Dopo aver ascoltato
un disco così, la prima preoccupazione è stata trovare un modo adeguato per
recensirlo. Parlarne bene ed essere d'accordo con la stampa giovane e di
tendenza che di fronte a certi artisti figli di hype spropositati è pronta
a infiorettare le recensioni di stratosferiche iperboli, oppure essere sincero,
dire ciò che ne penso davvero e fare la figura del matusa sfigato o del rocker
che non vede al di là della propria chitarra elettrica ? Bello o brutto, dunque
? Per non essere stritolato dal ferale dubbio,
ho scelto la via di mezzo, e ho deciso di parlarne come di un disco così così, in
modo da non far torto a nessuno oppure da farlo a tutti, che in fin dei
conti è la stessa cosa. La Wolfe, diamo a Cesare quel che è di Cesare, è
indubbiamente una ragazza talentuosa, ha una voce coinvolgente, sa
anche scrivere belle canzoni, come peraltro ha già dimostrato in un
ottimo disco come Apocalypsis (2011), e possiede quell'alone da femme
fatale che tanto piace alla gente che piace. Però da qui a far fioccare gli 8 e
i 9, di acqua sotto i ponti ce ne passa parecchia. Pain Is Beauty è infatti un lavoro altalenante, che
alterna momenti notevoli (House Of Metal, Feral Love), a sciape ripetizioni
degli stessi suoni (Kings, Reins) e a disarmanti vaccate (Destruction Makes
The World Burn Brighter). Eppure il problema non è neppure questo, dal
momento che un disco piacevole può anche reggersi, senza sfigurare,
solo su quattro o cinque canzoni ben riuscite. I difetti di Pain Is Beauty
semmai sono altri due : da un lato, un suono pieno ma algido
all'inverosimile, che alla fin fine, invece di trasmettere brividi di
inquietudine, procura parecchi sbadigli di noia; dall'altro, la
proposizione, senza grosse impennate di ingegno, di una musica che, mutate
mutandis, la suonavano, e anche meglio, già trent'anni fa (vi dice qualcosa
una certa Siouxsie Sioux ?). L'impressione che ne deriva, allora, è quella di un'artista non da mai
l'impressione di vivere sinceramente quel tormento interiore e
quella crepuscolare ispirazione che hanno reso inarrivabili signore in nero
del calibro di Lydia Lunch, Carla Bozulich e PJ Harvey (e più recentemente Soap
& Skin) e che preferisca invece vestire i panni, meno
rischiosi, dell'eterna promessa che ammalia, ammiccando a una tenebra
che però non ci inghiotte mai. Non facciamone un dramma, per carità: Pain
Is Beauty è un disco che si può ascoltare come l'abbrivio di qualcosa di più grande che prima o poi arriverà, anche se non contiene un solo motivo
per alzarci in piedi e spellarci le mani in una standing ovation. Si merita però
un bel sei politico, di quelli che non fan torto a nessuno. O forse lo fanno a tutti, chissà. Sempre meglio che passare come superato e anacronistico
VOTO :
6
Blackswan, martedì 03/09/2013
2 commenti:
disco bellissimo!
sei proprio un matusa ahaha :)
@ Marco : è l'età anagrafica che mi condanna :)
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