Come ritrovare un
vecchio amico, tornare in un luogo che ci lega a tanti ricordi, assaggiare
nuovamente un sapore della nostra infanzia. Sensazioni che ci pervadono con
il loro carico di nostalgia, che ci fanno sentire per un attimo ancora giovani,
per poi aprire inevitabilmente il confronto tra ciò che eravamo e ciò che
siamo. Gli anni che scorrono, le nostre sembianze e i nostri gusti che cambiano,
la musica gloriosa delle scorribande liceali che ritorna e
che oggi ci appare antica e nel contempo nuovissima. Ascoltare il nuovo
disco di Garland Jeffreys apre a tutte queste riflessioni, è come mettersi
davanti a uno specchio per cercare di capire se, quanto e come siamo
cambiati. Se, soprattutto, queste canzoni sono ancora nostre, ci
rappresentano di nuovo, o le ascoltiamo solo perchè ci rammentano
quanto intensi e coraggiosi fossero quei tempi andati. Ci attende dietro l'angolo il timore che all'entusiasmo del fan subentri la
delusione, una scaletta sciapa da disco frusto e superato, magari una
lacrimuccia malinconica, ma nulla più di questo. Invece, il tempo talvolta
è clemente o semplicemente si volta dall'altra parte per non guardare chi merita rispetto. Così,
il nostro amico di Brooklyn, che ha settant'anni suonati
e suona il suo rock contaminato da più di quaranta, nonostante le
rughe, torna a raccontarsi con lo stesso spirito che animava le note di
American Boy & Girl o che ci faceva godere come matti con quel Rock'n'Roll
Adult, che resta una delle reliquie più preziose della nostra discografia. Truth
Serum (co-prodotto da James Maddock) non è un capolavoro, sia ben inteso : se lo affermassimo, saremmo esattamente come
quegli innamorati che a cagione di una stolida passione confondono pezzi di
rame con oro che luccica. Eppure, dal momento che l'amore, quello vero, nasce
dalla consapevolezza, dal considerare i difetti come parte di un tutto che ci
ammalia, possiamo dire, con l'obiettività di cui siamo capaci,
che Garland ci ha regalato un'altra ottima prova. Fatta di belle canzoni,
certo, ma anche (e forse soprattutto) di sincerità, di una cura artigianale
nel ritagliare e cucire quei suoni che paiono ancora figli della medesima
passione di quando lui di anni ne aveva quaranta e noi invece eravamo solo
adolescenti. Possiamo dire allora che il reggae di Dragons To Slay mette in fila
tutti gli indie hipster multietnici da sushi bar, che il blues della title
track è sangue che scorre nella pece, che la ballata in quota Stones di It's What I Am non
smetteremmo mai di ascoltarla per quanto ci ricorda Wild Horses o che Ship Of Gold è insieme scorbutica
e dolce e per questo irresistibile. Poi ci sono i difetti, è inevitabile, e
sono gli stessi che vediamo in noi quando ci guardiamo allo specchio.
Un pò disillusi, un pò stanchi, forse azzoppati, ma sempre cavalli di razza,
esattamente come Garland. Che ci fa sentire, almeno
nell'anima, come fossimo ancora "wild in the streets". E non è poco.
VOTO :
7,5
Blackswan, giovedì 17/10/2013
3 commenti:
Sì, fa molto prime serate estive.
Birretta, moscerini, erba alta...
Bel post black! Si é vero noi pugili le abbiamo date e soprattuto le abbiamo prese ma siamo sempre in piedi o almeno cerchiamo di starci e non smetteremo mai di commuoverci davanti a dischi e persone come il >Jeffreys magari giá sentito ma ancora e sempre col cuore in mano.
Garland Jeffreys! Quanti ricordi...
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