mercoledì 7 aprile 2021

MARVIN GAYE & TAMMI TERRELL - AIN'T NO MOUNTAIN HIGH ENOUGH (Tamla/Motown, 1967)

 


Omnia Vincit Amor et Nos Cedamus Amori, scrisse, secoli fa, Publio Virgilio Marone. L’amore può tutto, vince su ogni cosa, è un uragano che spazza via ogni ostacolo che si frappone fra due cuori che battono all’unisono. Una locuzione che abbiamo letto centinaia di volte, che ha riempito pagine di letteratura e che, molte volte, abbiamo usato, nelle nostre vite, a significare che nulla è più potente di due persone che si amano.

E’ questo il tema che ha ispirato le liriche di Ain’t No Mountain High Enough, celebre canzone pop soul, scritta da Nickolas Ashford e Valerie Simpson nel 1966, e portata al successo l’anno successivo da Marvin Gaye e Tammi Terrell, con uno dei duetti più celebri della storia. Omnia Vincit Amor: non c’è distanza che possa tenere lontano due persone che si amano. Inizia così, la canzone, con un uomo che vuole rassicurare la propria donna sulla forza di un sentimento che non ha limiti e che può tutto. “Ascolta piccola, Non c'è nessuna montagna alta abbastanza, Non c'è una valle tanto profonda, Non c'è fiume abbastanza largo, piccola. Se hai bisogno di me, chiamami. Non importa dove tu sia. Non importa quanto lontano, Non preoccuparti, piccola. Chiama il mio nome, sarò lì in fretta.

Parole meravigliose, che toccano il cuore, che trasmettono la purezza di un amore pronto a percorrere chilometri, non importa quanti, per essere presente e proteggere, confortare, aiutare. La cantano dividendosi le strofe, Marvin e Tammi, come reciproca promessa d’amore, e poi, insieme, in un ritornello così giocoso da sollevare l’ascoltatore a un metro da terra, leggero come un piuma, traboccante di fiducia.

Però, fate attenzione, perché c’è un verso a metà canzone che cambia radicalmente la prospettiva, e mette in luce il motivo della distanza che separa i due amanti. “Remember the day I set you free”: ricorda il giorno in cui ti ho lasciata libera, canta Marvin Gaye, ed è un tuffo al cuore, perché è chiaro che i due ragazzi non stanno più insieme, ognuno ha preso la sua strada.

Ora, quale fosse il senso di quel verso, bisognerebbe chiederlo ai due autori, però possiamo fare delle congetture. Che quelle parole, così intense e poetiche, ad esempio, sgorghino, come spesso succede, in modo un po' teatrale, dalla bocca dell’amante ferito: tu mi lasci, ma sappi che io ti amo, e se mai dovessi avere bisogno di me, io ci sarò sempre. Un modo per suggerire che una porta resterà sempre aperta, un modo, un po' patetico, di aggrapparsi alla speranza.

Si potrebbe pensare, però, a qualcosa di peggio, a un amore tossico. E’ l’aggettivo “free”, ti ho lasciata libera, che richiama l’idea di un rapporto oppressivo e claustrofobico come le pareti di una cella, a cui fa da contrappunto il senso di libertà evocato dalla distanza e dalla natura. Un aggettivo che, volendo, finisce per rendere inquietante quel meraviglioso verso centrale, che risuona quasi come una minaccia: “Nessun vento, nessuna pioggia, Nessun inverno freddo può fermarmi, piccola”.Sono solo illazioni e congetture, ovviamente, che nulla tolgono alla bellezza di una canzone che, tolto quello strano verso, suona come una delle più belle e leggere love song di sempre.

La canzone fu scritta da Ashford & Simpson con l’intenzione di farla interpretare da Dusty Springfield, che si era innamorata della melodia. I due, però, fecero ben presto retromarcia, perché avevano intenzione di intrecciare un proficuo rapporto con la Motown (di cui la Tamla è una divisione). E così fu. Il brano divenne ben presto una vera e propria hit, arrivando alla diciannovesima posizione di Billboard e alla terza piazza delle charts R&B.

E’ curiosa, però, la circostanza che il duetto fra i due cantanti avvenne a distanza, la stessa evocata dalla canzone. Prima registrò la Terrell con i produttori Harvey Fuqua e Johnny Bristol (contrariati dal fatto che la cantante non si fosse imparata a memoria il testo) e poi, in un secondo momento, fu aggiunta la voce di Marvin Gaye.

Il brano fu poi portato nuovamente al successo da Diana Ross, che nel 1970 ne diede un’interpretazione così intensa da farle vincere un Grammy Award.

Breve nota a margine: sei mesi dopo aver pubblicato il duetto, la bella e talentuosa Tammi Terrell, durante un'esibizione live, proprio al fianco di Marvin Gaye, perse i sensi, abbandonandosi fra le braccia del partner. Di lì a breve, le venne diagnosticato un tumore al cervello, che la condusse alla morte in poco tempo, all’età di soli ventiquattro anni. Marvin Gaye, distrutto dal dolore, si ritirò dalle scene per due anni, perché quella perdita, improvvisa e brutale, era davvero una montagna troppo alta da scalare.

 

 

Blackswan, mercoledì 07/04/2021

 

martedì 6 aprile 2021

NEIL YOUNG WITH CRAZY HORSE - WAY DOWN THE RUST BUCKET (Reprise, 2021)

 


Quanto ampi siano gli archivi del buon vecchio zio Neil nessuno lo sa con precisione, ma considerata la frequenza con cui vengono recuperati e pubblicati album come Way Down In The Rust Bucket, li possiamo ritenere pressoché sconfinati. Questo live (uscito in doppio cd, quadruplo LP e box con dvd) documenta la serata tenutasi il 13 Novembre del 1990 al Catalyst di Santa Cruz in California, quando Young aveva da poco pubblicato Ragged Glory e affilava le armi per quello che sarebbe stato il tour di promozione del disco.

Young sta uscendo da un decennio complicato, caratterizzato da sperimentazione e da dischi non tutti all’altezza della sua fama, tanto che, quando nel 1989 pubblica Freedom, la critica parla di una sorta di rinascita artistica del canadese, che torna ad abbracciare con efficacia sonorità anni ’70. Mancava ancora qualcosa, però, a completare il processo di resurrezione: i Crazy Horse. La band, composta dal batterista Ralph Molina, dal bassista Billy Talbot e dal chitarrista Frank Sampedro, era stata abbandonata, e sembrava definitivamente, dopo Life (1987); ma quella separazione, dolorosa e aspra, aveva intaccato molto certezze di Young, che evidentemente sentiva il bisogno di essere spalleggiato dal quel gruppo di amici che comprendeva al meglio gli umori del leader. I Crazy Horse non erano certo un terzetto di musicisti tecnici, ma creavano “quel suono”, quella magia unica, grazie a un’impetuosa capacità di improvvisare e di scartavetrare le canzoni con maldestra e sincera efficacia. Un suono che in quegli anni più o meno tutti identificarono come delle rumorose scorribande grunge che partivano da Seattle.

Dal tour di Ragged Glory, con cui Neil torna a pieno titolo nelle grazie dei propri fan, ne uscirà Weld, un fenomenale disco dal vivo (e per molti probabilmente il migliore in carriera), che diventa una sorta di vangelo della fiorente epoca grunge. Way Down In The Rust Bucket, invece, si riferisce, come detto, a registrazioni precedenti a quel leggendario disco, e arriva in un momento in cui Young e i Crazy Horse stanno cercando l’affiatamento e ripristinando vecchie dinamiche anche sul palco. E questo ritrovarsi, questo sbrigliare gli strumenti alla scoperta di una nuova complicità e sintonia, è sicuramente l’elemento più evidente del live.

Un performance straordinariamente pimpante, dunque, carica di elettricità e spinta da una travolgente inclinazione verso la jam, in cui lo slancio gioioso della band supporta come non mai gli assoli frenetici e distorti di un Neil Young in stato di grazia.

La parte del leone in scaletta la fa proprio Ragged Glory, suonato quasi tutto con la sola eccezione di due brani, ma non mancano, e non potevano mancare, anche i grandi classici del songbook del canadese, come Cortez the Killer, Like a Hurricane, Don’t Cry No Tears e Cinnamon Girl.

Che il disco sia una chicca per completisti, anche per quelli che magari possono trovare la pubblicazione ridondante rispetto al leggendario Weld, è fuori di dubbio. Way Down In The Rust Bucket, infatti, cristallizza in una sola notte l’abbrivio di un momento magico nella carriera del canadese, un picco di creatività che, di lì a breve, riporterà Young ai vertici del rock mondiale, trasformandolo in un idolo anche per quelle nuove generazioni che guardano a Seattle come l’ombelico del mondo musicale. Imperdibile.

VOTO: 9

 


 

Blackswan, martedì 06/04/2021

lunedì 5 aprile 2021

THUNDER - ALL THE RIGHT NOISES (BMG, 2021)

 


Dopo il lungo iato che li aveva tenuti lontani dalle scene per sette lunghi anni, i londinesi Thunder, autentica leggenda dell’hard rock britannico, hanno iniziato, è proprio il caso di dirlo, una sorta di seconda giovinezza, a partire dal celebrato Wonder Days del 2015 e proseguita, quindi, fino a questo ultimo, notevole, All The Right Noises. Un disco che trasmette immediatamente la certezza che alcune band, nonostante il tempo trascorso dagli esordi (nel 2021, i Thunder compiono trentun anni di attività), non siano assurte a fama imperitura per caso e che, quando l’ispirazione, come in questo caso, è particolarmente alta, possano tranquillamente dare la biada a schiere di scalpitanti giovani band.

A dispetto dei tempi cupi che stiamo vivendo, i cinque “vecchietti” continuano a pompare decibel e rock dai loro ampli, regalandoci quel surplus di energia e vigore, oggi quanto mai necessari per superare la triste ripetitività di giorni tutti uguali. Melodie di prim’ordine, piede sull’acceleratore e riff frangiflutti sono le armi a disposizione di Luke Morley, chitarrista e prima mente pensante del quintetto, che pur alimentato dalla frustrazione e dalla rabbia, è riuscito a trovare l’ispirazione per un disco capace di entusiasmare e di regalare anche momenti (Dio, quanto ne abbiamo bisogno!) di leggerezza e puro divertimento.

Certo, il rosario delle bestemmie e della rabbia viene sgranato fin dall’inizio: Last One Out Turn Off The Lights è un up tempo vigoroso che ringhia con ferocia contro la Brexit, la pesantissima Destruction è un agguato alle spalle nel cuore della notte, pesa e cupa a causa di quel testo incentrato sulla depressione, e The Smoking Gun, brano acustico dal sapore quasi folk viene attraversato da una vibrante tensione in odor di crepuscolo.

Una tripletta da fuoriclasse, che enfatizza il velo cupo che avvolge parte del disco e che riemerge in alcune canzoni come Force Of Nature, intreccio tra chitarre acustiche ed elettriche in un crescendo zeppeliniano sulle avventure del passato governo Trump, la minacciosa Don't Forget To Live Before You Die, monito a godersi la vita prima che sia troppo tardi, e l’amara St. George’s Day, canzone che affronta il tema del razzismo e dell’intolleranza.

Temi pesanti e brani pensanti, che però, come si diceva, sono bilanciati da episodi decisamente più leggeri, spinti dalla stupefacente Going To Sin City, un r’n’b al metallo, screziato d’ottoni e trainato da un ritornello che farebbe invidia agli Ac/Dc, e quindi ribaditi nella pimpante e conclusiva She's A Millionairess e nel rockaccio saltellante di Young Man.

C’è anche di meglio, però. La sfacciata e trascinante You're Gonna Be My Girl è punteggiata da un pianoforte honky tonk e possiede un refrain da cantare a squarciagola e ballare sotto il palco, appena potremo tornare a farlo, mentre I’ll be The One, cuore pulsante della scaletta, è una delle ballate più intense mai scritte dalla band, innalzata verso l’estasi pura da un solo di Morley da pelle d’oca.

Onesti, coerenti e fedeli al proprio credo, i Thunder continuano a masticare musica con classe infinita e un’ispirazione ancora una volta al top. Un disco, All The Right Noises, che riesce a suonare potente, ruvido, e al contempo divertentissimo, grazie a un’energia che sembra rubata alla fonte dell’eterna giovinezza. In giorni come questi, piatti, monocordi e privi di attesa, spolparsi i padiglioni auricolari con un surplus di decibel e di sfrontata baldanza può essere davvero un lenimento per l’anima, un tonico che ci può mantenere in forma per quando tutta questa merda sparirà e potremo tornare a divertirci, senza mascherine e distanze da rispettare. Fate il pieno, tornerà utile.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 05/04/2021

giovedì 1 aprile 2021

DEAD POET SOCIETY - -!- (Spinefarm Records, 2021)

 


Al loro esordio sulla lunga distanza, i losangelini Dead Poet Society, volevano dimostrare che quel nome, mutuato dal titolo inglese de L’attimo Fuggente, pellicola del regista Peter Weir datata 1989, fosse espressione non solo di una condivisa esperienza al college, ma anche della capacità della band di uscire dagli schemi e di realizzare quell’anticonformismo predicato dal professore interpretato da Robin Williams.

Pur non essendo una novità, quel titolo astratto e decisamente respingente è già una piccola prova di coraggio, a cui fa seguito una scaletta di canzoni dai titoli scritti senza i consueti spazi tra una parola e l’altra, e brevi skip vocali a intervallare alcuni brani. Un’impalcatura meno convenzionale, ma non certo rivoluzionaria.

Quel che importa, invece, è la musica, e di sicuro questo disco, pur mantenendo delle coordinate abbastanza decifrabili, manifesta una certa attitudine del quartetto a evitare l’irreggimentazione in schiere di band tutte uguali, per trovare una formula che, se non propria innovativa, sia quanto meno spavalda. Se da un lato, il ricorso a melodie di facile presa e la duttile voce del cantante Jack Underkofler (il cui falsetto, talvolta, richiama alla mente il timbro di Mark Bellamy dei Muse), farebbero pensare a un rock annacquato e tardo adolescenziale con vista sull’airplay radiofonico, quando c’è da menare le mani, i quattro ragazzi non si tirano indietro e non hanno assolutamente paura di stordire le orecchie con un approccio decisamente noise.

Picchiano, con riff graffianti e distorsioni a palla, bilanciando, poi, la furia agonistica con azzeccatissimi inserti indie pop. Elementi, questi, che danno alla scaletta un incedere imprevedibile, caratterizzato da improvvisi cambi tempi, rallentamenti e accelerazioni, esplosioni di furore e armonie suadenti. Alla fine, pur in un contesto che produce qualche deja vu, è impossibile non riconosce a questi quattro ragazzi un impeto e una sfrontatezza che sono gli elementi che più mancano oggigiorno a un genere spesso racchiuso in involucri vuoti e solo formalmente appetibili.

Introdotto da uno skip, il disco si apre con l’atmosfera ferale di .futureofwar. delirio noise strumentale di chitarre stritolate: non certo il miglior biglietto da visita per chi non è abituato a certe sonorità o si attende, come nella maggioranza dei casi, un bel singolo apripista. La scaletta prosegue, poi, con .buymewhole. potente heavy blues che esibisce nel dna la foga garage dei White Stripes, mentre .Getawayfortheweekend. esplode in un anfetaminico crescendo che sfocia in un ritornello acchiappone, di quelli che si mandano subito a memoria.

Tre randellate che colpiscono nel segno, ammorbidite da ballate elettriche che danno respiro al clima tambureggiante con convincenti melodie, come la vibrante .americanblood. e la suntuosa I Never Loved MySelf Like I Loved You (titolo spaziato) che possiede un refrain che vira verso un’irresistibile indie pop.

Sono solo episodi, però, in un mare magnum di elettricità e vigore: il bluesaccio di .CoDa. evoca riff settantiani, ribaditi dalla slide e dal passo caracollante di .loveyoulikethat. arrembante e feroce, mentre .lovemelikeyoudo. apre addirittura a stranianti scenari industrial, mentre .beenherebefore. cita i primi Muse e .georgia. impazza tra sportellate elettriche in un turbinio di ampere.

Ciò che rende questo disco speciale è la capacità dei Dead Poet Society di spaziare, di creare suspence, pur rimanendo fedeli a un suono che sembra fin da subito ben identificabile. Che randellino senza posa, e lo fanno, o giochino con la melodia, in ogni caso si può affermare: questi sono i Dead Poet Society. Che, giova ribadire, non inventano nulla, ma puoi sentire il loro giovane sangue ribollire di passione e autenticità. E questo, amici miei, fa quasi sempre la differenza.  

VOTO: 8




Blackswan, giovedì 01/04/2021

mercoledì 31 marzo 2021

LANA DEL REY - CHEMTRAILS OVER THE COUNTRY CLUB (Polydor, 2021)

 


Dopo quasi un ventennio di carriera alle spalle, Lana Del Rey, disco dopo disco, ha messo a tacere i tanti detrattori, quelli che, anche con ingiustificata insistenza, l’hanno sempre considerata solo un fenomeno mediatico, una lolita priva di talento, buona per le pagine patinate di qualche rivistucola di gossip. La trentacinquenne artista newyorkese, invece, si è costruita una carriera in crescendo, sfornando album di gran classe, definendo uno stile immediatamente riconoscibile e ritagliandosi un posto di prima importanza nell’attuale panorama pop.

Etereo, fluttuante e atmosferico, il nuovo Chemtrails Over The Country Club è un disco fortemente nostalgico, che sviluppa in ogni canzone linee melodiche ariose e rigogliose armonie. Non ci sono artifici, però, nessuna costruzione complessa, ma un impianto espressivo, semmai, centrato sulla semplicità, lineare e diretto. Il disco si apre con White Dress, terzo singolo tratto dall’album, in cui Lana Del Rey dimostra di saper estrarre dalle sue potenti note basse un delizioso falsetto che sembra quasi evaporare nell’aria circostante, mentre il tono delicato, a tratti quasi afono, della voce, conferisce alla traccia una vulnerabilità che ne esalta la profondità e il pathos emotivo. Una canzone fortemente malinconica, che scivola in punta di dita su un pianoforte, evocando l’intensità espressiva di Cat Power, e raccontando i giorni lontani, in cui Lana, vestita di bianco, lavorava come cameriera a Orlando, Florida.

Non un inizio messo lì a caso. Anche in Chemtrails, infatti, il songwriting della Del Rey è come uno sguardo costantemente rivolto al passato, una peculiarità che da sempre, dagli esordi di Video Games, ha contraddistinto la sua sensibilità artistica sottilmente anacronistica. Tutto il disco è avvolto da diafane trame nostalgiche, in una sorta di ricerca del tempo perduto e irrecuperabile, in un continuo chiedersi quale sia il valore della propria arte e dove risieda la felicità, nella spensieratezza degli esordi o nell’eco mediatico della notorietà.  

Il tema della fama, una sorta di uomo nero che ruba il sonno e la pace, ritorna in Dark But Just A Game, in cui la voce morbidissima di Lana si appoggia su languidi arpeggi di dodici corde, e nei turbamenti del folk sommesso di Wild At Heart, amara riflessione sul tragico destino di molte star (il riferimento a Lady Diana è esplicito nel verso: “The cameras have flashes, they cause the car crashes”).

A fianco della Del Rey, opera nuovamente Jack Antonoff, che aveva co-prodotto Norman Fucking Rockwell, e la magia di quello strabiliante disco in qualche modo rivive anche qui, grazie alla peculiarità con cui il produttore dà spazio e sostanza alla splendida voce della cantante newyorkese. Quando il lavoro in tandem funziona, le atmosfere e le melodie riescono davvero a sorprendere, come una sorta di avvincente incantesimo, tanto che si può perdonare persino un momento un po' risaputo e sonnolento (Not All Who Wander Are Lost). Il resto, però, possiede un fascino irresistibile, e si ha la sensazione di fluttuare in un cosmo senza tempo, in cui il passato si confonde nel presente, in cui la modernità ha il sapore buono di cose antiche, di ricordi imprescindibili che fanno di questo disco una musica senza età, che si può collocare ovunque, senza che Chemtrails perda un grammo del suo incorporeo fascino.  

E’ questo, probabilmente, il motivo che ha spinto la Del Rey a chiosare l’album con una cover di For Free di Joni Mitchell (la canzone proviene dall'LP del 1970 di Mitchell Ladies of the Canyon): un rischio calcolato (la reinterpretazione è appassionata e rispettosa) che amplifica l’indeterminatezza temporale di cui è avvolta la scaletta e suggerisce un fil rouge tra anime affini, che, a distanza di mezzo secolo l’una dall’altra, si scoprono fragili di fronte alla caducità dell’arte e alle distorsioni della fama.

Il finale perfetto per un disco ipnotico, fascinoso e ricco di consapevolezza e toccanti riflessioni. Per un artista non è semplice bilanciare freschezza espressiva e coerenza stilistica, scartare l’autoreferenzialità e dimostrarsi credibile, senza essere ripetitivo. In tal senso, Lana Del Rey dimostra per l’ennesima volta di aver trovato una propria solida dimensione artistica e una chiave di lettura che, nella sua disarmante semplicità, non smette di essere avvincente, progredendo di disco in disco.

VOTO: 8




Blackswan, mercoledì 31/03/2021