A distanza di poco più di un anno dall’omonimo
album d’esordio, torna con un nuovo disco una delle più giovani (e
interessanti) promesse del panorama rock mondiale. Nel caso specifico,
tuttavia, il termine promessa, nonostante i diciannove anni del nostro, potrebbe
suonare improprio, visto che Bugg di cose importanti sembra averne già
dimostrate parecchie. Diversamente non si spiegherebbe come mai questo implume
songwriter sia stato investito dell’onore di aprire in solitaria il concerto
degli Stones all’Hyde Park di quest’estate; né, e questo è l’aspetto più
saliente, che un santone della produzione come Rick Rubin, abbia preso il
ragazzo sotto la propria ala protettrice, invitandolo nei propri studi di
registrazione (appunto i mitici Shangri La di Malibu evocati dal titolo del
disco) per produrre questo secondo lavoro. Che, a ben ascoltare, non si
discosta poi di molto dal suo precedente, se non per una leggera virata del
suono verso atmosfere più marcatamente rock. Musica derivativa, un occhio puntato
su quegli anni ’50 e ’60 che la facevano da padrone nelle discografie di nonno
e di papà, un altro invece più attento agli sviluppi del brit rock delle ultime
generazioni (Arctic Monkeys e Oasis) e un pugno di innocue canzoni che, per
quanto non indimenticabili, hanno dalla loro una certa freschezza sia sotto il
profilo interpretativo che compositivo. E forse è proprio questo l’aspetto più
soddisfacente del disco: e cioè, che nonostante la presenza di una vecchia
volpe dell’artificio come Rubin, Bugg riesca a mantenere una sorta di ingenuità
post adolescenziale di fondo che tiene a freno possibili derive egotiche dovute
a tanto prematuro e inaspettato successo. Sotto questa luce, allora, risultano
assai piacevoli sia il Dylan elettrico scimmiottato nell’iniziale There’s A
Beast And We All Feed It che il punk allo zucchero filato di What Doesn’t Kill
You o la conclusiva Storm Passes Away, caracollante e anacronistico country
folk alla Johnny Cash. Tuttavia suonano meglio, a parere di chi scrive, le
canzoni che sono cronologicamente più vicine ai tempi e al mondo di Jake Bugg,
o nelle quali il songwriter di Nottingham, pur guardando al passato, rallenta
il passo. Così i brani più riusciti in scaletta risultano la convincente
rilettura del brit pop in quota Oasis di Simple Pleasures o ballate speziate di
weat coast (James Taylor?) come Kitchen Table e Me And You. Un’ultima
annotazione: curioso che quest’anno le pagine delle riviste specializzate si
siano trovate a parlare (bene o male, poco importa) di così tanti giovani
artisti under 20 provenienti dal Regno Unito: il primo full lenght di King
Krule, l’esordio degli Strypes e questo secondo disco di Jake Bugg. Che
qualcosa stia bollendo in pentola ?
VOTO: 6,5
Blackswan, martedì 10/12/2013
3 commenti:
il bugg ha fatto due dischi discreti, però troppo derivativi e niente finora che lasci il segno...
molto meglio il mitico king krule!
Album bellissimo e diverso rispetto al primo.
Derivativo sicuramente, ma chi non lo è dal 1990 ad oggi?
Per me con Bowie disco dell'anno.
@ Marco : se è per questo è abbastanza derivativo anche King krule.Anche se il suo disco è migliore di questo.
@ Euterpe : infatti, ormai derivano tutti. A mio modesto avviso, nessuno dei due è imprescindibile.
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