20) FOO FIGHTERS - SONIC HIGHWAYS
I Foo Fighters, non lo scopriamo certo adesso, sono una macchina da
guerra tritatutto, riempiono gli stadi come pochi al mondo e inanellano
una hit via l'altra. Possiedono uno stile ben definito che si replica, album
dopo album, resistendo alle mode e restando scintillante come le cromature
di un una moto appena uscita dal concessionario Harley. Sonic Highways, a
prescindere dalle alte premesse che l'hanno generato, è l'ennesimo classico
discone rock dai volumi esagerati e dalle chitarre sferraglianti, un disco che
risucchia l'ascoltatore in un vortice di melodia e rumore in grado di
soddisfare tanto chi si eccita con lo screaming feroce di Grohl (Something From
Nothing) quanto chi apprezza aperture più radio frendly (il power pop di
Congregation). Otto canzoni, con otto diversi ospiti, dedicate a otto
differenti città. …Qui si conclude il viaggio dei Foo Fighters attraverso gli
States e qui termina un disco che conferma la grande vena di David
Grohl, un artista che ha saputo affrancarsi da un leggendario (e ingombrante)
passato, inventandosi dal nulla una delle migliori rock band da stadio del
pianeta. Energia pura: it's only
rock 'n' roll, but i like it.
19) OLD CROW MEDICINE SHOW – REMEDY
Anche
perché questi sette ragazzi non si limitano a rinverdire i fasti della
tradizione, ma amano contaminare il suono folk con un approccio incredibilmente
punk rock: alternative country, quindi, suonato in acustico ma con la potenza e
l’energia di una band che suona in elettrico. A esaltare questo aspetto, che è
una costante di Remedy, dietro la consolle arriva l’inglese Ted Hutt (Gaslight
Anthem, Flogging Molly, etc), che ha lavorato in modo molto istintivo sulla
presa diretta, trasformando la scaletta del disco in una sorta di live act in
studio. Immediatezza, potenza, gran ritmo e strumenti sbrigliati sono il fiore
all’occhiello di quello che potremmo definire il miglior capitolo della
discografia degli OCMS. Canzoni che pescano dal blue grass, che citano Dylan
(la voce di Secor, senza possederne la fascinosa asprezza, ricorda da vicino
quella del menestrello di Duluth), che sfociano in up tempo travolgenti (per
chi non mastica la materia, rimanderei alle gighe dei Pogues, giusto per farsi
un’idea) per poi adagiarsi su ballate pronunciate con accenti decisamente
bluesy. Un disco che si ascolta tutto in un fiato e che trasmette la sanguigna
passionalità di chi ha costruito la propria carriera trasformando ogni concerto
in un pogo travolgente (ascoltate 8 Dogs 8 Banjos e comprenderete il potenziale
live della band). In attesa che facciano un salto dalle nostre parti (gli Old
Crow Medicine Show non sono mai venuti a suonare in Italia) non perdetevi
questo disco: loro sono probabilmente la migliore roots band in circolazione. E
si sente.
18) SOHN - TREMORS
Il risultato finale è un album di elettronica in cui l'elettronica passa
in secondo piano, e proprio laddove l'estetica modaiola potrebbe prendere il
sopravvento sui sentimenti, la magia (delicatamente e dolorosamente) soul della
nitida voce di Sohn riporta ogni nota nell'alveo dell'emozione pura. A voler
fare il solito gioco di rimandi e riferimenti, è indubbio che l'ascolto del
disco richiami alla mente il Thom Yorke che viaggia in solitaria, Bon Iver,
James Blake, Bjork e, a parere di chi scrive, anche un certo gusto
retrò per gli anni '80 targati Bronski Beat (Lights). Nonostante ciò, la
maestria di Sohn risiede proprio nell'abbeverarsi alle fonti di ispirazione
riuscendo poi a superarle di slancio, dando vita a un songwriting
lucido e intenso, riconoscibile soprattutto nella tessitura melodica
di canzoni che raramente evaporano nel deja vu. Le volute ascensionali della
title track, il pop a cristalli sintetici di Artifice, il soul
ultraterreno di Tempest, l'abisso emozionale in cui sprofonda Paralysed sono
alcune delle vette di un disco eccellente, e rappresentano nel contempo il
meglio che il genere abbia partorito da anni. Assolutamente da non perdere.
17) THE DELINES – COLFAX
Quadri di
un toccante verismo inseriti in una cornice musicale minimale, che cita i
Cowboy Junkies e gli Spain (anche se un con atmosfere decisamente meno jazzy e
dilatate), e che sviluppa l’idea di un country soul notturno appena screziato
da accenti rock e impreziosito dai ricami di pedal steel di Tucker jackson,
vero punto di fuga di ogni composizione. Undici canzoni, tra cui la cover di
Sandman’s Coming di Randy Newman, il cui mood malinconico sarebbe perfetto per
accompagnarci su qualche Interstate “in the middle of America”, in un viaggio
tra paesaggi e emozioni, dal tramonto (la languida lentezza dell’iniziale
Calling In evoca innanzi a noi tutti i colori del crepuscolo) all’alba, così
ben disegnata nei barbagli psichedelici della conclusiva di 82nd Street (”The sun is coming up. I ain’t done in i’m
just getting up”). Rispetto alla mediocrità qualitativa delle uscite
discografiche di questa prima parte del 2014, Colfax spicca per bellezza e
intensità, tanto che verrebbe voglia di pronunciare la parola “capolavoro”. Non
è così ma poco ci manca.
16) LYKKE LI - I NEVER LEARN
I Never Learn, invece, suona come un disco maturo ed equilibrato e
in questo risiede la sua vera forza. Una misura che si percepisce fin
dalla contenuta lunghezza del disco (poco più di mezz'ora), come se Lykke
volesse porre un argine a un dolore sempre a rischio di esondazione. In
tal senso devono essere considerati anche gli arrangiamenti, non scarni ma
certamente essenziali, volti all'esaltazione di un suono acustico a
detrimento delle (poche) scorie elettroniche presenti. Un suono che scava
l'intima essenza della melodia, puntando sulla voce della cantante, contenendo
la ritmica all'indispensabile, azzerando beat e pop in favore di una nuova
natura decisamente e amaramente folk. Non tutto è centrato e talvolta il
songwriting perde fascinazione in favore di un linguaggio banalmente mainstream
(Just Like A Dream). Trattasi però di piccole incertezze, la cui mediocrità è
accentuata dall'essere accostate in scaletta ad autentiche gemme.
Quando infatti Lykke riesce a dominare la materia, la scrittura si fa
sincera, autentica, tradendo un disincanto e una disillusione che lasciano il
segno: il folk arreso della title track, il goth pop di No Rest For The Wicked
(che supera di una spanna abbondante la migliore Lana Del Rey), la ruvida
disperazione di Love Me Like I'm Not Of Stone, la miglior canzone del
disco e probabilmente la miglior ballad ascoltata quest'anno, sono di un
livello qualitativo assoluto. Difficile dire se si tratti di una svolta
definitiva oppure di una semplice parentesi artistica, e se Lykke Li, una
volta tornato il sereno, riemergerà dall'abisso per colorare di pop e
leggerezza il proprio songwriting. Allo stato, quel che conta è che I Never
Learn rappresenta l'episodio più riuscito della discografia della giovane
cantante svedese: un'opera intensa, sofferta, colonna sonora perfetta per tutti
coloro che vivono in balia dei propri tormenti interiori. The dark side of
love.
Blackswan, giovedì 25/12/2014
2 commenti:
meno male che c'è lykke li a salvare la baracca, perché le altre sono scelte terribili persino per te. :)
i foo fighters, con tutto il bene che gli voglio, hanno tirato fuori un disco davvero spento.
e di musica elettronica si vede che ne ascolti poca e pessima, visto che SOHN è solo la brutta copia di james blake e in giro ci sono un sacco di nomi electro ben più interessanti...
@ Marco: non direi. James Blake è divertente come un cactus nelle mutande e lo si ascolta solo perchè fa tanto indie, mentre Sohn con questo disco è riuscito a dare alla sua musica un sapore vagamente anni 80 che lo rende decisamente affascinante.
L'elettronica l'ascolto, ma è una musica per sfigati da sushi bar e che alla resa dei conti vale come il due di picche a briscola.
I Foo Fighters hanno fatto un disco che è uguale a tutti gli altri: energico e divertente, nè più nè meno dei precedenti. Per quanto riguarda gli altri due gruppi, temo che su MTV non passino,quindi è impossibile per te dare un giudizio :))
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