giovedì 8 giugno 2023

FRIDAY I'M IN LOVE - THE CURE (Fiction Records, 1992)


 

La canzone più famosa dei Cure, amata anche da chi i Cure non li conosce, e, stranamente, amata anche dai fan della band, che la trovano un’inusuale, ma ben riuscita digressione dalla narrazione gotica che ha reso la band immortale. Una canzone allegra, che parla d’amore, e che, spesso, sui social viene pubblicata per annunciare l’arrivo del weekend. Sto parlando, ovviamente, di Friday I’m In Love, secondo singolo estratto da Wish, nono album pubblicato dalla gruppo britannico nell’aprile del 1992.

Una canzone talmente ben riuscita e così lontana dal mood ombroso dei Cure, che anche il suo autore, Robert Smith, non si capacitava di come fosse possibile che, proprio lui, il cantore della depressione, potesse averla scritta. Un dubbio lacerante, che tenne per lungo tempo il cantante della band in uno stato prossimo alla paranoia, da cui fece fatica a liberarsi.

A Robert Smith, infatti, piaceva così tanto la progressione degli accordi che era certo di averla rubata involontariamente dalla canzone di qualcun altro. E più ascoltava il parto della propria fantasia, più si convinceva che un brano così perfetto doveva per forza essere venuto in mente a qualcuno prima di lui. Smith ci stava letteralmente perdendo la testa, tanto che a tutti quelli che incontrava, faceva ascoltare il pezzo per avere una conferma che Friday I’m In Love, che profumava di successo lontano mille miglia, non fosse già stata pubblicata precedentemente con un altro titolo. Il cantante arrivò addirittura a stalkerare parenti, amici e semplici conoscenti, che magari chiamava, anche nel cuore della notte, per cantargli la canzone, chiedendo: “questa l’hai mai sentita prima? Come s’intitola?”. Alla fine, quando tutti gli diedero la stessa risposta, e cioè che quella progressione di accordi nessuno l’aveva mai ascoltata precedentemente, Smith si decise a inserire il brano nella scaletta di Wish.

Tra l’altro anche il testo della canzone, spiritoso e leggerissimo, si sposava ben poco con l’immagine che di Smith avevano i suoi fan, e il cantante ha tenuto più volte a rimarcare che, per quanto Friday I’m In Love fosse una stupida e assurda canzone pop, in fin dei conti lo rendeva felice perché dava di sé un’immagine completamente diversa da quella del cantore cupo che tutti immaginavano. Insomma, era una sorta di contrappeso che equilibrava la profonda tristezza di decine di testi scritti in precedenza.

Il brano, che divenne il secondo più grande successo dei Cure (la prima piazza è ancora saldamente in mano a Lullaby) venne utilizzata nella colonna sonora di svariati film e serie tv, e fu anche oggetto di qualche cover, la più famosa delle quali fu interpretata da Natalie Imbruglia. La Imbruglia la inserì nel suo album Male (2015), un disco in cui la cantante australiana, ma naturalizzata inglese, si cimenta con reinterpretazioni di brani scritti da artisti o gruppi maschili. In scaletta ci sono canzoni di autentiche icone come Neil Young, Cat Stevens e Tom Petty, misurarsi con i quali non è proprio quella che si può definire una passeggiata di salute. Eppure, la cantante aveva solo una grande paura, e cioè pubblicare la sua versione di Friday I’m In Love, perché era letteralmente terrorizzata dalla reazione che avrebbero potuto avere i fan dei Cure.   

Nel video musicale che accompagna il brano, il regista Tim Pope cattura la band mentre scherza e suona con oggetti di scena teatrali, su sfondi in continuo movimento. Nella clip compaiono il manager Chris Parry, il produttore Dave Allen, l'ingegnere Steve Whitfield, la truccatrice Michi, e lo stesso Pope che, all’inizio del video, cavalca un cavallo a dondolo, urlando indicazioni da un megafono. Alcune delle immagini rendono omaggio al cinema muto, tra cui il cortometraggio del 1907, The Eclipse: Courtship of the Sun and Moon del regista francese Georges Méliès.

Un’ultima curiosità: La frase di apertura di Friday I’m In Love, "Non mi interessa se il lunedì è blu", è un esplicito omaggio alla hit dei dei New Order, Blue Monday.

 


 

 

Blackswan, giovedì 08/06/2023

martedì 6 giugno 2023

Il Filoellenismo Europeo

Il 19 Aprile 1824, il poeta inglese Lord Byron muore a Missolungi, in Grecia, a causa di gravi febbri reumatiche. Ma cosa ci faceva Byron in Grecia? 

Combatteva, e combatteva per l'indipendenza della Grecia dall'Impero Ottomano.

Lord Byron sul  letto di morte

Cosa lo spinse a tanto sacrificio? Perche', peraltro nel momento piu' alto della propria fama, decide di imbarcarsi e combattere per la liberta' di un altro Paese?

La risposta si trova in quella corrente di pensiero, che nacque alla fine del diciottesimo secolo in molti paesi Europei, conosciuta come Filoellenismo. Sentimento di vicinanza di natura artistica, lettararia e culturale alla Grecia antica ma anche moderna. Si crede sostanzialmente che la Grecia sia la culla della civilta' europea. Ed allora, come nacque tale sentimento in tutta Europa?

Verso la fine del 700 ed agli inizi dell'800 i nobili europei solevano viaggiare per l'Europa mediterranea, il cosidetto "Gran Tour", che diede vita a una folta letteratura di viaggio, e proprio la Grecia era una delle tappe piu' importanti di questi "scappate culturali" nel sud Europeo. Le misere condizioni in cui si trovavano a vivere i greci sotto il regno Ottomano colpirono molto le coscienze delle aristocrazie europee. Inoltre, nello stesso periodo sono numerose le scoperte archeologiche che riportano all luce tesori e monumenti dell'antica civilta' ellenistica, che colpiscono molto l'immaginario collettivo. Da qui nasce il sentimento filoellenico, che appoggia il nazionalismo greco e che anche auspica il ritorno di questo popolo agli antichi splendori.

Ma come spesso accade, gli interessi pratici e politici iniziarono a prevalere sugli ideali romantici. La rivoluzione greca e' il primo moto di indipendenza a scoppiare in Europa e soprattutto ad avere successo.  Inizia nel Marzo del 1821 con varie insurrezioni nel Peloponneso e viene immediatamente riconosciuta dalla Russia dello Zar Alessandro, molto interessata al raggiungimento del Bosforo. L'Inghilterra lo fara' solo due anni dopo. Sono tre le grandi potenze europee che intervengono in questa guerra: la Russia per arginare l'impero Ottomano da una parte e per mire espansionistiche verso l'Egeo dall'altra, la Francia e l'Inghilterra per gli stessi motivi "antiturchi", ma soprattutto per arginare la stessa Russia e la sua espansione non desiderata nel Mediterraneo.

La guerra e' subito cruenta e vari episodi di estrema violenza la contraddistinguono, come per esempio il massacro degli abitanti dell'isola di Chio da parte dei Turchi, immortalato nella famosa tela del pittore francese Delacroix.

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Le notizie di quel che accade in Grecia circolano per tutta Europa ed alimentano non poco quel sentimento filollenista e nazionalista. Molti intellettuali italiani si occupano della lotta per la liberta' della Grecia nelle loro opere (Foscolo e Monti gli esempi piu' importanti). Altri, come Lord Byron, di cui abbiamo detto, decidono di imbarcarsi ed impugnare le armi per combattare personalmente per quegli ideali di liberta' e democrazia che il filoellenismo porta con se'. Insomma un vero e proprio volontariato filoellenico internazionale. Qualcosa di simile si vedra' un secolo dopo durante la Guerra Civile Spagnola, quando volontari di tutto il mondo corsero in Spagna per lottare per la causa Repubblicana.

L'indipendenza della Grecia si raggiunge nel 1830, ma le molte turbolenze interne allo Stato appena nato offrono alle potenze europee il pretesto per imporre alla Grecia una monarchia, sul cui trono viene posto il principe Ottone di Baviera nel 1932, anno in cui viene firmato il trattato di Costantinopoli con cui anche l'impero Ottomano riconosce il nuovo Stato.

Una volta raggiunta l'indipendenza il sentimento filoellenico inizia ad affievolirsi in tutta Europa, tranne che in Italia, dove la lotta Risorgimentale inizia a prendere corpo e la indipendenza greca viene vista come esempio di sacrificio popolare e capacita' rivoluzionaria cui guardare.

Offhegoes, martedì 06/06/2023

lunedì 5 giugno 2023

SPARKS - THE GIRL IS CRYING IN HER LATTE (Island, 2023)

 


I fratelli Ron e Russel Mael, ovvero gli Sparks, stanno sulla cresta dell’onda da più di mezzo secolo, ed è incredibile come, a tutt’oggi, a dispetto di una discografia corposa e avvincente, siano ancora considerati come fenomeno di nicchia. Cinquant’anni di carriera, partita quando i due hanno iniziato a fare musica insieme a Los Angeles, registrando le loro prime canzoni sotto il nome di Halfnelson alla fine degli anni '60. Era il periodo di massimo splendore per quella musica che nasceva sullo Sunset Strip, eppure gli Sparks, autoproclamatisi anglofili, guardavano dall’altra parte dell’oceano, incamerando influenze dai grandi gruppi britannici del momento, fino a quando, dopo cambi di formazione, nel 1973, si trasferirono in Inghilterra, la loro patria musicale putativa, dove firmarono un contratto con la Island Records e presero ufficialmente il nome Sparks.

Nel 1974, quando pubblicarono quel capolavoro innovativo che prende il nome di Kimono My House, i due fratelli arrivarono fino al numero due delle classifiche del Regno Unito con il singolo "This Town Ain't Big Enough For Both Of Us", costruendosi una solida base di fan, e poi, nei decenni che seguirono, animati da un desiderio inesausto di sperimentare, imboccarono diverse strade, immergendosi nella new wave, nel synth pop e nel glam rock, il tutto declinato sempre attraverso la loro peculiare visione bizzarra e aperta alla contaminazione. Sono diventati di moda, e poi scomparsi dai riflettori mediatici, e quindi di nuovo in auge, sono entrati in classifica a intervalli regolari, ma, quel che è certo, non sono mai riusciti a sfondare completamente, troppo raffinati e intelligenti per raggiungere il grande pubblico, ma talmente stimati e seminali, da ispirare generazioni di musicisti.

Su di loro si sono riaccesi i riflettori negli ultimi anni, grazie a un disco imprevedibile e brillante come A Steady Drip, Drip, Drip del 2020, ad Annette (2021), un bizzarro musical acclamato dalla critica, che hanno co-scritto con il regista Leo Carax, e a un documentario, The Sparks Brothers, a loro dedicato dal regista Edgar Wright, che ne ha raccontato l’atipica carriera. 

The Girl Is Crying In Her Latte batte, dunque, il ferro finchè è caldo, e vede il duo lanciare sul mercato il ventiseiesimo album in studio, che segna anche il ritorno, dopo ben quarantasette anni, nelle scuderie della Island Records. Un’opera che, nuovamente, coglie il centro del bersaglio, grazie a un concentrato inafferrabile, bizzarro e obliquo di synth pop, dance sbarazzina, partiture orchestrali, melodie ipnotiche, echi anni '80, testi ironici e corrosivi, e quel quid di cialtronesca sfacciataggine che li rende unici. Canzoni che germogliano nel terreno condiviso fra intelligenza e divertimento, un binomio irresistibile.

La title track apre l’album con un andamento ripetitivo, ipnotico, distante, e un ritornello percussivo e scintillante adombrato dalle parole “così tante persone piangono nel loro latte”, un verso che fotografa, meglio di un saggio, il tormento di questi anni bui e il dolore celato agli occhi del mondo di mille e mille solitudini. Una canzone che inizialmente lascia perplessi, ma che, ascolto dopo ascolto, diventa irresistibile, e crea suggestioni, corroborate da un video musicale in cui è protagonista l'attrice Cate Blanchett, che balla vestita di un brillante abito giallo.

"Veronica Lake" è un’ode all’attrice e femme fatale americana, a cui il governo americano chiese di cambiare pettinatura, perché le operaie che la emulavano rimanevano spesso incastrate nei macchinari, e si muove sugli stessi binari della title track: elettronica ipnotica, synth arrangiati anni ’80 e melodia che si manda a memoria in un attimo.

Ironia e sagacia permeano, invece, "Nothing Is Good As They Say It Is", puro europop alla Abba, che racconta le disavventure di un neonato che dopo ventidue ore di vita si è già rotto il cazzo di vivere in un mondo in cui tutto “bruttezza, ansia, finta abbronzatura”.

C’è tutto lo Sparks pensiero in queste quattordici canzoni che passano dall’incalzante incedere di "Mona Lisa's Packing Leaving Late Tonight", all’elettronica robotica di "You Were Meant For Me", dall’ambientazione bucolica di "It’s Sunny Today", posta malinconicamente a metà strada fra Beatles e Devotchka, al pop acustico dal retrogusto sixties di "It Doesn't Have To Be That Way", vertice di un disco ispiratissimo.

In The Girl Is Crying In Her Latte si trova tutto ciò che ha reso gli Sparks una band unica nel suo genere, capace di generare una miscela affabulante tra pop senza tempo, elettronica progressiva, orchestrazioni avvolgenti e una scrittura acida e corrosiva, che fa delle loro liriche uno dei punti di forza della proposta. Una musica, quella del duo, che, nonostante i decenni trascorsi, non mostra nemmeno una ruga, ma continua a suonare innovativa, seducente e lontana dalle mode, che nel corso del tempo non sono mai state capaci di seguire la visione eccentrica e inimitabile degli Sparks.

VOTO: 8

GENERE: Pop, Elettronica

 


 

 

Blackswan, lunedì 05/06/2023

venerdì 2 giugno 2023

LINKIN PARK - METEOREA (Warner Records, 2023)

 


Per tutti coloro che seguivano la scena metal a inizio millennio, Meteora dei Linkin Park è un album che non dovrebbe aver bisogno di presentazioni. Rilasciato nel marzo 2003, il seguito di Hybrid Theory (2000), folgorante debut album della band losangelina, fu un successo immediato, che dominò tanto la scena mainstream che quella alternative del periodo.

Fratello minore del suo predecessore, Meteora affina, attraverso una produzione impeccabile, il suono dei Linkin Park, in un momento in cui il movimento nu metal/crossover sta implodendo. Trentasei minuti per tredici canzoni, quasi tutte potenziali singoli, plasmate in un mix perfetto di rombanti chitarre, elettronica e hip hop, che poggia sull'architrave del sincronizzato interplay vocale fra Chester Bennington e Mike Shinoda. Melodie uncinanti agitate da rabbia, disperazione, nichilismo e quella struggente malinconia che animava la scrittura del povero Bennington.

La band ha curato personalmente questa riedizione, cercando di dare un senso al ventesimo anniversario di un disco che ha inciso profondamente sulla storia del metal americano degli anni ‘00. Se infatti molti si sarebbero accontentati di un semplice remaster, il gruppo, oltre ad aver scelto un artwork alternativo, ha scavato negli archivi, pescando tra il materiale partorito nell’anno abbondante del processo di registrazione del disco, mettendo insieme con intelligenza una raccolta esaustiva di demo, di brani live e di rarità inedite.  

Poiché il disco vendette più di sedici milioni di copie, è lecito aspettarsi che molti lettori già possiedano l’opera originale.  Tuttavia, a prescindere dai contenuti extra, questa nuova versione è rimasterizzata in modo efficace, tanto da togliere un po’ di polvere a un disco che è clamorosamente figlio dei propri tempi, anche se, a ben ascoltare, è invecchiato molto meglio di tanti coevi album di nu metal.

Meteora è un lavoro che ricalca le orme di Hybrid Theory, che preferisce alla dinamicità del groove un muro sonoro costruito con intelligenza e sapiente furbizia, e che inanella, per l’ultima volta nella storia della band, un filotto di canzoni memorabili, tra le quali è d’obbligo ricordare "Faint", "Numb", "Somewhere I Belong", "Easier To Run" e "Breaking the Habit". La scaletta, inoltre, viene chiusa con Lost, un brano splendido recuperato dalle sessioni di registrazioni e che originariamente venne scartato per far posto a "Numb". Non si tratta però di chincaglieria, ma di un vero e proprio gioiellino, peraltro rifinito alla perfezione, che innesca palpiti nostalgici, perchè riascoltare una nuova canzone con la voce di Chester Bennington, dopo la sua prematura scomparsa, è un vero e proprio tuffo al cuore per tutti coloro che hanno amato visceralmente i Linkin Park.

Per coloro che sono disposti a spendere un bel po’ di soldini, è in vendita un cofanetto super deluxe che contiene, oltre al disco originale, due dischi live, due DVD contenenti numerosi filmati di concerti, un artbook, stampe esclusive e un documentario che racconta la realizzazione di Meteora. Non si scoraggino, però, tutti gli altri: l’edizione di tre cd o 4 LP è altrettanto intrigante e dà una visione completa dello stato di forma e di ispirazione della band durante il periodo di gestazione dell’album. Ultima annotazione: nel disco live troverete una versione di "One Step Closer" con ospite alla voce Jonathan Davis dei Korn e una feroce cover di "Wish" dei Nine Inch Nails.

 


 

 

Blackswan, venerdì 02/01/2023

giovedì 1 giugno 2023

SERMON - OF GOLDEN VERSE (Prosthetic Records, 2023)

 


Non è inusuale, nel mondo del rock, trovare artisti che usano costumi di scena per presentarsi al pubblico, creando così anche una diretta connessione tra musica e teatralità. Nello stesso ambito, invece, l'anonimato è un fenomeno insolito. Dopotutto, quella del musicista è sicuramente una delle vocazioni più esposte mediaticamente, e la visibilità, si sa, procura fama e, di conseguenza, parecchi vantaggi. Tuttavia, esistono casi, anche se rari, in cui l'identità di un artista, anche di successo, resta totalmente sconosciuta: vengono in mente, per citarne un paio, i Ghost, che usano nomi d’arte, o gli Sleep Token, il cui leader è noto solo con il moniker di Vessel. Ed è il caso, in parte, anche dei Sermon, duo britannico, la cui mente pensante, cantante e polistrumentista si presenta al pubblico con il volto celato da una maschera e si fa chiamare semplicemente Him (l’altro membro è il batterista James Stewart).

Il loro debutto del 2019, intitolato Birth of the Marvelous, pur non essendo stato un successo commerciale, aveva comunque attirato l’attenzione della critica specializzata, che vedeva nella band uno straordinario potenziale, tanto da accostarla a gruppi di altissimo profilo quali Tool e Soen. 

Questo nuovo In Of Golden Verse non solo conferma tutte le belle parole che erano state spese quattro anni fa, ma sancisce un ulteriore passo in avanti a livello di songwriting e produzione. I Sermon, infatti, rifiniscono il loro stile attraverso dieci canzoni in cui una sferragliante inclinazione metal, ai limiti del tribalismo, si sposa a una scrittura complessa, che lambisce territori progressive immersi in una visione cupa e malinconica. L’ossatura dei brani è data dal drumming muscolare e feroce di Stewart, intorno al quale si avviluppano riff di chitarra circolari e taglienti, e melodie di facile presa, ma sempre declinate in una penombra crepuscolare. Su questo impianto musicale, svetta il cantato di Him, sempre pulito, talvolta gridato, la cui intonazione è spesso salmodiante o cantilenante, proprio come se il cantato fosse una sorta di sermone declamato da un oscuro messia.  Come dicevano, la batteria ha un ruolo centrale nelle canzoni dei Sermon, è lo strumento che regge la struttura e segna pesantemente il mood dei brani: arrembante nell’inquieta e oscura "Light the Witch", foriera di esiziali presagi nel sopravanzare tempestoso della minacciosa "Royal", convulsa e travolgente nel blastbeat della conclusiva "Departure".

Tuttavia, i Sermon non sarebbero quello che sono senza Him, la cui voce ha acquisito, rispetto a quattro anni fa, un ulteriore spessore, che riesce ad abbracciare diversi registri, dal carezzevole al rabbioso e al diabolicamente aspro. Se voce e batteria sono i protagonisti principali, e altrettanto vero che il lavoro di chitarra di Him, pur non essendo appariscente, è perfettamente funzionale alle composizioni, spostando di volta in volta il centro di gravità da riff pesanti e ribassati, tremolo minacciosi e lick orecchiabili.

A fianco di brani di brani furiosi come "Wake The Silent", tutta riff roventi e drumming inesorabile, in scaletta compaiono, però, anche brani decisamente più morbidi, come le brevi "In Black" e "Centre", la prima sulfurea, la seconda trasognata, o la lunga e atmosferica "Senescence", in cui i Sermon dimostrano di saperci fare anche quando rinfoderano le armi per addentrarsi in paesaggi dominati da mestizia e malinconia, che evocano alla mente gli svedesi Katatonia. Resta da citare la stellare "The Distance", ipnotizzante nel suo crescendo perversamente malevolo, come nella miglior tradizione Tool, vetta di un album dinamico e brillantemente prodotto, decisamente uno dei dischi prog metal, e ce ne sono già tanti, meglio riusciti del 2023. Tanto che non è assolutamente peregrino immaginare che Of Golden Verse finisca nelle top ten di fine anno di svariate testate metal.

VOTO: 8

GENERE: Progressive Metal

 


 

 

Blackswan, giovedì 01/06/2023