La musica dei Punch Brothers, come quella di altre
band molto seguite da questo blog (i Chatam County Lines, ad esempio) viene
definita progressive blue grass. Un termine, questo, che mette in
evidenza, da un lato, l'utilizzo di strumenti tipici della tradizione
rurale americana, e dall'altro, il superamento dei confini formali entro il
quale il genere si muove. Avevamo già parlato di questo quintetto originario di
Brooklyn un paio di anni fa, a proposito del loro Who's Feeling Young Now?,
decisamente uno dei migliori dischi del 2012. I cinque ragazzi newyorkesi ci
avevano affascinato con un impasto sonoro che guardava al cuore
musicale degli Stati Uniti, plasmandolo però con un gusto che
richiamava le atmosfere malinconiche tanto care ai Radiohead (ascoltate la loro
Movement And Location per farvi un'idea); e nel contempo, ci avevano
suggestionato, ingenerando non poche aspettative su quello che sarebbe potuto essere
il prosieguo della loro carriera. Dopo un Ep (Ahoy!, pubblicato solo qualche
mese dopo il citato full lengh) che non aggiungeva nè toglieva alcunchè a
quanto di buono già ascoltato, oggi i Punch Brothers tornano con un album nuovo
di zecca, confermando in toto le ottime impressioni che il predecessore ci
aveva lasciato. Anzi, a essere sinceri, Phosphorescent Blues è anche meglio.
Non solo, infatti, ascoltiamo una band convintissima dei propri mezzi e capace
di osare, grazie anche alle indubbie capacità tecniche dei sui membri, ma ciò
che davvero ci è piaciuto è soprattutto la volontà di fare uno sforzo
ulteriore, di spingere la contaminazione del blue grass fino alle estreme
conseguenze (un discorso peraltro iniziato fin da Punch, esordio del 2008). Se
Who's Feeling Young Now? offriva all'ascolto canzoni che guardavano con
insistenza a un certo pop rock di matrice britannica, pur mantenendo una
solida connotazione roots, Phosphorescent Blues azzarda un ulteriore passo
avanti. Il Blue Grass residua nella strumentazione classica (mandolino, contrabbasso,
violino, chitarre acustiche e banjo) e in qualche raro momento, culminante
nella splendida Bool Weevil; il resto del disco, invece, è una scommessa,
peraltro, decisamente vinta. Si parte con Familiarity, che è la vera chiave di lettura
dell'intero album: una suite di dieci minuti nei quali i Punch Brothers
riescono a infilare di tutto: musica da camera, folk, pop e soul, in un
complesso susseguirsi di rimandi in cui si riesce a scorgere perfino il
Brian Wilson di Smile. A un primo acchito tutto sembra scombinato e
pretenzioso: poi, dopo ripetuti ascolti, si colgono l'audacia e il filo delle
intuizioni che sono l'amalgama, non solo del brano, ma dell'intero album.
Un disco, Phosphorescent Blues, che inizialmente perplime (sensazione
di arroganza alternative), ma che cresce a dismisura quando entriamo in
sintonia con la logica che sottende alla scaletta: rinnovare la tradizione
e giocare con le radici per vedere se l'innesto può produrre frutti
succosi che profumino di musica classica come in Passepied (Debussy), di pop
(le incantevoli Julep e I Blew It Off) e addirittura di funky soul (Magnet è
ciò che scriverebbe Prince se avesse a disposizione solo strumenti acustici).
Al comando di una band affiatatissima e dalle indubbie capacità tecniche
(andatevi a vedere i video delle loro performance dal vivo) c'è un signore che
si chiama Chris Thile: possiede una voce angelica e suona il mandolino come
Gesù. Non è un caso, quindi, se alcuni momenti di Phosphorescent Blues vi
sembreranno celestiali. Amen.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 14/01/2015
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