E' fuori di dubbio che in quattordici anni di attività
con sei dischi all'attivo la teoria dell'ibrido proposta dai Linkin Park, fin
dal loro esordio datato 2000, abbia pagato moltissimo in termini economici e di
consenso di pubblico. Rock, metal, hip hop, screamo, elettronica e tanto appeal
radiofonico sono state le chiavi vincenti di una musica meticcia che è riuscita
nel tempo a compattare schiere di adoranti fans. Merito anche, almeno per
quanto riguarda gli ultimi tre album, della lungimirante visione di Rick Rubin,
un nome e una garanzia legati a doppio filo con il successo. Ben altre
riflessioni, invece, occorerebbe fare a proposito della rilevanza artistica del
gruppo. Anche a prescindere dalla (terrificante, almeno nell'opinione di
scrive) svolta elettronica di Living Things (penultimo full lengh datato
2012), i Linkin Park non sono mai riusciti a scrollarsi di dosso l'etichetta di
band dal target post adolescenziale, bravi a eccitare gli animi alzando il
volume dell'amplificatore e piazzando qualche grintoso riff, ma
sostanzialmente incapaci di percorrere fino in fondo i sentieri della
rabbia. Insomma, quel genere di musica che un liceale ascolta per impressionare
la ragazzina di turno, ma che in fin dei conti non è mai capace di far male
davvero. Da un punto di vista squisitamente qualitativo, The Hunting Party è
certamente la cosa migliore che i Linkin Park abbiamo fatto dai tempi di
Meteora, eppure nonostante ciò, si ha l'impressione che i sei ragazzi
losangelini non riescano mai a decollare veramente, a superare cioè i
confini di un prodotto che tende a ripetersi, uguale a se stesso, disco dopo
disco. Di certo, le velleità elettroniche sono state almeno in parte accantonate,
o meglio vengono diluite e gestite con attenzione e misura, così come
appaiono ridotte all'osso anche le contaminazioni hip hop. Ed è altrettanto
vero che per l'intera durata dell'album, e soprattutto nella prima
parte, si respira un'aria di restaurazione metallica, come se per la prima
volta da molto tempo Chester Bennington e Mike Shinoda avessero
riesumato una sopita ferocia, di cui forse nemmeno loro si ricordavano l'esistenza
(Keys To The Kingdom è la canzone più dura dell'intero repertorio della band).
Tuttavia, superato il forte impatto emotivo del primo ascolto, il disco svela
le pecche consuete di un nu-metal che stordisce per volumi ma non graffia mai,
che vorrebbe far paura e poi invece ripiega, inevitabilmente e
furbescamente, verso l'ammiccamento melodico che garantisce passaggi in FM
(Until It's Gone) o verso strumentali pretenziosi che finiscono per
suonare solo come bolsi riempitivi (Drawbar con Tom Morello). Un
passo avanti rispetto alla media degli ultimi tre album, ma siamo ancora ben
lontani dal disco della maturità.
VOTO: 6,5
Blackswan, venerdì 20/06/2014
2 commenti:
a un primo ascolto mi è sembrato deprimente quanto l'italia di ieri...
ma se ritrovo fiducia proverò a dargli un altra possibilità.
Devo ancora ascoltarlo, è una band che non ho mai amato nè disprezzato. E' in quel limbo di sufficienza che però non mi esalta. Certo, a differenza di quasi tutto il nu metal, sono ancora qui, con indubbia dignità d'intenti. Quindi tanto di cappello.
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