Liberatisi dell’ingombrante
presenza di pronome e verbo introduttivi (originariamente infatti si chiamavano
We Are Augustines), gli Augustines, terzetto originario di Brooklyn (New York)
e composto dal chitarrista Billy McCarthy, dal polistrumentista Eric Sanderson e
dal batterista Rob Allen, sono arrivati alla decisiva prova del secondo album,
quello che, si sa, “è il più difficile nella carriera di un’artista”. E pare
che non abbiano avuto problemi a superare l’ostacolo, visto che nel circuito indie
a stelle e strisce non si parla d’altro, e in termini assai lusinghieri. Tanto
che, vista la presenza in consolle del produttore Peter Katis, a qualcuno è
scappato perfino più di un paragone con i concittadini The National. Così, armato di buone intenzioni e tanta
pazienza, mi sono sorbito ripetuti ascolti del disco, cercando qui e là qualche
punto di contatto con la band capitanata da Matt Berninger. Risultato ? Nulla,
nada, nothing. Semmai, mi sono tornati in mente spesso e volentieri gli Editors,
quelli però terrificanti dell’ultimo album. Anzi, per essere più precisi, le
dodici canzoni che compongono la scaletta di Augustines mi hanno fatto pensare
a una collaborazione fra i citati Editors e i Gaslight Anthem di un Brian Fallon
in crisi d’ispirazione. Visto il turibolare della stampa specializzata,
probabilmente sbaglierò io. Ma se il disco d’esordio, Rise Ye Sunken Ships,
proponeva un pugno di canzoni fresche e sincere (ascoltatevi il singolo Chapel
Song accompagnato da un video geniale), questo seguito appare per converso
lezioso, pretenzioso e totalmente insipido da un punto di vista dei contenuti.
Se l’intento di base resta immutato (giocare con l’abbinamento fra suoni
tipicamente americani e sofferte atmosfere malinconiche in salsa indie), viene
tuttavia a mancare l’ispirazione che ci aveva fatto amare l’esordio. In Augustines
infatti si percepisce una costruzione dei brani troppo artificiosa (e molto
furbetta), in cui emergono un eccesso di fronzoli, ammiccamenti melodici
superflui e pose da crooner che la patina vintage della copertina esplicita perfettamente.
Stucchevoli poi alcuni rimandi agli anni ’80 (le sonorità vagamente afro del
singolo Cruel City mi hanno fatto tornare in mente Johnny Clegg) e l’utilizzo
quasi permanente dei crescendo in stile U2. A dispetto dei grandi elogi di cui
ho letto un po’ ovunque, Augustines rappresenta un mezzo passo falso, e anche se
porterà al gruppo di Eric Sanderson quel rilievo mediatico che era mancato agli
esordi, denota altresì lo scarso stato
di forma di una band pronta per le radio ma già in debito d’ossigeno per quanto
concerne la sincerità.
VOTO: 5,5
Blackswan, domenica 02/03/2014
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