi, consapevolmente
lungimiranti, incredibilmente fichi. I Goat infatti sono delle band più fashion
del momento: svedesi di Korpilombolo(e non banalmente americani o inglesi),
mascherati (ma con gusto:ahahaha!), psichedelici ddebbestia e supergggiovani,
il gruppo incarna perfettamente lo spirito modaiolo di una gioventù che storce
il naso davanti al classic rock e poi si eccita, come un bambino sotto l’albero
di Natale, se le stesse cose vengono confezionate con un bel fiocchetto indie. Perché,
diciamoci la verità, questa musica, arriva da un passato lontano (anni ’70, Hendrix,
Led Zeppelin), e, senza che producesse così tanto clamore, l’abbiamo già ascoltata
di recentesuonata da band come
Tamikrest e Tinariwen. Certo, in Commune le spezie africane sono meno
accentuate e i sapori richiamano talvolta l’Oriente, ma per il resto c’è
proprio tutto: tonnellate di psichedelia, riffoni acidi, distorsioni a go-go (fuzz, fuzz, fuzz!),
ipnotici mantra, disinibito uso del pedale wah wah, convulsi giri funk e un
pizzico di elettronica. Il tutto condito da una voce femminile che ulula dal
piano di sopra (cantare è un’altra cosa) che nemmeno la mamma di Howard in The
Big Bang Theory. Canzoni risapute, ma vendute come nuova frontiera del rock
alternative, che non sarebbero poi nemmeno tanto male se non fossero pervase da
una certa arroganza saputella e da un lavoro furbetto in fase di produzione, volto
a nascondere l’algido distacco del mestiere sotto le sembianze posticce di
pathos e sudore. Così, dopo ripetuti ascolti del disco, ciò che rimane è la
sensazione di un rampantismo da happy hour manageriale, come se questa musica
in veste alternativa fosse un modo per dimostrare che, all’ora dell’aperitivo,
sotto la giacca e la cravatta batte un cuore supergiovane. Una sorta di
compensazione musicale, insomma, uno status symbol di non appartenenza, un
tatuaggio sonoro per colmare lacune di personalità. Non è solo un problema che
riguarda i Goat, ma è un vero e proprio trend generazionale: scegliere la
musica non perché sia buona ma perché ci faccia apparire più interessanti.
Commune, come dicevo, non è un brutto disco, è semmai un disco insincero e senz’anima,
traboccante di sonorità deja vù che orecchie meno abituate percepiranno come
nuove. Ma è un ascolto che fa curriculum e quindi se ne parlerà parecchio. Per
quanto mi riguarda, assolutamente prescindibile.
Originari di Leicester e composti da membri
provenienti da due gruppi post punk, gli inglesi iLIKETRAINS e gli
scozzesi The Twilight Sad, gli Her Name Is Calla escono in questi giorni con il
loro terzo album in studio, successore di Heritage (debutto datato 2008) e del
ponderoso The Quiet Lamb (dodici canzoni, più di un'ora e un quarto
di musica, uscito nel 2010). Band dal nome estremamente suggestivo, discepoli
di un post rock ricco di chiaroscuri, insidioso, cinematografico e fortemente
onirico, gli HNIC vengono portati in palmo di mano dalla critica
specializzata, pur avendo uno scarsissimo ritorno commerciale. E non potrebbe
essere diversamente, visto che i quattro ragazzi di Leicester seguono il
proprio percorso artistico senza guardare in faccia nessuno, ostinandosi a
ordire trame complesse in cui confluiscono cupe dissertazioni elettroniche,
folk dal mood profondamente gotico, sferragliamenti post rock, arrangiamenti
d'archi dagli echi presbiteriani, silenzi, rumorismo assortito, epici
crescendo e visioni romantiche. Un mix decisamente ben strutturato,
eppure di difficile digestione, che impone, come nel caso di Navigator, un
ascolto attento, ripetuto, paziente, volto a cogliere le infinite sfumare di
una scaletta che non lascerà di certo indifferente l'ascoltatore propenso al
viaggio e alla sperimentazione. Merito della voce espressiva del
leader Tom Morris e di un songwriting che risulta nel contempo spontaneo e ragionato,
che alterna momenti dai contorni cesellati ad altri di un
lirismo urgente, debordante, ferocemente intenso. Dodici "canzoni"
che tracciano un percorso complesso, mai lineare, più facilmente agibile nel
folk iniziale di I Was The Back Of The Nightingale e nelle citazioni
radiohediane di Ragman Doll, impervio nelle vette frastagliate di Dreamlands,
scontroso nei campionamenti di The Roots Run Deep,
sconvolgente nell'ascensione sublime dell'epica Burial. Un cammino lungo
un'ora, che vi lascerà esausti, straniati, ma felici.
Ascoltatori carissimi, sono lieto di annunciarvi che
RadioPaneSalame, dopo la pausa estiva, è sul punto di tornare a trasmettere!
Tutto avrà inizio con un evento live programmato per sabato 6 settembre, a
partire dalle ore 21.00. Nel corso della trasmissione verrà presentato
il palinsesto 2014/2015, arricchito di nuovi,
interessantissimi programmi. Si preannuncia pertanto una stagione
esplosiva: a fianco dei vecchi cavalli di battaglia della radio, arriveranno
inedite rubriche che avranno per oggetto cinema, televisione, letteratura e,
udite udite, anche calcio. Insomma, il raggio d'azione della radio si amplia,
trasmetteremo sette giorni su sette, e ogni giorno avrà la sua
peculiarità. Per chi si fosse affezionato, torneranno i compagni sbronze
di Alta Gradazione, le prurigini di Wanda, le pillole monografiche di Lozirion
e Affettati Misti, il talk show che tutto il mondo ci invidia. Per quanto mi
riguarda, anche quest'anno non mancheranno le scanzonature di School Of Rock,
gli approfondimenti sul rock a stelle e strisce di Americana (attenzione perchè
quest'anno avremo una trasmissione gemella che si occuperà di letteratura
americana) e ritornerà Dalla Parte Del Killer, trasmissione ispirata a Come Un
Killer Sotto Il Sole, unico blog al mondo che se ti va lo leggi, e se non ti va
lo ascolti. A questo piatto già ricco, si aggiungerà un'ulteriore pietanza
gustosissima, dal momento che è iniziato il conto alla rovescia
per l'apertura del nuovo sito - www.radiopanesalame.it -
dove potrete seguire tutte le trasmissioni della radio e non solo.
Ciliegina sulla torta: RadioPaneSalame, grazie anche
alla collaborazione dell'OraBlu, prenderà il posto di Radio Popolare come radio
ufficiale della sesta edizione de Il Mondo Nel Quartiere, evento
multietnico che si terrà il 5 ottobre a Baranzate di Bollate. Mica pizza e
fichi !
Non mi rimane che salutarvi e augurarvi buon ascolto e
buon divertimento con RadioPaneSalame. Come una radio, più di una radio.
Per un grande disco ci vogliono due recensioni, due diversi
punti di vista, due voci che, nello specifico cantano nello stesso coro, eppure
con due tonalità leggermente sfasate. E’ quello che abbiamo pensato io e
Alessandro, quale primo atto concreto di una collaborazione a distanza volta a
promuovere la cultura americana, passione che infiamma entrambi. Ci saranno
altri scritti, ci sarà la radio, ci sarà a breve un’associazione che ci
porterà, lo speriamo, a fare grandi cose. Vi terremo aggiornati. Nel frattempo,
godetevi questo disco dei Counting Crows (in uscita nei negozi a partire dal 16
settembre), perché è davvero una bomba.
Ogni
nuovo disco dei Counting Crows segna un periodo. E' inevitabile, se si pensa
che non hanno mai brillato per prolificità. August
and everything after (1993) veniva da un lotto di canzoni tra
cui scegliere, con una scrittura talmente elevata da provocare
vertigini, e Recovering
the satellites (1996) ha sfruttato la scia del successo planetario
(tutto meritato) del suo predecessore, scegliendo un approccio più rock ed
elettrico, secondo molti pastrocchiando un po' troppo con suoni e testi,
secondo il sottoscritto registrando un raro capolavoro di chitarre, pianoforte
e melodia.
Con
This desert life si
è cercato di ancorarsi alle radici del rock americano per andare oltre, e
sperimentare qualche nuova forma canzone, a volte allungata altre volte ridotta
al minimo concesso (strofa/ritornello e via). Rispettando la regola di un disco
ogni tre anni, ecco poi Hard
Candy (2002) forse il punto meno alto della loro discografia, con
tante idee non messe a fuoco, l'allargamento della formazione a sette elementi
(solo oggi hanno probabilmente trovato la giusta potenzialità di un gruppo così
ampio) e la necessità di cercare per forza un singolo ("American
Girls", troppo pop anche se sempre con il gusto Counting Crows). Dopo il
2002, in ben dodici anni, due soli dischi. Prima lo stupendo Saturday Nights & Sunday
Mornings , anno di grazia 2008, con una prima parte volutamente
sopra le righe (chitarre, chitarre e chitarre) ed una seconda volutamente
riflessiva. Ed ora, Somewhere
under wonderland, il disco che prima o poi i Counting Crows
dovevano fare.
Innanzitutto.
I Counting Crows hanno tutte le caratteristiche per diventare la
rock/folk/americana band più caratteristica di un intero genere. L'ugola
talentuosa di Adam Duritz, uno di quelli capaci di cantare l'elenco telefonico
facendoci piangere dalla passione e dall'emozione, a cui aggiungere una
penna letteraria oggi senza pari; il genio di Charlie Gillingham ad armeggiare
tra piano, organo e mellotron, forse il più completo ed al contempo il più
vintage dei tastieristi in circolazione; la chitarra poderosa di Jimmi
Immergluck e quella maliziosa, sempre pronta ad assoli che si stampano in testa
come carta carbone di Dan Vickrey; un chitarrista ritmico (nonché ottimo
produttore ed armeggiatore di suoni) come David Bryson e poi una sezione
ritmica creata rubando i migliori elementi alle band del genere. Non sempre da
un buon arsenale si ricava un'arma degna delle aspettative, ma se già il
precedente disco era da mettere in bacheca tra le cose migliori mai sfornate, Somewhere under wonderland sono
i Counting Crows che si presentano nella loro veste più rilassata, senza dover
dimostrare nulla a nessuno.
Il
disco si apre e si chiude con due immense canzoni. "Palisades Park",
scelto anche come singolo, rivela il grado di libertà che Duritz abbia
raggiunto come cantante, leader e scrittore. Più di otto minuti di canzone,
introdotti da un minuto di tromba e piano, per poi esplodere in un pianoforte
come non se ne sentono da anni. Adam canta, narra, rincorre le parole senza
soluzione di continuità e nel finale si lascia andare ad un flusso della
coscienza che ricorda (finalmente) le sue improvvisazioni dal vivo.
"Palisades Park" riesce, per la prima volta nella loro discografia,
ad imprimere su un disco di inediti la profondità di Duritz ed il suo rapporto
con la parola.
Dalla
parte opposta del disco, un brano come "Possibility Days", più
romantica e nel solco della tradizione dei Corvi, ma per fortuna che ancora
oggi riescono a scrivere brani così toccanti. Il suo
incipit narrativo:
"It was a cold 3 A.M. at JFK Guess you stayed 'cause you wanted to stay"
dice
già tutto di quanto la vita di questo enorme paese sia nella penna di questo
grande talento.
In
mezzo a queste due canzoni c'è un po' di tutto. Il country rock di "Cover
up the sun", l'impeto di "Dislocation" (e qui Recovering the satellites è
dietro l'angolo), le atmosfere unplugged della stupenda "God of ocean
tides" , in realtà la cosa più vicina a Saturday
Nights & Sunday Mornings. Ma se c'è un brano da nominare per
capire cosa sono oggi i Counting Crows, allora "Scarecrow" è la
miglior presentazione possibile. Un mid-tempo dal gusto vintage, belle chitarre
in evidenza ma senza invadere troppo, un Hammond che entra nella canzone come
una lama nel burro, una melodia cristallina ed Adam che gioca con le parole
come un raffinato professore di semantica che gioca con assonanze e doppi sensi
:
"you know what I know about the bedroom boys And the undercover
Russians in a pink Rolls Royce They bang the drum, she
sets the beat They carry Miss America
out into the street She sings snowman,
scarecrow, John Doe, buffalo!" Eccoli i Counting Crows
del 2014, molto più consapevoli del loro potenziale. Forse il precedente Saturday Nights & Sunday
Mornings poteva contare su una scrittura ed intuizioni più
ispirate, ma Somewhere
under wonderland è uno di quei dischi da portarsi in giro per il
mondo e non aver bisogno di altro. Per chi scrive, la migliore
rock band del mondo.
Non è un caso se quando mi trovo a parlare dei
Counting Crows il mio discorso parta sempre dal loro esordio, da August
And Everything After, pubblicato nell'anno di grazia 1993. Quel disco, tra i
più importanti della mia vita e legato a un'infinità di bei ricordi, non solo
restituì passione a tanti cultori di Americana, che in quegli anni '90 si
trovarono di colpo ad avere le tasche piene di pietre preziose (i Jayhawks di
Hollywood Town Hall, i Black Crowes di The Sothern Harmony), ma avvicinò
al genere tanti giovani stufi dei suoni ruvidi provenienti da Seattle
(ormai peraltro in fase di normalizzazione). Potremmo discutere ore sulla
preminenza di questo gruppo sull'altro o sul primato di bellezza dei
dischi del periodo; ciò nonostante, la mia convinzione personale è che
l'esordio dei Counting Crows avesse qualcosa in più, un carico di suggestioni
che rendeva August... non solo un disco intensissimo, ma soprattutto un
disco sostanzialmente diverso. Non parlo solo di suono o di un songwriting
senza sbavature: ciò che rendeva davvero unico quell'esordio era un mood
malinconico ai limiti della disperazione e il cantato recitativo
e traboccante di lacrime di Adam Duritz. Segni distintivi che in
seguito divennero il vero limite delle composizioni della band, non sempre in
grado di trovare misura e sintesi, ma spesso preda di
un'autoindulgente verbosità. Da questo punto di vista, Somewhere Under Wonderland
è una sorta di nuovo inizio, un disco che si sgrava della pesante eredita di
August, che abbandona certi pattern ormai usurati e che rilancia la band oltre
quella recenzione in cui la musica di Duritz e compagni aveva trovato terreno
fertile per replicarsi con mestiere, ma senza grande fantasia. Un nuovo inizio,
dicevamo, che presenta due sostanziali novità. Come mai prima, le canzoni si
presentano equilibrate, dirette, asciugate da fronzoli e orpelli; e come mai
prima, Somewhere Under Wonderland suona come un disco rock, prepotentemente
rock, senza che, tuttavia, questa nuova carica di energia venga ad
assorbire per intero il lato più malinconico e meditabondo che da sempre
caratterizza il sound della band californiana.
Un lavoro essenziale e diretto
che, per converso, si apre con Palisades Park, una delle canzoni più
lunghe e complesse della discografia dei corvi: otto minuti
abbondanti, eppure non una nota in più o fuori posto, una piccola suite in
cui tutto è necessario, un capolavoro a incastro (intelaiatura jazzy,
digressioni improvvise, ritornello scalpitante) in cui domina la voce
multiforme di Adam Duritz, che sceglie però la strada della
narrazione a scapito della consueta recitazione. E che Palisades Park sia una
canzone immensa, non vi sono dubbi: finisce e hai già voglia di
riascoltarla, e a ogni nuovo ascolto scopri un particolare che ti era sfuggito,
un'intonazione, un leggero controtempo, un palpito, un battito del cuore. Tanto
bella che se anche il disco finisse ora, saremmo definitivamente appagati,
inebriati da un ritorno che nessuno avrebbe scommesso così intenso.
C'è dell'altro però, ci sono altre otto canzoni (siamo al minimo storico)
che costituiscono una scaletta coesa, compatta, sostanziosa, a tratti, persino
possente. Earthquake Driver e Dislocation mostrano i muscoli del rock ma
possiedono anche grandi potenzialità radiofoniche; Scarecrow pesca un
ritornello dalla melodia cristallina; Elvis Went to Hollywood regala un
inusitato tripudio di chitarre; God Of Ocean Tides ritorna esattamente là, dove
tutto ebbe inizio, somewhere in the middle of America, mentre il country rock
di Cover Up The Sun suona come un classico dei Greatful Dead in prospettiva
2.0. Concludono il disco John Appleseed's Lament, l'unico brano "normale
" in scaletta, e Possibility Day, in cui Duritz vola altissimo,
regalandoci una delle "sue" canzoni, quattro minuti
acustici, intimi, commossi. Pronto ovviamente a essere smentito da
chiunque, ho l'impressione che per trovare un disco dei Counting Crows così
bello e convincente debba tornare indietro nel tempo fino a Recovering The
Satellites. Era il 1996 e sono passati quasi vent'anni.
Tuttavia, questa resta una delle poche band del pianeta che,
quando è in credito di ispirazione, riesce ancora a far battere il mio cuore di
un amore appassionato e sincero.