venerdì 5 giugno 2015
giovedì 4 giugno 2015
mercoledì 3 giugno 2015
THE STRAY BIRDS – BEST MEDICINE
Uno dei dischi più
interessanti usciti quest’anno è passato da noi praticamente sotto silenzio.
Niente di anormale, per carità: la musica tradizionale americana, quella che
identifichiamo con il termine country o blue grass per intenderci, è
particolarmente indigesta all’ascoltatore nostrano. Provate a fare una breve
ricerca su internet a proposito degli Stray Birds e non troverete un solo rigo
scritto in italiano. Totale disinteresse, insomma, per un disco che meriterebbe
ben altra attenzione, perché ricco di momenti evocativi e di canzoni di un
livello qualitativo ben al di sopra della media di genere. Ma andiamo con ordine.
Gli Stray Birds, terzetto proveniente da Lancaster, Pennsylvania, nascono nel
2012 e esordiscono subito con un album omonimo, che la critica americana non
esita a inserire tra i dieci miglior dischi folk dell’anno. Maya de Vitry,
Oliver Craven e Charlie Muench, tutti e tre polistrumentisti, sono la classica
band bluegrass, che utilizza strumenti tradizionali (banjo, mandolino, violino),
si diverte con gli interplay vocali (splendida la voce della de Vitry) e abbraccia
un repertorio contenente canzoni originali e alcuni tradionals a stelle e
strisce (sono due quelli che compaiono in Best Medicine). Tuttavia, la band si
colloca distante da quella corrente che oggi va per la maggiore e che viene
definita progressive bluegrass (Punch Brothers, Trample By Turtles, etc) per
attestarsi invece su posizioni più decisamente ortodosse (Old Crow Medicine
Show). Best Medicine è dunque un album che suona deliziosamente old time, che
guarda ai grandi classici come Bill Monroe, Townes Van Zandt e The Band, non
disdegnando tuttavia qualche strizzatina d’occhio a melodie più decisamente pop
(strano a dirsi, ma tra le dichiarate fonti di ispirazione del gruppo ci sono
anche i Fab Four), per raccontarci storie radicatissime nella tradizione statunitense
(l’America rurale di Feathers & Bone e Simple Man, il massacro degli
indiani a Wounded Knee nella potente Black Hills). Dodici canzoni di ottima
fattura a partire dalla title track, primo singolo tratto dall’album, fino alla
conclusiva e malinconicissima Might Rain, frutto della penna di Maya de Vitry,
che dimostra di possedere, oltre a una splendida voce, anche una scrittura ricca
di suggestioni adorabilmente retrò.
VOTO: 7,5
Blackswan, mercoledì 03/06/2015
martedì 2 giugno 2015
GOV’T MULE – BACK AT THE BEACON
Tempo di celebrazioni per i
Gov’t Mule, che in pochi mesi hanno rilasciato un consistente numero di album
dal vivo per celebrare i vent’anni di carriera: The Dark Side Of The Mule,
dedicato alla musica dei Pink Floyd, Sco – Mule, insieme al celebre chitarrista
jazz, John Scofield, Dub Side Of The Mule e Stoned Side Of The Mule, usciti
entrambi nel mese di aprile. Insomma,
una sovrabbondanza di titoli (ma per i cultori una vera gioia), a cui va ad
aggiungersi questo eccitantissimo Back At The Beacon, che non è una pubblicazione
ufficiale, bensì un bootleg che è possibile reperire in rete oppure nei negozi
specializzati. E’ la notte del 31 dicembre del 2014 e i Mules si ritrovano sul
palco del Beacon Theater (leggendario locale di Broadway, che peraltro è la
casa newyorkese degli Allman Brothers Band) per il consueto concerto di fine
anno. Dopo una prima parte di show dedicata ai classici del repertorio del
gruppo (Banks of the Deep End, Fool’s Moon, Railroad Boy, Lay Your Burden Down,
tra le altre), inizia tutta un’altra musica. Alla band, già calda dopo più di
un’ora di live act, si aggiunge la voce di Myles Kennedy, frontman degli Alter
Bridge e cantante nei dischi di Slash, e iniziano i fuochi d’artificio, perché da
questo momento in poi vanno in scena le canzoni degli Ac/Dc. Tutte, o almeno
quasi tutte le più famose, ci sono: da Highway To Hell a TNT, da Night Prowler
a Shoot To Thrill da Hells Bells a Whola Lotta Rosie, per citarne qualcuna. Se
Myles Kennedy ci mette un po’ a carburare e a entrare in sintonia con la
serata, i Gov’t Mule si confermano invece la più grande jam band in
circolazione, capace di suonare qualsiasi repertorio (rock, blues, jazz), senza
fare un plissè, ma anzi prendendosi il rischio di affrontare grandi classici,
evitando operazioni di copia incolla e mettendoci sempre qualcosa di personale.
La qualità del bootleg (composto da quattro cd) è ottima ma non eccelsa, e dal
momento che la registrazione è in presa diretta, talvolta occorre attendere
qualche secondo in più del lecito perché la band inizi a suonare un nuovo
brano. Poco male, si tratta pur sempre dei Gov’t Mule che suonano gli Ac/dc con
il contributo di Myles Kennedy. Che è un po’ come farsi Charlize Theron travestita
da Scarlett Johanson mentre Megan Fox è lì a fianco ad applaudire. Figata
pazzesca.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 02/06/2015
lunedì 1 giugno 2015
LA BALENA BIANCA S’E’ SPIAGGIATA
Chissà se Renzi ha vinto almeno alla Playstation... |
Dopo quasi vent’anni di
militanza tra le fila della sinistra più radicale, questa mattina mi sono
ritrovato a compiacermi per le vittorie di Toti in Liguria e di Zaia (er
pomata) in Veneto. Toti e Zaia, porca putrella. Due insignificanti mestieranti
della politica nostrana, che hanno come unico merito quello di essere meno
indigesti dell’obbrobrio rappresentato dalle candidature di Raffaella Paita
(che da questo momento in poi probabilmente si preoccuperà in modo esclusivo
delle proprie pendenze penali) e di Alessandra Moretti (asfaltata e doppiata dalle
armate leghiste nel suo Veneto). Mi vien da piangere e da ridere. Da piangere perché,
salvo alcuni rari casi (Emiliano in Puglia e Casson a Venezia) la sinistra
italiana (sempre ammesso che si voglia parlare di sinistra a proposito del Pd)
non ha saputo rinnovarsi ed è qualitativamente ferma alla logica della faccia
carina e del solito ripugnante clientelismo (le candidature della Paita e di De
Luca sono un rutto in faccia alla legalità). Da ridere, perché dopo solo un
anno e poco più, il renzismo sembra aver già imboccato il viale del tramonto.
Il Pd, infatti, esce numericamente dimezzato dopo il tanto sbandierato 41% ottenuto
nella scorsa tornata elettorale europea. Certo, il contesto era diverso e anche
il numero deli elettori chiamati alle urne: ma, a parità di astensionismo, le
cinque regioni conquistate dai dem, hanno il sapore amaro di una vittoria di
Pirro, visto che il consenso a livello nazionale è sceso al 22% e spiccioli.
Renzi ha pagato la protervia con cui ha gestito il caso De Luca, e le porcate
dell’Italicum e della riforma della scuola, ma soprattutto non ha pagato gli 80
Euro, con cui aveva blandito e abbindolato gli elettori alle scorse Europee. Se
Atene piange, però Sparta non ride: a parte la vittoria di Toti in Liguria, Forza
Italia scende a percentuali da prefisso telefonico, tanto che il povero e
bollito Berlusconi (che sbaglia comizio elettorale e, a Segrate, si ritrova a
fare un bizzarro endorsement per il candidato del centro-sinistra) ormai fa
quasi tenerezza. Vincono la Lega, che Salvini ha saputo strappare dal baratro
degli scandali con una martellante e becera campagna mediatica (dicono parli
alla pancia degli italiani, ma secondo me interloquisce con qualcos’altro, posto
più in basso e a retro) e il Movimento 5 Stelle, che oltre ad avere candidati
puliti e preparati, ha saputo liberarsi finalmente dalla zavorra rappresentata
dal duo Grillo – Casaleggio. Vero trionfatore di questa elezione è però
nuovamente l’astensionismo, che viaggia ormai su percentuali bulgare del 50%,
fidelizzando la metà dell’elettorato italiano. Un tema, questo, su cui la
nostra classe politica si soffermerebbe con molta attenzione, se avesse a cuore
gli interessi del paese e non le poltrone con annesso vitalizio. Per il
momento, quindi, accontentiamoci di veder spiaggiata la balena bianca delle
truppe renzian-berlusconiane, in attesa, alla prima occasione, di mandarli a
casa tutti. Definitivamente.
Blackswan, lunedì 01/06/2015
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