15) KENNY WAYNE SHEPERD – GOIN’ HOME
Ottima anche la scelta
delle canzoni, visto che Sheperd è andato a pescare nel repertorio degli autori
poc’anzi citati, evitando però scelte scontate (l’unica canzone conosciuta a
chi frequenta poco il genere è You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie
Dixon, rifatta l’anno scorso anche dagli Strypes nel loro disco di esordio),
per puntare invece su brani meno noti, ma non per questo qualitativamente meno
validi. La band di Sheperd, poi, è un gruppo dai meccanismi oliatissimi, che
suona a memoria, con impeto e tecnica sopraffina (alla batteria, per dirne una,
c’è Chris Layton, ex componente dei Double Trouble di SRV). Il risultato finale
è un disco di blues elettrico che possiede un’energia pazzesca, di quelli
insomma che si ascoltano in piedi, pronti a caracollare al ritmo di uno
scatenato rockin’blues (la travolgente
House Is Rocking di Stevie Ray Vaughn) o a imbracciare una air guitar per
inseguire i frenetici assoli di Kenny Wayne e soci (l’Albert King di Breaking
Up Somebody’s Home con Le chitarre di Sheper e Haynes che duettano alla grande,
è meglio di un orgasmo). Goin’ Blues in definitiva risulta, a parere di chi
scrive, il miglior disco inciso da Sheperd, il quale, quando maneggia la
materia che conosce meglio, ci fa dire senza mezzi termini che probabilmente
oggi il più grande di tutti è proprio lui (ascoltate l’assolo di You Done Lost
Your Good Thing Now e capirete il perché). Travolgente, palpitante,
filologicamente corretto, profondamente blues. Musica per vecchi un cazzo.
14) ANNA AARON – NEURO
Una
scaletta importante, suonata magnificamente anche grazie a due
ospiti come il batterista dei Cure Jason Cooper e il polistrumentista Ben
Christophers, che regge dall’inizio alla fine, fondendo, tramite un’accurata
produzione, componenti elettroniche e classiche ad altre più decisamente rock.
Le ballate Case e Simstim poste a inizio e fine album, la straniante
disomogeneità di Labyrinth (col suo piglio rock e le stravaganze percussive),
la cupissima Neurohanger, ai limiti dell’industrial, la techno rivisitata di
Girl, e le derive gotiche della già citata Stellaring che si aprono in un
ritornello di chiarità assoluta, testimoniano di un disco che stupisce per
varietà senza che però venga meno la coerenza compositiva dell’insieme.
Lussureggiante, intenso, mistico, ricco di idee, Neuro si accredita, se non
come il più bello, quantomeno come uno dei dischi più originali del 2014.
13) MY BRIGHTEST DIAMOND - THIS IS MY HAND
Un
suono che affonda le sue radici nella tradizione americana, ma che
nello specifico viene rivestito di abiti elettronici e delle acrobazie vocali
della Worden, giusto contrappunto all'esuberante presenza della sezione fiati.
Sotto queste inusitate vesti, che assumono tinte meno sgargianti nella seconda
parte del lavoro, si nasconde però l'anima di una musicista in continuo
movimento, che accantonate anche le ultime reminiscenze dark wave,
prosegue il proprio percorso spostandosi verso insediamenti più
squisitamente soul e jazzy. Il risultato è un album che, come si diceva
all'inizio, colpisce per scelte bizzarre e intuizioni fuorvianti, ma che,
a poco a poco, svela una sottostante complessità melodica, vero nucleo pulsante
del disco. Accostato inevitabilmente, e un pò banalmente, all'ultimo lavoro
di St.Vincent (il mood meno intimista della prima parte del disco mi ha
fatto però tornare in mente anche The Classic di Joan As Police
Woman), This Is My Hand ha tutte le carte in regola (Love Killer e Before
The Words, pur nella loro complessità strutturale, hanno un'incredibile
appeal radiofonico) per svelare l'originalità di My
Brightest Diamond anche al grande pubblico. Sarebbe il giusto riconoscimento
per un'artista che, ad oggi, si lascia alle spalle una prima parte di carriera
praticamente senza sbavature.
12) SIMPLE MINDS – BIG MUSIC
Però Big Music è un disco pimpante e vitale, in cui
l’ispirazione dei tempi d’oro a tratti sembra ritrovare la strada di casa. I
Simple Minds tornano e, per parafrasare un loro celeberrimo pezzo, sono più che
mai Alive And Kicking. Delle dodici canzoni in scaletta non riesco a parlare
che bene. Nonostante certi arrangiamenti un po’ troppo pompati e caciaroni,
nonostante un certo retrò-gusto cafone e smaccatamente anacronistico, le belle
canzoni non mancano. La cover di Let The Day Begin dei Call, ad esempio, è
energia pura, suona come una Waterfront 2.0 (ciò che peraltro era nelle
intenzioni del suo autore, il compianto Michael Been). Un inizio perfetto, con
l’elettronica in crescendo di Blindfolded e Midnight Walking, un finale da
applausi, con il mid tempo malinconico di Spirited Away, e in mezzo canzoni che
hanno il merito di farsi ricordare e far ricordare i bei tempi andati (Concrete
And Cherry Blossom è per tutti quelli che cercavano un’altra Don’t You). E
nonostante la brutta bestia della nostalgia riaffiori in continuazione (bello e
doloroso al contempo, ascoltare echi di Sparkle In the Rain e New Gold Dream),
Big Music si presenta come un disco che, pur zeppo di autocitazioni, suona
dannatamente moderno. Tanto che se a pubblicarlo fosse stato un gruppetto di
ggiovani pippette MTV addicted, ora si parlerebbe di miracolo. Invece per i
Simple Minds ci limitiamo a rallegrarci, ma stiamo più schisci: da chi ha
composto Someone, Somewhere In Summertime e East At Easter, ci si attendono
sempre certi standards elevati. Il che, obiettivamente, non è più possibile. Ma
va benissimo anche così: Big Music è un gran bel disco e io ho provato ancora
l'ebbrezza dei miei quindici anni. Cappotto nero, anfibi, cresta e New Gold
Dream dalla mattina alla sera. Un bel regalo di Natale.
15) SONS OF BILL – LOVE AND LOGIC
Se infatti la
strumentazione utilizzata per la registrazione dei brani pesca a piene mani
dalla tradizione a stelle e strisce (pedal steel, banjo, dobro), i Sons Of Bill
cercano sempre soluzioni originali, facendo fluttuare suoni e melodie verso il
blu acceso di certi cieli americani che paiono infiniti. Così, non sembra un
azzardo poter parlare di Space Americana, soprattutto in quegli episodi che
sono più decisamente marcati da influenze pinkfloydiane (Brand New Paradigm,
Road To Canaan, Lost In The Cosmos. Light A Light) o che imboccano la strada di
un etereo lirismo (Fishing Song, Hymnsong). Non mancano, ovviamente, citazioni
che guardano a un passato nostrano (nel senso di americano), come nell’iniziale
Big Unknown, in cui si ascolta qualcosa a metà fra i primi Rem e i Jayhawks, o
in Arms Of Landslide, nella quale è chiamata ancora in causa l’ex band di
Michael Stipe. Nel complesso, quest’ultima fatica dei Sons Of Bill, possiede
però una compattezza stilistica inequivocabile che, sono pronto a scommetterci,
lascerà a bocca aperta gli appassionati di genere. Love And Logic è un disco
inaspettato e seducente, che va assaporato con lentezza, perché solo dopo
numerosi ascolti si riescono a percepire tutte le sfumature di un suono tra i
più originali della cosiddetta Americana 2.0. Quando, infine, avrete colto la visione
d’insieme, vi renderete conto di avere tra le mani non solo una bellissima
copertina, ma anche un gran disco, uno dei migliori di questo 2014.
Blackswan, venerdì 26/12/2014
2 commenti:
Simple Minds a parte , tutta roba di nicchia, mio caro Balcky, che ascolterò molto volentieri con tutto il tempo che questa noiosa influenza mi dona con varie ed eventuali.
Felice che tu ti sia ricordato di me, ti auguro una brillante colonna sonora per i tuo futuro, con un abbraccio particolare!
grande anna aaron!
il disco dei simple minds non è male, peccato sia arrivato giusto con quegli appena 30 anni di ritardo... :)
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