Senza esagerare, sia chiaro, ma ammetto
di aver provato una certa simpatia per i Mumford & Sons,
soprattutto per quelle frequenti derive americane che, negli anni, li
hanno portati a collaborare con alcune band statunitensi (il Railroad Revival
Tour con Old Crow Medicine Show e Edward Sharpe & Magnetic Zero),
cercando la suggestione di una comune visione folk, nonostante l'oceano di
mezzo. E, ammettiamolo senza indugi, il gruppo londinese dal vivo è davvero un
bel vedere (e ascoltare): energici, coinvolgenti, capaci di trasformare ogni
live act in un rito collettivo. Tutto bene se, alla resa dei conti, non
ci si dovesse misurare anche con le canzoni, che sono carine,
per carità, ma mai in grado di superare gli steccati di un folk pop
convenzionale e indolore quanto basta per attrarre a sé stuoli di giovani fans.
Onesti, dignitosissimi e decisamente vintage, grazie all'uso prevalente di
strumenti acustici (segno distintivo di un suono non molto originale ma
certamente gradevole), i Mumford & Sons non sono mai stati una band
destinata a cambiare la storia, pur avendoci regalato in passato qualche
momento davvero piacevole. Wilder Mind, terzo full lenght in studio dopo gli
acclamati Sigh No More e Babel, rappresenta però una svolta significativa
nella carriera del gruppo, che accantona definitivamente il folk e la
strumentazione acustica, per rafforzare la caratura pop delle canzoni.
Mutamento estetico più che di contenuti, e rischio
commerciale calcolatissimo, dal momento che i dodici brani che compongono
la track list suonano, ancor più di prima, smaccatamente mainstream e
radiofonici. Il che non è necessariamente un male, ci mancherebbe;
tuttavia, l'impressione è che il manierismo compositivo di Marcus Mumford e
soci, prima ben mascherato da un travolgente piglio folk, mostri ora tutti i
suoi congeniti limiti. Tastiere e chitarroni, inni da stadio (The
Wolf, Only Love) e mood malinconico post adolescenziale sono il tratto
distintivo di un disco che, a conti fatti, risulta ovvio e privo di mordente.
Qualcosa di buono, qui e là, si trova, soprattutto nell'iniziale Tompkins
Square Park, che richiama alla mente i The National, e in Cold Arms, ballata
coinvolgente e di buona scrittura. Il resto, invece, suona frusto e privo di
anima, e cita, per la gioia dei generalisti del pop, un pò di Coldplay, un
pò di Editors e, perchè no, anche un pò di Killers. Insomma, banalità
assortite che faranno guadagnare alla band nuova attenzione mediatica ma che dilapidano
quel poco di carisma e credito artistico che si erano guadagnati coi primi due
album.
VOTO: 5,5
Blackswan, martedì 19/05/2015
5 commenti:
Quanto mi dispiace esser daccordo con te! :((((( Silvia
E' così grave ? :)
no dai! tutto sommato :) era per dire che i primi due album ,io, li ho adorati :)
Solo 5,5? Beh, a quel che ho sentito qualcosa mi è piaciuto molto e qualcosa pochino. Ovvio, è un album di transizione ma hanno avuto coraggio. Credo che il prossimo sarà la cartina di tornasole della loro carriera...
@ Sally: ce ne faremo una ragione, credo :) i primi due album non erano male, ma quel suono folk che adoro,lo preferisco un pò meno pop :)
@ Antonello: io l'ho trovato modesto: troppo scontato, troppo ovvio, troppe canzone implasticate per la radio. De gustibus :)
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