Sono passati sedici anni
dall’ultimo lavoro in studio degli Afghan Whigs. Correva l’anno 1998, infatti,
quando uscì l’ultimo disco in studio della band di Cincinnati (1965). E se non
fosse stato per la fremente inquietudine di Greg Dully, sempre sul pezzo con i Twilight
Singers prima e i Gutter Twins poi (insieme al sodale Mark Lanegan), forse
avremmo riposto per sempre gli Afghan Whigs nel cassetto dei ricordi che
resteranno per sempre tali. Non certo perché quell’esperienza fosse stata
risibile ma, proprio al contrario, perché il sogno di rivederli insieme, vista
la soddisfacente nuova carriera del leader, appariva pressoché irrealizzabile.
Chi ha vissuto in prima persona il decennio ’90 sa esattamente di quali grandi
cose fosse capace la band capitanata da Greg Dulli: almeno tre album di livello
eccelso (Congregation del 1991, Gentlemen del 1993 e Black Love del 1996) e un
impasto bastardo di rock urbano e black music, al contempo ruvido e romantico,
rabbioso e dolcemente malinconico, che rappresentava un unicum rispetto al
panorama circostante. Mi viene pertanto da pensare con una punta di nostalgia
che gli Afghan Wighs non raccolsero in realtà quanto seminato e probabilmente non
furono compresi fino in fondo dal pubblico pagante. Ma si sa, la storia
insegna, erano anni in cui, da un lato, il suono di Seattle imperversava, e dall’altro
è probabile che, nel mare magnum delle alternative rock band nascenti in quel
periodo, agli Afghan Whigs, nonostante la proposta musicale di gran lunga superiore
alla media, mancasse un certo hype (ho la sensazione che fosse un gruppo di
nicchia anche se proprio così non è). Ammetto che ritrovarli oggi ancora sulle
scene e con un disco nuovo di zecca, faccia un certo effetto. Soprattutto perché
quelli come me, che hanno vissuto una stagione mangiando pane e Gentlemen,
vivranno questo disco con confliggenti sentimenti: sorpresa, paura di
ritrovarsi di fronte amici parecchio invecchiati, e per converso il piacere di fare
un viaggio a ritroso nel tempo per tornare agli anni luminosi della giovinezza
e all’ultimo decennio musicale attraversato da eccitanti impeti creativi. Così,
dopo aver messo il cd nel lettore, non senza una buona dose di timore, è con un
sospiro di sollievo che, fin dal primo ascolto, posso affermare che Do To The Beast
è davvero un buon disco.
Mettiamo subito le mani avanti per arginare eventuali detrattori:
lo so, mancano Steve Earle e soprattutto Rick Mc Collum (il suono Afghan Wighs
nasceva soprattutto dalla sua chitarra) e la voce di Greg Dulli non graffia più
come un tempo. Eppure, le dieci canzoni di cui si compone la scaletta dell’album
suonano esattamente come avrebbero potuto suonare all’epoca (al netto di
qualche scoria ereditata dai Twilight Singers), inserendosi senza problemi tra
Black Love (di cui Do To The Beast potrebbe rappresentare un seguito) e 1965.
Insomma, Dulli ha restituito ai fans un marchio di fabbrica che sembrava andato
perduto. Così, nonostante qualche forzatura nel dosaggio di aggressività (l’iniziale
Parked Outside picchia forte per attirare l’attenzione), Do the Beast è un
disco di rock ruvido, notturno, percorso da brividi di malinconia al neon e giocato
sull’alternarsi fra flebili luci in lontananza e febbrile oscurità. Gli
ingredienti del suono che fu ci sono proprio tutti: chitarre taglienti,
atmosfere plumbee, i travolgenti crescendo, le improvvise esplosioni, il
cantato teso e irrequieto di Dulli. Sarò emotivamente coinvolto, ma non ho
trovato momenti di stanca o riempitivi, semmai alcune eccellenti canzoni che
cancellano con un colpo di spugna i sedici anni di lontananza dalla scene: la
pulsante Matamoros, la sensuale Algiers, la vibrante It Kills e la languida Can
Rova, con Dulli finalmente al meglio. Così, in questa prima parte del 2014,
priva di grandi uscite discografiche, Do To the Beast non sfigura affatto, anzi. Un
disco per nostalgici, ma non solo.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 03/05/2014
2 commenti:
ecco a cosa serve avere un blog.voci contro. bene cosi' Nick un abbraccio.
l'impressione che fosse un gruppo di nicchia l'ho avuta sempre anche io. chissà perché, in fin dei conti non erano poi più alternativa delle grunge band in voga, anzi, il loro rock aveva un qualcosa che col passare del tempo li rende ancora attuali.
Gentlemen è un capolavoro, 1965 invece il disperato tentativo di prendere altre strade. attendo che arrivi il consueto pacco per gustarmi appieno questo ultimo lavoro, da loro mi aspetto sempre tanto, anche se senza McColumn la vita non sarà la stessa
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