Sotto il moniker di Astronauts
si cela Dan Carney, voce e chitarra dei Dark Captain Light Captain, gruppo
londinese che spazia fra territori post rock e delicate fragranze di folk
pastorale (hanno all’attivo un gran bel disco, Dead Legs and Alibis del 2011).
Una band dagli umori prevalentemente malinconici, a cui Carney, in questo
progetto solista, ha voluto uniformare il mood delle canzoni, spinto oltretutto
dal momento particolarmente critico in cui ha messo mano alle composizioni (una
lunga degenza ospedaliera a seguito di una brutta frattura alla gamba). Ne è
venuto fuori un lavoro umbratile e nebbioso, costituito da lunghe canzoni costantemente
in chiaro scuro (quasi tutte della durata superiore ai quattro minuti) che dispiegano
umori depressi attraverso paesaggi sonori in cui una bruma lattiginosa svela
solo a tratti asfittici barbagli di sole. Chitarra acustica, elettronica
minimale, arrangiamenti d’archi, briciole di psichedelia e lirismo post-rock
sono le caratteristiche di un disco dallo sviluppo sonoro omogeneo, in cui è
possibile intravvedere rimandi ai
Radiohead, a Nick Drake, a Fink o, per fare un accostamento più recente, ai
Midlake e agli Other Lives di Tamer Animals. Hollow Pound scorre, canzone dopo
canzone, con inusuale intensità, tra folktronica meditabonda (Skydive), carezzevoli
ballate in agrodolce illuminate da poche note di piano (Slow Days), languida
psichedelia che azzarda fusioni fra Radiohead e Simon & Garfunkel (Hollow
Pounds) e la scossa elettrica (anomala rispetto al resto dell’album, eppure perfettamente
contestualizzata) di Openside, lunga deriva post-rock con vista sui Sonic Youth.
Un disco il cui mood malinconico concilia la meditazione e si sposa
meravigliosamente con la caducità emotiva dell’autunno (così come suggerito
anche dalla splendida cover dell’album).
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 14/08/2014
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