L’erba cattiva non muore
mai. Anzi, certa gramigna più passa il tempo, più si fa coriacea e resistente. Per
cui non c’è proprio nulla da stupirsi se Randy Bachman, alla veneranda età di
settantun anni, sforna uno dei suoi dischi più gagliardi e rispolvera la gloria
dei bei tempi che furono. Gli anni gloriosi dei The Guess Who e di American
Woman (era il 1970) sono lontani quasi mezzo secolo, più o meno come You Ain’t
Seen Nothing Yet e i Bachman-Turner Overdrive, che scalarono le classifiche di mezzo
mondo, scrivendo una pagina leggendaria nella storia del rock canadese. Eppure,
per parafrasare il titolo della canzone appena citata, non avevamo visto
abbastanza, non tanto insomma da poter archiviare definitivamente la carriera
dell’arzillo vecchietto. Il quale, giova ricordarlo, ha più o meno la stessa
età del nostro ex presidente del consiglio, Mario Monti. Poi, metti sul piatto
questo Heavy Blues e ti rendi conto che, al di là del mero dato anagrafico, fra
i due ci sono almeno cinquant’anni di differenza. Già, perché questo ultimo
full lengh non solo è un disco di cazzutissimo rock and roll, ma suona così
rumoroso e selvaggio, che si consiglia l’ascolto al solo pubblico adulto.
Supportato da una sezione ritmica in quota rosa (Dali Anni Brindon alla
batteria e Anna Ruddick al basso) e capace di randellare molto meglio di tanti
agguerriti maschietti, il buon Randy sfodera tutto il repertorio classic rock
che impazzava negli anni ’70, regalandosi anche lo sfizio di sfidare sullo
stesso campo ben più giovani e altrettanto quotate band (Ton Of Bricks plasma
alla grande il power rock dei Foo Fighters). Undici canzoni che citano gli Who
(il ringhio belluino dell’iniziale The Edge) e i Cream (Bad Child, insieme all’onnipresente
Joe Bonamassa), scavano alle radici del grunge (l’arcigna Little Girl Lost, in
cui rockeggia anche uno splendido zio Neil), e fondono riff pesi e melodia,
trasformando Peter Frampton in un rocker incattivito che pare aver dimenticato le
morbidezze del passato (Heavy Blues). E Bachman riesce anche, letteralmente, a
resuscitare i morti: in Confessin’ To The Devil recupera dagli archivi un
duetto registrato in studio con il grande Jeff Healy, adattandolo al contesto
di una canzone nuova di zecca (anche se qualcuno riconoscerà nel pattern un
classico blues). Heavy Blues è in definitva un disco divertente e gagliardo
come pochi, rock di primissima qualità, senza forse grandi sorprese
compositive, ma solido e potente dall’inizio alla fine. Alla faccia dei settant’anni.
Cazzo duro e senza bisogno del Viagra.
VOTO: 7
Blackswan, venerdì 10/07/2015
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