giovedì 20 agosto 2015

LEO BUD WELCH - I DON'T PREFER NO BLUES



Le storie come quella di Leo Bud Welch fanno bene a tutti, sono un messaggio di speranza per coloro che nella vita non mollano mai e hanno sogni che durano oltre la data di scadenza. Nativo di Sabougla ( Mississippi), classe 1932, Welch ha passato oltre cinquant'anni a suonare spirituals e gospel nelle chiese e nelle tende. L'appuntamento con la storia lo aveva mancato quando ancora era giovanissimo: ottimo chitarrista, riuscì a ottenere un'audizione da BB King, ma non poté presentarsi a Memphis perchè privo del denaro sufficiente per il viaggio. La passione per la musica, però, si mantenne viva, e Leo continuò a suonare il suo blues (e il gospel) , anche se lontano dai circuiti che contano e soprattutto senza mai essersi allontanato dalla terra natia. Nel 2014, tutavia, poco prima del compimento degli ottantadue anni, Leo Bud Welch esordisce con Sabougla Voices e, nel 2015, due mesi dopo essere diventato ottantatreenne pubblica il suo secondo disco in studio dal titolo I Don't Prefer No Blues. In compagnia di Jimbo Mathus, che produce anche un brano (l'iniziale Poor Boy), e di un gruppo di veterani originari del Mississippi (Eric Carlton alle tastiere, Matt Patton e Bronson Tew al basso), Welch dispiega il proprio repertorio blues, che guarda molto a Chicago, un pò anche alla campagna, e che non disdegna qualche licenza funk (Too Much Wine) e gospel (la già citata Poor Boy) . Un disco elettrico, solido, convincente, ma, a dire il vero, senza picchi eccelsi. Resta comunque, un'ottima ricompensa per un uomo che ha dato tanto alla musica e un buon ascolto per coloro che il tempo lo dividono in dodici battute.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 20/08/2015

mercoledì 19 agosto 2015

HUGO RACE & THE SPIRIT - THE SPIRIT



Nick Cave & The Bad Seeds, The Wreckery, DirtMusic, Transfargo e Sepiatone sono i nomi che indicano le tappe toccate da un artista in continuo movimento, uno che non ha mai temuto di cambiare e sperimentare. Ipercreatività, certo, ma anche coerenza di fondo nell'esprimere sonorità che sono ormai un marchio di fabbrica, mantenendo (quasi) sempre alta la qualità espositiva dei suoi mille progetti. Oggi, superata da poco la cinquantina, il songwriter australiano fa un passo indietro e torna alla casa madre dei True Spirit, da quel gruppo cioè che lo accompagna dal lontano 1988, e che lui aveva temporanemente lasciato sette anni fa dopo aver pubblicato il convincente 53rd State (2008). La filosofia di Race continua a riverberare in qualche modo la pesante eredità ricevuta dalla militanza con Cave: a farla da padrone sono sempre il blues, qui declinato nella sua accezione americana (e africana), e la notte, un mood crepuscolare supportato da arrangiamenti ricchi e al contempo cupi, inquieti, in odor di acido. Eppure Race ha ormai un suo proprio linguaggio, immediatamente riconoscibile nella struttura dei brani e nello svelarsi di melodie oblique, mai condiscendenti. Il passo è quello lento della ballata, le atmosfere inducono tensione, che solo in pochi casi si scioglie, aprendosi a malinconiche rarefazioni. Domina la voce roca, baritonale e ammaliante di Race, che si trova a suo agio nel creare suggestioni attraverso un cantato che spesso si fa soliloquio affabulante. The Spirit è un disco noir e senza compromessi, l'ennesimo ottimo lavoro di un'artista che grazie alle numerose collaborazioni ha saputo arricchire l'originario seme cattivo di tante personalissime sfumature di buio. Così, sarebbe davvero riduttivo definire questa musica il crocevia perfetto fra il songwriting di Leonard Cohen e i tenebrosi turbamenti di Cave, o etichettare il tutto con la semplicistica definizione di industrial trance blues. Race è semplicemente Race, uno che si è conquistato negli anni una ben definita identità. The Spirit ne è un'ulteriore conferma.

VOTO: 8





Blackswan, mercoledì 19/08/2015