A fine novembre
dovrebbe essere il momento in cui si cominciano a tirare le somme
degli ascolti di un anno, in cui si fa ordine e si decidono quali siano
stati i dischi migliori della stagione. Invece, questo 2013, si è rivelato
un anno più interessante del previsto e quindi, almeno per quanto riguarda il
sottoscritto, la carne al fuoco è ancora tanta e nulla è deciso. Così,
nell'ultima settimana, finisce nel lettore inaspettatamente la terza fatica di
Moonface, moniker sotto il quale si nasconde Spencer Krug, autore, cantante e
polistumentista canadese, al secolo meglio conosciuto come leader degli,
ormai definitivamente disciolti, Wolf Parade. Un ritorno sulle scene agli
antipodi rispetto ai barocchismi del precedente With Siinai : Heartbreaking
Bravery (2012), visto che Julia With Blue Jeans On è un disco essenziale,
minimalista, concepito esclusivamente per pianoforte e voce, particolare, questo,
che lo rende un'opera non facilmente assimilabile, soprattutto a chi non
è aduso ad atmosfere intimiste e raccolte. Tuttavia, basta poco per
innamorarsi di queste dieci canzoni che, soprattutto se ascoltate in cuffia,
esprimono una forza emotiva stordente, nascosta però fra le pieghe di un ordito
musicale all'apparenza fragile, e la cui percezione, almeno durante i primi
ascolti, è quasi esclusivamente istintuale. Eppure, ogni volta che Julia With
Blue Jeans On finisce nel lettore, il disco cresce, prende forma, dispiega in
modo chiarissimo i confini entro cui si muove un'anima musicale sensibilissima,
poliedrica e recettiva. Dieci brani per la durata di 48 minuti il cui
merito è soprattutto quelle di essere semplicemente belle. Quando poi si
asciugano le lacrime che velano gli occhi di emozione e si cerca di mettere dei punti fermi, le canzoni che compongono Julia disvelano un cuore
delicatamente pop (che forma potrebbe prendere questa scrittura se fosse
supportata da arrangiamenti e strumentazione più corposa?), che fa pensare a Ben
Folds (November 2011) o al Rufus Wainwright di All Days Are Night, ma che finisce per pompare anche una linfa musicale più colta,
quella che circola dalle parti di Erik Satie e Philip Glass (il tocco al
piano di Krug è notevole, come dimostrano alcune code strumentali in
odore di classica). Difficile trovare il meglio di un disco in cui ogni singola
nota è in grado di produrre palpiti e suggestioni. Ma se fosse indispensabile
citare qualche brano, sceglierei la dura requisitoria introspettiva di Barbarian
("I am a barbarian sometimes"), la suite di Dreamy Summer e la dolente
title track, con un crescendo finale da pelle d'oca. Autunnale e intenso, un grande disco.
VOTO :
9
Blackswan, mercoledì 20/11/2013
2 commenti:
Mumble mumble, mi hai incuriosito molto!!!
@ Babol : Buongustaio ! :)
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