martedì 19 maggio 2015

MUMFORD & SONS - WILDER MIND



Senza esagerare, sia chiaro, ma ammetto di aver provato una certa simpatia per i Mumford & Sons, soprattutto per quelle frequenti derive americane che, negli anni, li hanno portati a collaborare con alcune band statunitensi (il Railroad Revival Tour con Old Crow Medicine Show e Edward Sharpe & Magnetic Zero), cercando la suggestione di una comune visione folk, nonostante l'oceano di mezzo. E, ammettiamolo senza indugi, il gruppo londinese dal vivo è davvero un bel vedere (e ascoltare): energici, coinvolgenti, capaci di trasformare ogni live act in un rito collettivo. Tutto bene se, alla resa dei conti, non ci si dovesse misurare anche con le canzoni, che sono carine, per carità, ma mai in grado di superare gli steccati di un folk pop convenzionale e indolore quanto basta per attrarre a sé stuoli di giovani fans. Onesti, dignitosissimi e decisamente vintage, grazie all'uso prevalente di strumenti acustici (segno distintivo di un suono non molto originale ma certamente gradevole), i Mumford & Sons non sono mai stati una band destinata a cambiare la storia, pur avendoci regalato in passato qualche momento davvero piacevole. Wilder Mind, terzo full lenght in studio dopo gli acclamati Sigh No More e Babel, rappresenta però una svolta significativa nella carriera del gruppo, che accantona definitivamente il folk e la strumentazione acustica, per rafforzare la caratura pop delle canzoni. Mutamento estetico più che di contenuti, e rischio commerciale calcolatissimo, dal momento che i dodici brani che compongono la track list suonano, ancor più di prima, smaccatamente mainstream e radiofonici. Il che non è necessariamente un male, ci mancherebbe; tuttavia, l'impressione è che il manierismo compositivo di Marcus Mumford e soci, prima ben mascherato da un travolgente piglio folk, mostri ora tutti i suoi congeniti limiti. Tastiere e chitarroni, inni da stadio (The Wolf, Only Love) e mood malinconico post adolescenziale sono il tratto distintivo di un disco che, a conti fatti, risulta ovvio e privo di mordente. Qualcosa di buono, qui e là, si trova, soprattutto nell'iniziale Tompkins Square Park, che richiama alla mente i The National, e in Cold Arms, ballata coinvolgente e di buona scrittura. Il resto, invece, suona frusto e privo di anima, e cita, per la gioia dei generalisti del pop, un pò di Coldplay, un pò di Editors e, perchè no, anche un pò di Killers. Insomma, banalità assortite che faranno guadagnare alla band nuova attenzione mediatica ma che dilapidano quel poco di carisma e credito artistico che si erano guadagnati coi primi due album.

VOTO: 5,5





Blackswan, martedì 19/05/2015


5 commenti:

Unknown ha detto...

Quanto mi dispiace esser daccordo con te! :((((( Silvia

Blackswan ha detto...

E' così grave ? :)

Unknown ha detto...

no dai! tutto sommato :) era per dire che i primi due album ,io, li ho adorati :)

Antonello Vanzelli ha detto...

Solo 5,5? Beh, a quel che ho sentito qualcosa mi è piaciuto molto e qualcosa pochino. Ovvio, è un album di transizione ma hanno avuto coraggio. Credo che il prossimo sarà la cartina di tornasole della loro carriera...

Blackswan ha detto...

@ Sally: ce ne faremo una ragione, credo :) i primi due album non erano male, ma quel suono folk che adoro,lo preferisco un pò meno pop :)

@ Antonello: io l'ho trovato modesto: troppo scontato, troppo ovvio, troppe canzone implasticate per la radio. De gustibus :)