10) MAVIS STAPLES – ONE TRUE WINE
Attento a mantenere un perfetto eqilibrio fra
tradizione gospel e modernità, il buon Jeff sfodera un variegato
repertorio di chiatarre acustiche ed elettriche (ascoltate il lavoro sui
feedback nellla strabigliante Every Step, la migliore del lotto), scrive per
Mavis tre brani di assoluto lignaggio (sono sue, oltre Every Step, anchel
a conclusiva One True Vine, che da il titolo al cd, e Jesus Wept), e pesca dal
cilindro un pugno di brani tradizionali e qualche cover, belle da leccarsi
i baffi (la sontuosa riproposizione di Can You Get To That dei Funkadelic,
annata Maggott Brain). Soprattutto, Tweedy, adagia letteralmente il suono
dell'intero disco sull' espressività vocale di Mavis: non forza mai la
mano, lascia semmai che la musica scorra fluida sulle tonalità
basse, vellutate e introspettive di una voce matura e carica d'esperienze di
vita. Black on black, nero su nero, gospel e soul al limitare del crepuscolo,
brividi d'inchiostro che increspano la pelle. Uno dei dischi
migliori di questo 2013, sofisticato ed evocativo, ricco di sfumature da
assaporare lentamente, ascolto dopo ascolto. Tanto emozionante da farci
venir voglia di cantare un osanna nel nome di Dio. Lunga vita a Mavis
Staples. Alleluja !
9) TAMIKREST – CHATMA
Le dieci canzoni che compongono la scaletta del
disco, per una durata di poco più di quaranta minuti, ci prendono per mano e ci conducono
attraverso territori nei quali solo una mente bolsa e priva di fantasia
riuscirebbe ad annoiarsi e a non provare sotto pelle quei palpiti di vitalità
di cui questa musica, nonostante nasca in un territorio martoriato dalla
violenza, si nutre. Un coloratissimo caleidoscopio di blues, rock, funk,
psichedelia si fonde con la tradizione tuareg, il djembè e i caratteristici
youyou si intrecciano all'elettricità delle chitarre e di bassi pulsanti.
Con orgoglio e consapevolezza. Bastano solo tre brani, quelli iniziali, a
trasformare in oro un disco che surclassa di un bel pò la maggior parte della
produzione rock blues del 2013. Come se Clapton e Hendrix fossero in jam
session con il vento del deserto, il rock dei Tamikrest si perde nel tempo e
realizza quell'integrazione culturale che dovrebbe essere, a ogni latitudine,
il soffio egalitario che anima il mondo. Imperdibile.
8) WILLIE NILE –
AMERICAN RIDE
Con American Ride, Nile centra un nuovo capolavoro,
quasi un trampolino di lancio per un futuro che, se rispetterà anche solo in
parte i contenuti di quest’ultima fatica, sarà a dir poco pirotecnico. Non è
difficile trovare una definizione per spiegare la musica del nostro piccolo
eroe newyorkese : in Nile vive un’idea di rock umorale, sincero, energico,
fatto di slanci e di un’ attitudine a stare sul palco e quindi a suonare ogni
canzone, anche in studio, come se fosse live. Mi piacerebbe parlare, e credo di
non andare troppo lontano dal vero, di un musicista che ha trovato la giusta
formula alchemica per fondere magnificamente le sciabolate punk della prima
Patti Smith o dei Clash coi palpiti da heartland rock di springsteeniana
memoria. Basta ascoltare l’uno – due da ko delle iniziali This Is Our Time e
Life On Bleecker Street o l’intensa If I Ever See The Light per rendersene
conto. Eppure Nile, è un rocker che sa maneggiare altrettanto bene il passo
lento della ballata, tanto da riuscire a inanellare due autentici gioielli come
l’on the road della title track, scritta a quattro mani con Mike Peters
(ex-Alarm), e la struggente dedica d’amore di She’s Got My Heart, una canzone
capace di gareggiare per bellezza con le più struggenti melancholy songs di
Springsteen. Verrebbe voglia di
raccontare ogni singolo brano di questo straordinario disco, a partire dal
divertissement rockabilly di Say Hey e dallo swing pianistico e solare di
Sunrise In New York City, fino all’epica rock di Holy War e al folk della
conclusiva There’s No Place Like Home, omaggio alle radici della tradizione
musicale a stelle e strisce. Ma invece di farvi perdere tempo con troppe e
inutili parole, vi invito semplicemente a comprare il disco. Lo ascolterete
allo sfinimento, sono pronto a scommetterci una birra. Perché American Ride è
uno di quei pochi cd di questo 2013 che resisterà al logorio del tempo.
7) DAWES – STORIES DON’T END
Come dicevo, le dodici canzoni di Stories Don’t End
raccontano l’epica della west coast, quegli anni fantastici in cui Crosby,
Stills e Nash passavano le serate a casa di Joni Mitchell a tracciare le
coordinate di un nuovo suono. Tuttavia, i Dawes stupiscono sia per la
padronanza degli arrangiamenti, in perfetto equilibrio fra suono vintage e
alternative moderno, sia per il gusto nel cesellare melodie, in cui la
tradizione del country rock americano è ripulita dalla polvere e declinata con
morbidi accenti pop soul (merito soprattutto della voce in-cre-di-bi-le di
Taylor Goldsmith). Vorrei poter trovare un difetto alla scaletta del disco,
evidenziare qualcosa di cui parlar male, vestire il ruolo del critico che
bacchettando acquisisce autorevolezza. Ma è davvero impossibile trovare un solo
passaggio a vuoto in un disco così perfettamente riuscito, così ben suonato,
equilibrato e omogeneo in tutte le sue parti, da poter essere definito già un
piccolo classico di questa seconda decade del nuovo millennio (merito
soprattutto di un approccio in cui prevale l’understatment, il basso profilo di
chi non deve dimostrare più nulla a nessuno). Sono talmente belle queste
canzoni, che tutte meriterebbero lo spazio di un piccolo racconto. Eppure
basterebbe citare la delicata malinconia di Something In Common, la sorellina
minore di Desperado degli Eagles, il pop obliquo e caracollante di Just Beneath
The Surface, che suona come se gli Arcade Fire mettessero mano a un pezzo di
Jackson Browne, i cromatismi leggiadri di From A Window Seat, che non avrebbe
sfigurato fra Guinnevere e You Don’t Have To Cry nel primo album dei CS&N,
il mid tempo rock dell’esuberante Most People e il minimalismo soul della
superlativa Just My Luck, per rendersi conto di quante sorprese si celino nei
solchi di Stories Don’t End. Un disco che in assoluto meriterebbe 8 e
relativamente ai miei gusti particolari un 10 tondo tondo. Se faccio la media,
spero che nessuno ci resti male.
6) MOONFACE – JULIA WITH BLUE JEANS ON
Tuttavia,
basta poco per innamorarsi di queste dieci canzoni che, soprattutto se
ascoltate in cuffia, esprimono una forza emotiva stordente, nascosta però fra
le pieghe di un ordito musicale all'apparenza fragile, e la cui
percezione, almeno durante i primi ascolti, è quasi esclusivamente istintuale.
Eppure, ogni volta che Julia With Blue Jeans On finisce nel lettore, il disco
cresce, prende forma, dispiega in modo chiarissimo i confini entro cui si muove
un'anima musicale sensibilissima, poliedrica e recettiva. Dieci brani per
la durata di 48 minuti il cui merito è soprattutto quelle di essere
semplicemente belle. Quando poi si asciugano le lacrime che velano gli occhi
di emozione e si cerca di mettere dei punti fermi, le canzoni che
compongono Julia disvelano un cuore delicatamente pop (che forma potrebbe
prendere questa scrittura se fosse supportata da arrangiamenti e strumentazione
più corposa?), che fa pensare a Ben Folds (November 2011) o al Rufus Wainwright
di All Days Are Night, ma che finisce per pompare anche una linfa musicale
più colta, quella che circola dalle parti di Erik Satie e Philip Glass (il
tocco al piano di Krug è notevole, come dimostrano alcune code
strumentali in odore di classica). Difficile trovare il meglio di un disco
in cui ogni singola nota è in grado di produrre palpiti e suggestioni. Ma se
fosse indispensabile citare qualche brano, sceglierei la dura requisitoria
introspettiva di Barbarian ("I am a barbarian sometimes"), la suite
di Dreamy Summer e la dolente title track, con un crescendo finale da
pelle d'oca. Autunnale e intenso, un grande disco.
Blackswan, sabato 28/12/2013
2 commenti:
vedo che per la top 10 sei tornato il solito vecchio blackswan. per quanto mi riguarda, non ci siamo assolutamente. :)
@ Marco: Ma se è tutta musica indie e di tendenza ??' :)
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