domenica 2 marzo 2014

AUGUSTINES – AUGUSTINES





Liberatisi dell’ingombrante presenza di pronome e verbo introduttivi (originariamente infatti si chiamavano We Are Augustines), gli Augustines, terzetto originario di Brooklyn (New York) e composto dal chitarrista Billy McCarthy, dal polistrumentista Eric Sanderson e dal batterista Rob Allen, sono arrivati alla decisiva prova del secondo album, quello che, si sa, “è il più difficile nella carriera di un’artista”. E pare che non abbiano avuto problemi a superare l’ostacolo, visto che nel circuito indie a stelle e strisce non si parla d’altro, e in termini assai lusinghieri. Tanto che, vista la presenza in consolle del produttore Peter Katis, a qualcuno è scappato perfino più di un paragone con i concittadini The National.  Così, armato di buone intenzioni e tanta pazienza, mi sono sorbito ripetuti ascolti del disco, cercando qui e là qualche punto di contatto con la band capitanata da Matt Berninger. Risultato ? Nulla, nada, nothing. Semmai, mi sono tornati in mente spesso e volentieri gli Editors, quelli però terrificanti dell’ultimo album. Anzi, per essere più precisi, le dodici canzoni che compongono la scaletta di Augustines mi hanno fatto pensare a una collaborazione fra i citati Editors e i Gaslight Anthem di un Brian Fallon in crisi d’ispirazione. Visto il turibolare della stampa specializzata, probabilmente sbaglierò io. Ma se il disco d’esordio, Rise Ye Sunken Ships, proponeva un pugno di canzoni fresche e sincere (ascoltatevi il singolo Chapel Song accompagnato da un video geniale), questo seguito appare per converso lezioso, pretenzioso e totalmente insipido da un punto di vista dei contenuti. Se l’intento di base resta immutato (giocare con l’abbinamento fra suoni tipicamente americani e sofferte atmosfere malinconiche in salsa indie), viene tuttavia a mancare l’ispirazione che ci aveva fatto amare l’esordio. In Augustines infatti si percepisce una costruzione dei brani troppo artificiosa (e molto furbetta), in cui emergono un eccesso di fronzoli, ammiccamenti melodici superflui e pose da crooner che la patina vintage della copertina esplicita perfettamente. Stucchevoli poi alcuni rimandi agli anni ’80 (le sonorità vagamente afro del singolo Cruel City mi hanno fatto tornare in mente Johnny Clegg) e l’utilizzo quasi permanente dei crescendo in stile U2. A dispetto dei grandi elogi di cui ho letto un po’ ovunque, Augustines  rappresenta un mezzo passo falso, e anche se porterà al gruppo di Eric Sanderson quel rilievo mediatico che era mancato agli esordi,  denota altresì lo scarso stato di forma di una band pronta per le radio ma già in debito d’ossigeno per quanto concerne la sincerità.

VOTO: 5,5






Blackswan, domenica 02/03/2014

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