Inglese di Leeds, cantante, polistrumentista, Charlie
Barnes è l'ennesimo giovane cantautore che riversa nella propria musica pene
d'amore e mood malinconico. Il verbo è quello di un pop rock di classe,
stilisticamente molto elegante, che ha i propri riferimenti in un passato
recente, che guarda agli anni '90 e '00. Non ci vorrà molto all'ascoltatore più
attento ritrovare infatti nelle canzoni di More Stately Mansions numerosi
echi che riportano ai primi Muse (la voce di Barnes ricorda parecchio quella di
Matt Bellamy), ai Radiohead, agli Ours e, perchè no, anche a Jeff Buckley. Ora,
capisco che raccontato così non produca troppe suggestioni: eppure l'esordio di
questo ragazzo è tutt'altro che disprezzabile. Le idee, infatti, ci sono,
e le canzoni pure, così come un indiscusso talento interpretativo che
produce considerevoli dosi di pathos. Quello che manca a Barnes, è semmai la
misura. Certi brani soffrono di un eccesso di spettacolarizzazione, di
arrangiamenti un pò troppo pieni e pretenziosi, di un'emotività spinta ai
limiti del melodramma (MachbethMachbethMachbeth). In certi momenti,
il mood si fa decisamente radio frendly (Sing To God), in altri
invece si incupisce improvvisamente (Hammers), procurando un sali e scendi
sonoro che da l'impressione di essere fuori controllo. Eppure, quando
il ragazzo asciuga le canzoni e mette a fuoco l'obbiettivo, i risultati sono
assai convincenti, come in Dresden, la migliore del lotto, o nella citata
Hammers. Non abbastanza per poter parlare a proposito di Barnes come della next
big thing o della new sensation, nel modo in cui piace tanto fare alla stampa
britannica, ma nemmeno così poco da archiviare il disco fra le quisquilie. Da
tenere d'occhio in prospettiva futura.
VOTO: 6,5
Blackswan, lunedì 24/08/2015
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