C’è
un filo scurissimo che lega fra loro le quattordici canzoni di The Dephts, un
filo che congiunge gli immensi spazi desertici dell’Australia più selvaggia ad
un notturno metropolitano al neon. Un filo intrecciato di blues e di rock, di
scariche elettriche e sporcizia noise, di scenari confinanti con l’horror e
tormenti di notti malate e insonni. Non è un caso infatti che i Blackwater
Fever traggano il loro nome da una rara ed esiziale variante della malaria. Ne
è un caso che The Dephts, opera terza del duo originario di
Brisbane,rappresenti l’acme parossistico di una patologia i cui sintomi
deturpano i lineamenti del blues con ulcere goth e piaghe post hardcore.
Volendo semplificare a uso e consumo di chi legge, si potrebbe raccontare di
una musica che ripete la lezione tenebrosa di Re Inchiostro Nick Cave, qui
richiamato alla mente dallo psychobilly sbilenco di Don’t Fuck With Joe. Sarebbe
in realtà un’eccessiva banalizzazione : se è vero infatti che in qualche modo
la contiguità geografica e l’attitudine all’incubo servono il paragone su un
vassoio d’argento, è altrettanto vero che la potenza di tiro dei Blackwater
Fever si serve di chitarre di grosso calibro, pronte a ringhiare in faccia al
nemico senza accondiscendenza alcuna. Seven White Horses possiede il passo
cadenzato e geometrico del post core alla Jesus Lizard, Can’t Help Yourself
rilegge in chiave orrorifica l’energia primordiale dei Black Keys, Now She’s
Gone è un rock blues che combatte col coltello fra i denti, End Of Time suona
come un power rock dei Foo Fighter che si sono scordati del sole, On My Mind è
una ballata nirvaniana dall’incedere straniante, When The Night Comes chiama in
causa addirittura i God Machine di One Last Laught…, mentre Won’t Cry Over Me,
proposta come secondo singolo, terrebbe botta anche alla radio grazie a uno
swing mozzafiato. Il risultato è uno dei dischi più affascinanti di questo
2013, di non facile digeribilità ma alla lunga estremamente eccitante, cupo
senza essere però claustrofobico, crepuscolare senza indugiare nella
malinconia, ma intriso semmai di un’emotività elettrica a tratti destabilizzante
(ascoltate l’incredibile Oh Deceit che intinge nella pece, trafigurandoli in un
martirio, i melodici anni ’60). Un disco foto fobico, l’esatto opposto di tutto
ciò che è estate, sole e leggerezza. Ascoltato in spiaggia, tra ombrelloni,
sdraio e bambini urlanti, è una bella botta di adrenalina.
VOTO
: 8,5
2 commenti:
E' vero...un pezzo da temperature rigide e pioggia che riga i vetri...
Si lascia ascoltare...
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